CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 dicembre 2013, n. 27068
Lavoro – Previdenza e assistenza – Previdenza forense – Maternità – Apposizione del limite massimo al trattamento di cui alla legge 289/03 – Fattispecie.
Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Ancona, con sentenza del 23 giugno 2009, confermava la pronuncia di prime cure che aveva accolto la domanda svolta dall’avvocato D.G., nei confronti della Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense, per la riliquidazione dell’indennità di maternità per libere professioniste, alla stregua dell’art. 70 del d.lgs. n.151 del 2001, in relazione al parto avvenuto il 4 novembre 2003; in parziale accoglimento del gravame, ed in riforma del capo della sentenza impugnata che aveva accolto la domanda di cumulo tra interessi e rivalutazione monetaria sul credito previdenziale, riconosceva alla professionista gli interessi legali e il maggior danno da svalutazione monetaria secondo gli indici ISTAT per la sola percentuale eccedente il tasso legale degli interessi.
2. La Corte territoriale, a sostegno del decisum, osservava che il tetto al trattamento di maternità per le libere professioniste, introdotto all’art. 70 del d.lgs. n. 151/2001 dal comma 3-bis della L. 15 ottobre 2003, n. 289, non trovava, nella specie, applicazione giacché la novella disponeva solo per l’avvenire e, in assenza di disposizioni transitorie, solo per le fattispecie non perfezionatesi prima della sua entrata in vigore e l’evento parto assumeva rilievo, agli effetti della disciplina applicabile, per le indennità di maternità i cui presupposti d’insorgenza (il compimento del sesto mese di gravidanza) si fossero verificati dopo l’entrata in vigore della legge anzidetta (il 29 ottobre 2003). I fatti costitutivi del diritto della professionista all’indennità de qua — la domanda presentata l’8 settembre 2003 al compimento del sesto mese di gravidanza – si erano, pertanto, realizzati in epoca antecedente alla novella legislativa. Riteneva, inoltre, applicabile, al beneficio previdenziale preteso, il divieto di cumulo tra interessi e rivalutazione monetaria sul presupposto che tale divieto si estendesse a tutti i crediti vantati nei confronti degli end gestori di forme di previdenza obbligatoria e che la diversa disposizione invocata a suffragio della tesi di segno opposto, l’art. 22, comma 36, L. 724/1994 con la successiva parziale declaratoria di incostituzionalità, non fosse pertinente giacché inerente ai soli crediti retributivi, pensionistici ed assistenziali vantati dal dipendente nei confronti del datore di lavoro.
3. Avverso tale sentenza della Corte territoriale, la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense ha proposto ricorso per cassazione fondato su due motivi. L’intimata ha resistito con controricorso, ulteriormente illustrato con memoria ex art. 378 c.p.c., e ha proposto ricorso incidentale affidato ad un unico motivo cui non ha resistito la Cassa di Previdenza.
Motivi della decisione
4. Preliminarmente va disposta la riunione dei ricorsi, ex art. 335 c.p.c., perché proposti avverso la medesima sentenza.
5. Con il primo motivo la Cassa ricorrente denuncia violazione degli artt. 70 e 71 d.lgs. n.151/2001; 1 L.n.289 del 2003; 11 disp.prel. c.c., per avere la Corte di merito erroneamente applicato le disposizioni in materia, ritenendo che elementi costitutivi del trattamento di maternità per le professioniste fossero esclusivamente l’iscrizione alla Cassa di previdenza obbligatoria di categoria, il compimento del sesto mese di gravidanza e la presentazione della domanda. La ricorrente si duole che i Giudici del gravame abbiano ritenuto inapplicabili le disposizioni dettate dall’art. 1 della legge n.289/2003 benché il relativo rapporto previdenziale non fosse esaurito all’atto dell’entrata in vigore della novella legislativa. Assume, inoltre, che l’indennità in questione è stata dal legislatore collegata ad un esteso arco temporale, qualificato dalla data del parto, o del momento diverso ad esso equiparato (aborto), ed è inscindibilmente connessa al predetto evento, quale discrimine tra le due frazioni del periodo indennizzato: la gravidanza (ultimi due mesi) e il puerperio (primi tre mesi dopo il parto). Conseguentemente, per la parte ricorrente, la novella non poteva incidere retroattivamente sui presupposti di spettanza del trattamento previdenziale, ma poteva spiegate effetti solo sui criteri di liquidazione della relativa indennità, trattandosi di prestazione non esauritasi in unico atto ma dispiegatasi nel tempo, quale effetto di un rapporto giuridico previdenziale di durata, qualificato dal parto (o da altro evento equiparato).
