CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 novembre 2013, n. 26124
Fallimento ed altre procedure concorsuali – Fallimento – Revocatoria fallimentare – Sproporzione tra le prestazioni – Transazione sottoscritta nel periodo sospetto – Valutazione del giudice della revocatoria – Concessioni reciproche fra le parti – Necessità
Svolgimento del processo
Con sentenza del 18 settembre 2006 la Corte di appello di Roma, in totale riforma della sentenza in data 24 giugno 2003 del Tribunale della stessa città, rigettava la domanda con cui il fallimento della s.r.l. I. – L.T.D. aveva chiesto la revoca, ai sensi dell’art. 67, comma 1 n. 1, l. fall, e dell’art. 2901 c.c., della transazione che la s.r.l. I., dichiarata fallita con sentenza del 16 settembre 1994, aveva stipulato il 15 aprile 1993 con la s.r.l. N.I., con riferimento alla controversia pendente innanzi al Tribunale di Milano ed avente ad oggetto la domanda di risarcimento dei danni formulata dalla prima nei confronti della seconda per la mancata fornitura di telefoni cellulari nella misura che si asseriva essere stata contrattualmente prevista dalle parti. In particolare, per quanto ancora interessa, la Corte di appello osservava che: 1) non sussisteva alcuna prova né tantomeno una verifica giudiziale dei “danni miliardari” che l’I. assumeva di avere subito e che essa aveva quantificato in venti miliardi di lire in citazione ed in quattro miliardi di lire in una proposta transattiva, sostenendo di avere ricevuto una controproposta di due miliardi; in particolare, nessuna prova di tale controproposta era stata offerta dal fallimento, malgrado la specifica contestazione formulata dalla convenuta 2) in ogni caso, la sproporzione tra le prestazioni nella transazione deve essere valutata avendo riguardo alle prestazioni dedotte nell’atto di transazione e non già sulla base delle pretese fatte valere nel giudizio transatto; sotto tale profilo l’atto di transazione prevedeva, a fronte della rinunzia all’azione da parte dell’I., solo concessioni di N.I. (indennizzi ed accordi per la distribuzione pluriregionale dei prodotti della società); quanto all’indennizzo consistente nella la fornitura gratuita di 300 radiotelefoni mod. P3, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, non sussisteva alcuna ammissione della convenuta sul fatto che si trattava di “fondi di magazzino”, mentre si doveva ritenere tardiva la documentazione prodotta al riguardo in appello; 3) quanto alla domanda subordinata di revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c., era rimasta sfornita di prova l’affermazione della curatela secondo cui entrambi i contraenti erano a conoscenza del gravissimo pregiudizio che la transazione avrebbe arrecato al ceto creditorio, mentre nulla era stato dedotto a proposito dell’esistenza del credito pregiudicato e dell’eventus damni.
Il fallimento della s.r.l. I. – L.T.D. propone ricorso per cassazione avverso detta sentenza, deducendo sei motivi. La s.r.l. N.I. resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno presentato memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il fallimento ricorrente deduce la violazione degli artt. 67 l.fall. e 1965 segg. c.c., lamentando che erroneamente la Corte di appello aveva ritenuto che la sproporzione tra le prestazioni dovesse intercorrere tra le prestazioni dedotte in contratto, senza considerare le originarie pretese.
Con il secondo motivo il ricorrente, deducendo la violazione degli artt. 1965 segg. c.c. e 2697 c.c., lamenta che la Corte di appello aveva ritenuto necessario, ai fini della prova della dedotta sproporzione, la piena prova dei danni sofferti dalla s.r.l. I..
Il primo ed il secondo motivo devono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi. In tema di revocatoria di transazione si deve anzitutto osservare che il divieto d’impugnazione della transazione per causa di lesione, sancito dall’art. 1970 c.c., si riferisce alle parti transigenti e non ai creditori di esse, che sono estranei all’atto. Pertanto, i creditori e, dopo il fallimento del debitore, il curatore ben possono esercitare l’azione revocatoria contro un atto di transazione posto in essere in danno delle ragioni dei creditori. Il punto, che non è controverso tra le parti, evidenzia, tuttavia, una difficoltà strutturale, alla base della esclusione della risolubilità per lesione, nel valutare tutti gli elementi che hanno indotto le parti a transigere, al fine di stabilire se la rinuncia fatta da una di esse ad alcune delle sue pretese sia o meno proporzionata a quella fatta dall’altra parte. Secondo una risalente pronunzia di questa Corte tale difficoltà dovrebbe essere superata, caso per caso, dal prudente apprezzamento del giudice di merito, e cioè “dall’accertamento giudiziale ex post di quella che era la reale situazione giuridica precedente alla transazione, e, quindi, dalla prova che dalla transazione è derivato un regolamento non conforme a tale realtà, vale a dire pregiudizievole” per i creditori (Cass. 14 maggio 1963, n. 1180, con riferimento ad una revocatoria ordinaria di transazione).
