Corte di Cassazione sentenza n. 2767 del 6 febbraio 2013
SICUREZZA SUL LAVORO – INFARTO MIOCARDICO – MALATTIA PROFESSIONALE – CAUSA DI SERVIZIO
massima
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Il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di una infermità o di una lesione non coincide con il presupposto richiesto per l’attribuzione della rendita per malattia professionale, differenziandosi i due istituti – in particolare – per l’ambito e l’intensità del rapporto causale tra attività lavorativa ed evento protetto, nonché per il fatto che il riconoscimento in oggetto non consente di per sè alcun apprezzamento in ordine all’eventuale incidenza, sull’attitudine al lavoro dell’assicurato, di altri fattori di natura extraprofessionale. Pertanto, ai fini del riconoscimento della causa di servizio occorre che l’attività lavorativa possa con certezza ritenersi concausa efficiente e determinante della patologia lamentata, non potendo farsi ricorso a presunzioni di sorta e non trovando applicazione, diversamente dalla materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, la regola contenuta nell’art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni.
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FATTO
Con sentenza del 16/11/09-18/3/10 la Corte d’appello di Roma ha accolto l’impugnazione proposta da (Omissis) avverso la decisione del giudice del lavoro del Tribunale di Roma che gli aveva respinto la domanda diretta all’accertamento della dipendenza della malattia dell’infarto miocardico da causa di servizio, oltre che alla condanna della convenuta (Omissis) s.p.a. al pagamento dell’equo indennizzo ed al risarcimento del danno biologico relativo ad invalidità permanente del 40% e, per l’effetto, ha riconosciuto la fondatezza della pretesa, riconducendo la malattia alla terza categoria di cui alla Tabella “A” allegata al Decreto del Presidente della Repubblica n. 834 del 1981, e condannando, nel contempo, la società ferroviaria alla corresponsione dell’equo indennizzo, nella misura di euro 35.590.59 a decorrere dall’1/1/2000, oltre che al risarcimento del danno biologico, liquidato in euro 151.691,66, il tutto unitamente alle spese del doppio grado di giudizio. La Corte ha ritenuto sussistente la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., atta a giustificare la fondatezza delle richieste risarcitorie avanzate dal dipendente, nelle accertate condizioni ambientali e lavorative in cui il medesimo aveva dovuto operare, oltre che nel ritardo ingiustificato col quale, dopo il primo episodio di infarto, si era provveduto a fargli svolgere differenti mansioni; inoltre, la Corte ha spiegato che la perizia medico-legale aveva consentito di accertare che le condizioni ambientali e climatiche del luogo di lavoro, nonché le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, avevano rappresentato, alla stregua dei criteri di equivalenza delle cause di cui agli articoli 40 e 41 c.p., un fattore concomitante di insorgenza e di aggravamento della malattia cardiaca. Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società (Omissis) s.p.a., che affida l’impugnazione a quattro motivi di censura. Resiste con controricorso (Omissis). Entrambe le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
DIRITTO
L’eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione, sollevata dal controricorrente, non può essere accolta. La procura speciale di cui all’art. 365 c.p.c. (e non art. 366, come dice il controricorrente per mera svista) è stata conferita dall’avv. (Omissis), institore della società ricorrente, mentre l’avv. (Omissis), che ne ha autenticato la sottoscrizione, figura nell’intestazione del ricorso come difensore della stessa società ed ha sottoscritto il medesimo atto d’impugnazione. L’omissione, verosimilmente per dimenticanza, del nome del (Omissis) nella formula di conferimento della procura non è sufficiente a dar luogo a dubbi circa una diversa volontà del conferente.