6. Con il secondo motivo, deducendo vizio di motivazione, la Cassa di previdenza critica la sentenza impugnata per avere dapprima ritenuto evento protetto della normativa il parto in sé, donde la ritenuta irrilevanza dell’innovazione apportata dalla legge n.289 cit., e poi negato rilevanza a gravidanza e maternità nella loro continuità temporale e, dunque, al protrarsi del trattamento in riferimento all’intero periodo considerato dalla legge, con conseguente immotivato disconoscimento dell’applicabilità, quantomeno a detto ulteriore periodo, del novellato criterio di calcolo dell’indennità de qua.
7. Il ricorso non è meritevole di accoglimento.
8. Occorre brevemente premettere che secondo l’originaria formulazione della L. 11 dicembre 1990, n. 379, art. 1 (poi riprodotto inalterato nel d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art 70), l’indennità di maternità alle professioniste si commisura “all’80 per cento di cinque dodicesimi del reddito percepito e denunciato ai fini fiscali dalla professionista nel secondo anno precedente a quello della domanda”.
9. La quantificazione dell’indennità aveva originato non pochi problemi (per il rilievo del solo reddito professionale denunciato ai fini fiscali come reddito da lavoro autonomo percepito nel secondo anno precedente a quello della domanda, cfr. Cass. 12260/2005), ai qual: il Legislatore ha poi ritenuto di dare soluzione con la legge 15 ottobre 2003, n. 289 – Modifiche all’art. 70 del testo unico di cui al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, in materia di indennità di maternità per le libere professioniste – che ha modificato l’assetto precedente.
10. Il Legislatore ha così introdotto un tetto massimo al beneficio (cinque volte l’importo minimo: art. 70, comma 2-bis); delineato un criterio temporale più stabile per l’individuazione del reddito di riferimento, che è quello del secondo anno precedente il momento dell’evento e non più il momento di presentazione della domanda (che può avvenire entro un arco di tempo complessivo di nove mesi); riformulato l’art. 70, comma 2, con la previsione che l’indennità debba essere calcolata sul solo reddito professionale “percepito e denunciato ai fini fiscali come reddito da lavoro autonomo”.
11. E‘ già stato affermato da questa Corte, e va ora ribadito, che la modifica voluta dal Legislatore del 2003 non presenta nessuno dei connotati normalmente attribuiti alle norme di interpretazione autentica e non può, pertanto, influire anche sulle situazioni manifestatesi prima della sua entrata in vigore (v., ex multis, Cass. 26568/2007).
12. Tanto premesso, nella vicenda in esame, in cui il parto è avvenuto in epoca immediatamente successiva all’entrata in vigore della novella legislativa e la domanda per il beneficio previdenziale è stata presentata in epoca precedente, si pone esclusivamente la questione del discrimine temporale per ritenere applicabile la più favorevole disciplina del d.lgs. n.151 del 2001 o la meno favorevole novella introdotta nel 2003.
13. Questa Corte, con la sentenza n. 26568 del 2007 già richiamata, nel delineare i limiti dell’intervento legislativo del 2003 motivato, nei lavori preparatori, evocando le finalità di porre riparo alle irrazionalità delle precedenti disposizioni legislative, specie sotto il profilo della mancanza di un tetto per l’indennità de qua, ha già rimarcato non potersi dubitare della legittimità della scelta legislativa di limitare l’intervento di razionalizzazione alle “fattispecie perfezionatesi dopo l’entrata in vigore della nuova norma”, considerate le cautele e i limiti che il legislatore incontra nel dettare disposizioni con efficacia retroattiva (v. Cass. n. 26568/2007 ed ivi il riferimento a Corte cost. 274/2006).
