CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 novembre 2013, n. 25984
Tributi – Imposte sui redditi – Accertamento induttivo – Verifica conti correnti bancari – Collaboratore familiare – Applicabilità
Svolgimento del processo
L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione, affidato ad un motivo, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio che, accogliendo parzialmente l’appello di (…), nel giudizio introdotto con l’impugnazione degli avvisi di accertamento ai fini dell’IRPEF e dell’ILOR per gli anni 1990 e 1992, emessi sulla base di verifiche sui conti correnti bancari riferibili al contribuente – che facevano seguito ad indagini a fini penali – ha escluso che per determinare il reddito soggetto a tassazione, dovessero sommarsi al totale dei versamenti effettuati su tali conti anche le somme da essi prelevati, che andavano invece decurtate dall’ammontare dell’imponibile accertato.
Il giudice d’appello, mentre ha rilevato che l’utilizzo dei conti bancari ed il conseguente ricorso all’accertamento induttivo da parte dell’ufficio sono pienamente legittimi in applicazione di precise norme di riferimento, ha tuttavia ritenuto “non condivisibili le risultanze dell’accertamento atteso che nel determinare il reddito da assoggettare a tassazione l’ufficio ha sommato al totale dei versamenti effettuati sui vari conti correnti bancari anche le somme prelevate nel contempo dagli stessi conti, che a giudizio di questo Collegio, devono invece essere decurtate dall’ammontare dell’imponibile accertato”, rilevando al riguardo “che nessun concreto riscontro obbiettivo è stato eseguito per supportare la pretesa impositiva in contestazione, mentre per altro verso non si può non tenere conto anche del fatto che, come ha sostenuto l’appellante, questi, a partire dal 1989 e dunque anche negli anni” oggetto dell’accertamento ha svolto semplicemente attività di “familiare coordinatore” della moglie, a quell’epoca titolare dell’impresa esercente il commercio di orologi ed oggettistica”. Ed ha perciò rideterminato il reddito imponibile a carico del contribuente – “si ritiene più rispondente alla realtà dei fatti determinare il reddito imponibile.” – decurtando, tanto per il 1990 che per il 1992, dall’importo accertato “le somme in uscita”, vale a dire i prelievi.
Il contribuente resiste con controricorso, articolando un motivo di ricorso incidentale.
Motivi della decisione
I ricorsi principali e quello incidentale, siccome proposti nei confronti della medesima sentenza, vanno riuniti per essere definiti con unica pronuncia.
Va anzitutto dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze, rimasto estraneo al giudizio di merito, introdotto successivamente al 1° gennaio 2001 e svoltosi nei soli confronti dell’Agenzia delle entrate, divenuta operativa a quella data, ed alla quale deve attribuirsi la qualità di successore a titolo particolare dello stesso Ministero (Cass., sez. un., 14 febbraio 2006, n. 3116).
Con l’unico motivo del ricorso principale, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 32 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nonché dell’art. 113 cod. proc. civ., l’amministrazione deduce l’erroneità e la contrarietà alla lettera della prima disposizione in rubrica, assumendo che la Commissione abbia così “voluto decidere secondo equità”, in clamorosa violazione della norma di cui all’art. 113 cod. proc. civ., “la quale impone al giudice di giudicare secondo diritto”.
Con il ricorso incidentale il contribuente, denunciando violazione dell’art. 32, primo comma, e 39, secondo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, nonché vizio di motivazione, deduce l’illegittimità del ricorso dell’ufficio all’accertamento induttivo “nei confronti di un contribuente qualificato dallo stesso giudice d’appello corte semplice collaboratore familiare nell’ambito dell’attività commerciale della moglie, e quindi non come imprenditore, anche in considerazione del fatto che l’accertamento sarebbe stato basato unicamente sulle risultanze di conti correnti bancari intestati non solo al contribuente e alla moglie, titolare di autonoma attività commerciale, bensì ai figli degli stessi”.