1. Col primo motivo la società ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 1092 del 1972, art. 64, in relazione al disposto del Testo Unico n. 3 del 1957, art. 68, della Legge n. 564 del 1981, art. 11, del Decreto Ministeriale n. 1622 del 1983, art. 1 e degli artt. 40 e 41 c.p., nonché la carenza ed insufficienza della motivazione, il tutto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
A sostegno del motivo la ricorrente adduce che, ai fini della individuazione dei fatti di servizio rilevanti per l’accesso al beneficio dell’equo indennizzo, allorquando la malattia lamentata non sia riconducibile ad una specifica previsione tabellare delle malattie coperte dall’assicurazione Inail, grava sul lavoratore l’onere di dimostrare che la stessa sia stata contratta “nell’esercizio e a causa” della lavorazione svolta e non semplicemente in “occasione” di essa, essendo indispensabile provare la sussistenza di un rapporto causale efficiente tra malattia sofferta ed esposizione al rischio, diretto od ambientale, indotta dalle modalità di svolgimento di una determinata prestazione lavorativa. Aggiunge la ricorrente che la ragione di ciò risiede nel fatto che, contrariamente a quanto si verifica nelle ipotesi di infortunio sul lavoro e malattia professionale, nella materia dell’equo indennizzo non può trovare diretta applicazione la regola di cui all’art. 41 c.p., per effetto della quale il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, secondo cui va riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento. A conforto di quanto finora sostenuto la difesa della società evidenzia che anche il consulente di ufficio si era espresso nei termini di mera possibilità di un rapporto di concausalità dello “stress” lavorativo del dipendente alla determinazione degli eventi infartuali dal medesimo subiti.
2. Col secondo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omissione, la carenza o l’insufficienza della motivazione in ordine alla quantificazione dell’equo indennizzo, i cui criteri di determinazione sono stabiliti dalla Legge 23 dicembre 1996, n. 662, in quanto si fa notare che la Corte territoriale ha omesso di indicare i criteri di calcolo che l’hanno indotta a liquidare in euro 35.590.09 la somma concernente la provvidenza in esame.
3. Col terzo motivo la ricorrente si duole, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, della violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., in quanto ritiene che l’accertamento della sua responsabilità datoriale in ordine alla verificazione del danno biologico lamentato dalla controparte poteva discendere solo dalla verifica della sussistenza di tratti di abnormità ed esorbitanza della prestazione chiesta al dipendente rispetto al normale procedimento lavorativo, mentre un tale tipo di indagine non risultava essere stato compiuto dalla Corte territoriale, la quale aveva finito per dare risalto ad elementi che non dimostravano la straordinarietà della prestazione lavorativa.
4. Con l’ultimo motivo la ricorrente censura la sentenza per motivazione omessa, carente ed insufficiente, sia rispetto ai principi di diritto applicabili alla fattispecie che alla valutazione delle risultanze istruttorie, in quanto ritiene che la Corte di merito si è acriticamente adeguata alle conclusioni del consulente d’ufficio, senza aver considerato la documentazione versata in atti dalla quale si evinceva l’adibizione del dipendente a mansioni ridotte negli intervalli susseguitisi tra i vari accertamenti sanitari fino al definitivo mutamento delle stesse.
Osserva la Corte che il primo motivo è fondato.
Occorre, infatti, partire dalla premessa che l’equo indennizzo ha la funzione di ristorare il dipendente delle menomazioni subite a causa di infermità a causa di servizio, per cui ai fini della configurazione di quest’ultima come presupposto per il riconoscimento del beneficio in esame deve accertarsi che i fattori lavorativi oggetto di verifica rivestano il carattere, quantomeno, di concausa efficiente e determinante alla produzione dell’evento patologico.
Orbene, l’istituto dell’equo indennizzo, previsto per il pubblico impiego dal Decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, art. 68 (le cui procedure sono state notevolmente semplificate dal Decreto del Presidente della Repubblica 20 aprile 1994, n. 349 e dalla Legge 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1), è stato poi esteso ai dipendenti delle (Omissis) (Legge 6 ottobre 1981, n. 564, art. 11 e Decreto Ministeriale 2 luglio 1983, n. 1622). La relativa nozione è stata, poi, ripresa dal Decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1972, n. 1092, art. 64, che stabilisce al riguardo che i “fatti di servizio”, dai quali può dipendere una infermità o la perdita; dell’integrità fisica, sono quelli derivanti dall’adempimento degli obblighi di servizio, e che le lesioni e le infermità si considerano dipendenti da causa di servizio solo quando tale adempimento ne è stata causa ovvero concausa determinante ed efficiente (v. al riguardo Cass. sez. lav. n. 5637 dell’8/6/1999). Quindi, contrariamente a quanto si verifica in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, non può trovare diretta applicazione la regola contenuta nell’art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, che sia per sè sufficiente a produrre l’infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge, (v. in tal senso Cass. sez. lav. n. 15074 del 26/6/2009)
In materia le Sezioni Unite di questa Corte hanno ulteriormente rilevato che “la portata estensiva da attribuirsi all’espressione “fatti di servizio” e la considerazione che “la perdita permanente della integrità fisica” del pubblico dipendente può risalire, seppure in forma concausale, a predisposizione organica o costituzionale a contrarre infermità e/o a preesistenti condizioni morbose, portano a concludere che nella materia in esame si rinvengono puntualmente tutte quelle esigenze che, in relazione ad ogni controversia in materia di lavoro, impongono la completezza del ricorso e della memoria difensiva nei termini innanzi indicati, sicché non è consentito dubitare che l’onere della prova – secondo i principi generali (art. 2697 c.c.) – gravi sul dipendente, non sussistendo in materia presunzioni di dipendenza da causa di servizio, come accade, invece, per le malattie professionali tabellate” (Cass. SS.UU., 17.6.2004 n. 11353). Deve pertanto ritenersi che, ai fini del riconoscimento della “causa di servizio” in relazione all’equo indennizzo, occorre che l’attività lavorativa possa con certezza ritenersi concausa efficiente e determinante della patologia lamentata, non potendosi nella specifica materia far riferimento a presunzioni di sorta.