Successivamente questa Corte ha mutato orientamento con la sentenza 20 marzo 1976, n. 1016 che ha affermato il principio secondo cui la natura non aleatoria ma commutativa della transazione comporta che ciascun contraente subisca un sacrificio patrimoniale determinato, onde procurarsi un vantaggio corrispondente, e rende possibile al giudice valutare, ex art. 67, n. 1, legge fall., se la prestazione assunta dal fallito sorpassi notevolmente la controprestazione. La valutazione del giudice va effettuata, pertanto, secondo tale orientamento, con riferimento alle sole prestazioni dedotte in contratto e non anche con riferimento alle reciproche concessioni, ossia alle pretese originarie dei contraenti, poiché le valutazioni delle parti circa la situazione preesistente restano assorbite nel regolamento contrattuale, vale a dire nelle reciproche attribuzioni patrimoniali. Il principio è stato ribadito da Cass. 27 giugno 2001, n. 8808 nella cui motivazione, tuttavia, si riteneva rilevante l’apprezzamento del giudice di merito circa la notevole sproporzione tra la pretesa originaria, consacrata nel caso allora in esame in un decreto ingiuntivo, e l’importo che era stato accettato in via transattiva a fronte di un’opposizione, riconosciuta come fondata nella transazione, ma la cui reale consistenza non emergeva ictu oculi dalle mere prospettazioni dell’atto di opposizione al decreto ingiuntivo.
In proposito il collegio ritiene che non possa darsi seguito all’orientamento espresso dalle citate sentenze del 1976 e del 2001 poiché il proprium della transazione sta nel rapporto tra l’aliquid datum e l’aliquid retentum, che è apprezzabile in pieno solo a condizione di vagliare l’entità di entrambi tali elementi, ivi compreso perciò quello cui la parte abdica. Le pretese originarie, tuttavia, non possono essere assunte di per sé come parametro della concessione, essendo anche necessario valutare la portata della res dubia. Ne consegue che il rilievo della pretesa originaria non può comportare un accertamento incidentale sulla sua fondatezza, travolgendo il dato della esistenza di una res dubia, il cui proprium è rappresentato, secondo la formula più volte ripetuta da questa Corte, dal fatto di cadere “sopra un rapporto giuridico avente, almeno nell’opinione delle parti, carattere d’incertezza” (e plurimis Cass. 1.4.2010, n. 7999; Cass. 6 maggio 2003, n. 6961; Cass. 22 febbraio 2000, n. 1980). Il compito del giudice della revocatoria è, invece, quello di “dare un peso” alla res dubia e, conseguentemente, stimare il valore della pretesa originaria sulla base del grado di incertezza che la caratterizza. Del resto nella prospettiva dell’azione revocatoria promossa ai sensi dell’art. 67, comma primo, n. 1 ciò che conta è il rapporto tra il valore che è uscito dal patrimonio del debitore ed il valore che è entrato e nella specie, nella valutazione di tali valori, che sono proprio quelli delle reciproche concessioni, è possibile soltanto un giudizio probabilistico. Il giudice della revocatoria è chiamato, pertanto, a stabilire il valore della pretesa originaria principalmente sulla base delle probabilità di successo, tenendo conto dell’alea del giudizio, alla stregua del grado di controvertibilità delle ragioni in fatto ed in diritto prospettate, ma anche sulla base di quelle altre circostanze, quali la solvibilità del debitore ed il tempo necessario per l’attuazione del diritto in via giudiziale, che usualmente vengono in considerazione nella valutazione dei crediti (come in altro contesto è previsto dall’art. 2426 n. 8 c.c., che ai fini dell’iscrizione dei crediti nel conto economico di rilievo al “valore presumibile di realizzazione”).
In conclusione, in tema di revocatoria fallimentare promossa per sproporzione tra le prestazioni (art. 67, comma 1, n. 1 l. fall) ed avente ad oggetto una transazione, non si può avere riguardo né soltanto alle prestazioni dedotte nell’atto di transazione né soltanto alle pretese originarie come declinate dalla parte, ma si deve tenere conto complessivamente delle reciproche concessioni. A tal fine, tuttavia, il giudice della revocatoria non deve effettuare un accertamento incidentale in termini di fondatezza o infondatezza sulle pretese originarie, ma deve stabilirne il valore, tenendo conto, con un giudizio prognostico, sia delle probabilità di un positivo accertamento in sede giudiziaria, sia di tutte le altre circostanze (come la solvibilità del debitore ed il tempo necessario per l’attuazione del diritto in via giudiziale) che incidono sulla valutazione economica della originaria pretesa nel momento in cui la parte transigente ha ad essa rinunziato.