Il ricorso principale è fondato, ove si consideri che secondo la giurisprudenza di questa Corte “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, in virtù della presunzione di cui all’art. 32 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 – che, data la fonte legale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 cod. civ. per le presunzioni semplici – sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari vanno imputati a ricavi conseguiti dal contribuente nella propria attività d’impresa, se questo non dimostra di averne tenuto conto nella determinazione della base imponibile oppure che sono estranei alla produzione del reddito. Pertanto, il contribuente può fornire prova contraria, che deve essere valutata dal giudice in rapporto agli elementi risultanti dai conti correnti, per verificare, attraverso i riscontri possibili (date, importi, tipo di attività, soggetti coinvolti), se ed eventualmente a quali operazioni la documentazione fornita dal contribuente si riferisca, così da escludere dal calcolo dell’ imponibile soltanto quanto risultante dai singoli movimenti bancari” (Cass. n. 16650 del 2011; n. 9103 del 2001).
Si è in particolare ritenuta “manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., dell’art. 32, primo comma, n. 2, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nella parte in cui prevede che i prelevamenti effettuati nell’ambito dei rapporti bancari siano posti, come ricavi, a base delle rettifiche ed accertamenti dell’amministrazione finanziaria, se il contribuente non ne indichi il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, poiché, come osservato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 225 del 2005, detta norma non viola né l’art. 53 Cost., risolvendosi, quanto alla destinazione dei prelievi non risultanti dalle scritture contabili, in una presunzione di ricavi suscettibile di prova contraria attraverso l’indicazione del beneficiario dei prelievi, non lesiva del principio di ragionevolezza, non essendo manifestamente arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati dei conti correnti bancari effettuati da un imprenditore siano stati destinati all’esercizio dell’attività d’impresa e siano quindi considerati, detratti i relativi costi, in termini di reddito imponibile, né il principio di eguaglianza in danno dei titolari dei conti bancari, essendo la disponibilità di tali conti elemento idoneo a legittimare il rilievo meramente probatorio attribuito al prelievo non giustificato di somme” (Cass. n. 13036 del 2012).
E’ invece infondato il ricorso incidentale, in quanto “la presunzione di cui all’art. 32 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 – secondo cui sia i prelevamenti sia i versamenti operati sui conti correnti bancari vanno imputati ai ricavi conseguiti dal contribuente nella propria attività, se questo non dimostra di averne tenuto conto nella base imponibile oppure che sono estranei alla produzione del reddito – ha portata generale, nonostante l’utilizzo (nella versione applicabile ratione temporis, e cioè anteriore alla modifica recata dall’art. 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311) dell’accezione “ricavi” e non anche di quella “compensi” ed è applicabile, quindi, non solo al reddito di impresa, ma anche al reddito da lavoro autonomo e professionale” (Cass. n. 14041 del 2011). Le disposizioni dettate dall’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973, e quindi anche quelle relative all’accertamento con metodo induttivo, del resto, alla luce della previsione dell’ultimo comma trovano applicazione anche per i redditi da lavoro autonomo e professionale (“…anche per i redditi delle imprese minori e per quelli derivanti dall’esercizio di arti e professioni…”).
Il contribuente d’altronde, come si evince dalla sentenza e dal ricorso per cassazione, sostiene di aver svolto fino a tutto il 1988 “attività imprenditoriale in proprio”, sicché anche la circostanza del non attuale (in relazione ai periodi d’imposta di cui all’accertamento) svolgimento della detta attività avrebbe dovuto essere oggetto della prova contraria, al cui onere, come risulta dalla sentenza impugnata, egli non ha assolto, limitandosi a mere asserzioni (“…come ha sostenuto l’appellante…”).
In conclusione, il ricorso principale dell’Agenzia delle entrate deve essere accolto, mentre deve essere rigettato il ricorso incidentale del contribuente, la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito con il rigetto del ricorso introduttivo del contribuente.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo, mentre vanno compensate le spese relative ai gradi di merito.
P.Q.M.
Riuniti i ricorsi, dichiara inammissibile il ricorso proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze.
Accoglie il ricorso principale dell’Agenzia delle entrate e rigetta il ricorso incidentale del contribuente, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente.
Condanna il contribuente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi euro 7.000, oltre alle spese prenotate a debito.
Dichiara compensate fra le parti le spese dei gradi di merito.
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