Siffatto principio assume rilevanza fondamentale ai fini della soluzione della presente vicenda giudiziaria, avendo la ricorrente lamentato che erroneamente i giudici di appello, in adesione alle conclusioni rassegnate dal perito d’ufficio sulla scorta di un giudizio di probabile individuazione di un rapporto di concausalità materiale tra lo “stress” lavorativo e l’insorgenza, sia della cardiopatia, sia di entrambi gli episodi di infarto, erano giunti ad affermare che poteva applicarsi il criterio dell’equivalenza delle cause di cui agli articoli 40 e 41 c.p., oltre quello probatorio del “più probabile che non”, finendo, in tal modo, per discostarsi dalla corretta applicazione del richiamato principio di causalità determinante ed efficiente.
Egualmente fondato è il secondo motivo di censura, atteso che i giudici d’appello hanno omesso qualsiasi motivazione in ordine ai criteri adottati per addivenire alla determinazione dell’equo indennizzo nella misura liquidata in dispositivo, essendosi, invece, soffermati ad indicare solo quelli propedeutici alla quantificazione del diverso danno biologico, per cui non è dato sapere qual’è stato il percorso logico-giuridico seguito per la individuazione della somma di euro 35.590,09, al cui pagamento la società (Omissis) s.p.a. è stata condannata a titolo di equo indennizzo.
Sono, invece, infondati il terzo ed il quarto motivo, in quanto le rispettive censure dirette a sindacare la corretta applicazione della norma di cui all’art. 2087 c.c. e la valutazione del materiale probatorio, si infrangono contro la validità della “ratio decidendi” sottesa all’affermazione della responsabilità datoriale in ordine alla causazione del lamentato danno biologico e non riescono a scalfire la congruità delle argomentazioni adottate a sostegno della valutazione delle prove acquisite al processo.
Invero, rispetto a queste ultime argomentazioni motivazionali le doglianze di cui al quarto motivo si risolvono in una inammissibile rivisitazione della valutazione giudiziale del materiale istruttorio che, in quanto eseguita in maniera esente da vizi di natura logico-giuridica, si sottrae ai rilievi di legittimità. Orbene, una volta acquisita la prova, attraverso le testimonianze e la consulenza d’ufficio, dell’esistenza di condizioni ambientali e lavorative sfavorevoli alle quali il dipendente era stato esposto, oltre che del manifestarsi di un ritardo ingiustificato di ben otto mesi, rispetto al primo episodio di infarto, con cui era stata decisa la sua adibizione a mansioni diverse, logicamente la Corte di merito ha dedotto che sussisteva un inadempimento colposo addebitabile alla società ai sensi della norma di cui all’art. 2087 c.c., come tale costituente fonte di danno risarcibile. Ne consegue che vanno accolti solo i primi due motivi del ricorso, in relazione ai quali la sentenza va cassata, con rinvio del procedimento alla Corte d’appello di Roma che, in diversa composizione, provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo ed il secondo motivo del ricorso, rigetta gli altri motivi e cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti e rinvia il procedimento alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione che provvederà anche in ordine alle spese.
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