14. Rileva il Collegio che per ritenere la fattispecie perfezionata non può darsi, nella specie, rilievo alla data di presentazione della domanda amministrativa per un duplice rilievo: la richiesta del beneficio può essere proposta, a mente dell’art.71, comma 1, del decreto legislativo n.151/2001, in un ampio arco temporale, compreso fra il compimento del sesto mese di gravidanza e il 180° giorno dopo il parto, onde ne deriverebbe un’irragionevole disparità di trattamento tra le professioniste che, pur partorendo in epoca coeva, risulterebbero beneficiane del trattamento più o meno favorevole solo perché la richiesta della prestazione previdenziale sia caduta nella vigenza dell’una o dell’altra disciplina; la domanda, nel rapporto previdenziale, costituisce soltanto condizione di erogabilità della prestazione (v., in tal senso, Cass. 12513/2012).
15. Dagli stessi profili di irragionevolezza non sarebbe esente neanche l’opzione interpretativa che correlasse la disciplina applicabile all’evento, id est al tempo del parto, giacché coeve domande per il benefìcio, presentate al compimento del sesto mese di gravidanza, sarebbero assoggettate a distinte tutele economiche dipendenti solo dall’epoca del parto, nel quale caso non va sottaciuto che il parto, di regola a termine, potrebbe anche essere indotto o provocato in caso di gravidanza oltre il termine o essere programmato nelle forme del parto cesareo.
16. Ebbene ritiene il Collegio che la soluzione della questione debba muovere dalla ratio ispiratrice della disciplina in parola, volta a consentire alle professioniste a dedicarsi con serenità alla maternità evitando che la stessa si colleghi ad uno stato di bisogno o anche più semplicemente ad una diminuzione del tenore di vita (arg. da Corte cost., sentenza n. 3 del 1998) ed inserita nell’alveo della tutela della donna e del nascituro nel periodo di gestazione e della maternità e natalità nel puerperio, sicché lo stato di gravidanza della professionista, oggetto di protezione, assurge a discriminante agli effetti in esame.
17. Ciò tanto più ove si consideri che la gestazione potrebbe sfociare nel parto o nell’interruzione della gravidanza, eventi entrambi meritevoli della provvidenza economica.
18. Ne consegue che Io stato di gravidanza della professionista nel periodo antecedente l’entrata in vigore della legge n. 289 cit. (il 29 ottobre 2003) soggiace al più favorevole regime reddituale previsto dal decreto legislativo n.151/2001.
19. Nella specie pacificamente Io stato di gestazione della professionista ricadeva in epoca antecedente l’entrata in vigore delle disposizioni novellate dalla L. n. 289 cit. che non trovano, pertanto, applicazione.
20. Passando all’esame del ricorso incidentale, con unico motivo la ricorrente incidentale, impugnando il capo della sentenza che ha riconosciuto il divieto di cumulo degli interessi legali con la rivalutazione monetaria, deduce violazione dell’art.16, comma 6 L. n.412/1991 ed errata applicazione del divieto ai crediti previdenziali vantati nei confronti degli enti privata gestori di forme di previdenza obbligatoria.
21. Anche il ricorso incidentale è infondato.
22. Invero, la L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 16, comma 6, nel disciplinare il regime degli accessori inerenti alle prestazioni dovute dagli “enti gestori di forme di previdenza obbligatoria”, ha disposto (primo periodo) che tali enti “sono tenuti a corrispondere gli interessi legali … a decorrere dalla data di scadenza del termine previsto per l’adozione del provvedimento sulla domanda” e (secondo periodo), che “l’importo dovuto a titolo di interessi è portato in detrazione delle somme eventualmente spettanti a ristoro del maggior danno subito dal titolare della prestazione per la diminuzione del valore del suo credito”.
23. Come reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, con quest’ultima disposizione è sancito il divieto di cumulo fra gli interessi legali e la rivalutazione monetaria con riferimento alle prestazioni erogate in ritardo dagli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria essendo stato previsto che la mora debba essere risarcita mediante la corresponsione della maggior somma risultante dal calcolo degli interessi e dal calcolo della rivalutazione (v., ex multis, Cass n. 12049/2011; Cass. n. 10709/2010; Cass. n. 4366/2009; Cass. n. 25889/2008; e 4366/2009).
24. La Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense, in quanto ente gestore di forme di previdenza obbligatoria, soggiace, pertanto, al divieto di cumulo.
25. In definitiva entrambi i ricorsi vanno respinti.
26. Tenuto conto della novità della questione trattata sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese del giudizio tra le parti.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi e li rigetta; spese compensate.
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