Tuttavia, anche in tale diversa prospettiva, che comporta una correzione della motivazione, i motivi devono essere respinti poiché dalla sentenza impugnata non risulta che il fallimento, sul quale gravava il relativo onere, abbia provato o anche soltanto dedotto gli elementi sulla cui base si potesse formulare un giudizio prognostico di valore. In questa prospettiva è decisiva l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, della totale mancanza di prova dei pretesi “danni miliardari”; né, d’altro canto, in questa sede il fallimento ha dedotto alcunché circa la sottoposizione all’esame della Corte di appello di elementi che consentissero il cennato giudizio prognostico.
Con il terzo motivo il ricorrente deduce, in via subordinata, la violazione degli artt. 1362 segg. c.c. ed il vizio di motivazione lamentando che, anche a voler confrontare le prestazioni previste dal contratto, alla Corte di appello era sfuggito lo squilibrio a sfavore della s.r.l. I. poiché per quest’ultima erano previste utilità dell’ordine di poche decine di milioni di lire (fornitura gratuita di 300 telefoni usciti di produzione; fornitura a prezzo scontato di 350 telefoni di modello in produzione; accordo di commercializzazione privo di interesse pratico sia in considerazione delle regioni cui lo stesso si riferiva sia per la mancata previsione di un diritto di esclusiva, malgrado l’imposizione di obblighi di acquisto di quantitativi minimi).
Con il quarto motivo il ricorrente lamenta il vizio di motivazione della sentenza impugnata laddove aveva affermato che la s.r.l. N.I. aveva contestato specificamente l’assunto dell’attore secondo cui i telefoni forniti gratuitamente erano fondi di magazzino; infatti, in primo grado, e solo con la comparsa conclusionale, la convenuta aveva sostenuto non già che i telefoni in questione fossero ancora in produzione, ma che gli stessi erano ancora presenti nel listino.
Il terzo ed il quarto motivo restano assorbiti dal necessario rilievo, affermato nell’esame dei precedenti motivi, delle reciproche concessioni. In difetto, infatti, dell’accertamento del valore della pretesa rinunziata è del tutto irrilevante, ai fini di una valutazione di sproporzione, stabilire il valore di quanto transattivamente attribuito alla fallita società.
Con il quinto motivo il ricorrente deduce il vizio di motivazione, lamentando che la conoscenza dello stato di insolvenza era stata esclusa per il solo fatto che era stato concesso a I. di vendere prodotti N. in cinque regioni, senza considerare le altre clausole del contratto che, senza vincolo di esclusiva, prevedevano un esame dell’ultimo bilancio I. e dettagliate informazioni bancarie, al fine di stabilire la massima esposizione che sarebbe stata consentita, e prevedevano altresì la garanzia della s.p.a. S. per il pagamento delle forniture.
Il motivo è inammissibile in quanto relativo a questione che la Corte di appello ha affrontato solo incidentalmente, avendo già rigettato la domanda per difetto del requisito oggettivo della revocatoria.
Con il sesto motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 2901 c.c., in relazione alla azione revocatoria ordinaria proposta in via subordinata, lamentando che erroneamente la Corte di appello aveva ritenuto necessaria la prova della conoscenza dello stato di insolvenza, della esistenza di un credito e dell’eventus damni.
Il motivo è infondato. Invero, come è noto, l’art. 2901 c.c. prevede, quali condizioni dell’azione revocatoria ordinaria, il consilium fraudis, la participatio fraudi e l’eventus damni. Nessuna violazione di legge, pertanto, può addebitarsi alla sentenza impugnata per avere richiesto la prova di dette condizioni, ciascuna delle quali necessaria per l’accoglimento della domanda. Si deve solo precisare che la Corte di appello non ha parlato, come erroneamente affermato dal ricorrente, di prova della conoscenza dello stato di insolvenza, ma, correttamente, di prova della «conoscenza, in capo ad entrambi i contraenti, del gravissimo pregiudizio che la transazione avrebbe arrecato all’intero ceto creditorio della I. s.r.l.». Quanto infine all’esistenza del credito è indubbio che il curatore debba provare che tutti o alcuni dei crediti ammessi al passivo esistevano già al momento dell’atto revocando (Cass. 9 aprile 1975, n. 1294).
Soccorrono giusti motivi, in considerazione della peculiarità della fattispecie, per compensare per intero le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; compensa le spese del giudizio di cassazione.
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