CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 22 gennaio 2014, n. 2925
Reati tributari – Pene accessorie temporanee previste dall’art. 12 del d. lgs. n. 74 del 2000 – Non espressamente determinate quanto alla durata, dalla legge – Applicazione dell’articolo 37 del Codice penale
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 05/03/2013, il Tribunale di Treviso ha applicato a (…) la pena dallo stesso richiesta in accordo con il pubblico ministero. All’imputato sono stati contestati i reati di cui agli artt. 216, comma 1, n. 2, e 223 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (in Treviso, il 22/07/2010: capo A), all’art. 10 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (accertato in Treviso il 10/09/2012: capo B), agli artt. 216, comma 1, n. 2, e 223 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (in Treviso, il 08/09/2010: capo C) e all’art. 10 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (accertato in Treviso il 10/09/2012: capo D). Il Tribunale di Treviso ha applicato la pena di quattro anni di reclusione – determinata ritenendo la pena di tre anni di reclusione come pena base per quello più grave, aumentata a cinque anni di reclusione per la recidiva e a sei anni di reclusione per la continuazione, con la riduzione per il rito – e ha condannato l’Imputato al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare, applicando nei suoi confronti le pene accessorie di cui all’ultimo comma dell’art. 216 I. fall, e all’art. 12 del d. lgs. n. 74 del 2000 e «determinando la durata di quelle temporanee nel massimo edittale e comunque non superiore all’entità della pena inflitta».
2. Avverso la sentenza indicata ha proposto ricorso per cassazione, nell’interesse di (…), l’avv. (…), articolando tre motivi di doglianza di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, con riferimento all’art. 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. Il Tribunale di Treviso ha omesso di indicare i motivi di fatto e di diritto posti a fondamento della sentenza di condanna.
2.2. Inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, con riferimento all’art. 546, comma 1, lett. f), cod. proc. pen. il dispositivo della sentenza è in contrasto con la motivazione e/o incompleto, rendendo Incomprensibile la volontà del giudice. Mentre il dispositivo ha determinato la durata delle pene accessorie temporanee nel massimo edittale e comunque non superiore all’entità della pena inflitta, la motivazione indica la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque anni, con implicito riferimento all’art. 29 cod. pen., laddove l’art. 12 del d. Igs. n. 74 del 2000 prescrive, per i soli reati tributari, l’interdizione dal pubblici uffici per una durata compresa tra uno e tre anni. Si tratta di una vera e propria incompletezza del dispositivo, che è causa di nullità della sentenza. In ogni caso, l’applicazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici è erronea, sia qualora sia stata individuata sulla base dell’art. 12 del d. Igs. n. 74 del 2000, sia qualora si sia ritenuto di far riferimento all’art. 29 cod. pen.
2.3. Erronea applicazione delle sanzioni accessorie previste dall’art 12 del d. lgs. n. 74 del 2000. La sentenza impugnata ha applicato le pene accessorie di cui all’art. 12 del d. Igs. n. 74 del 2000 nella misura del massimo edittale e comunque non superiore all’entità della pena inflitta: le pene accessorie, come si evince anche dalla motivazione, sono state commisurate alla pena complessivamente irrogata per i quattro reati ascritti in continuazione, il che contrasto con l’art. 77 cod. pen.; le pene accessorie In questione dovevano invece essere parametrate alla pena principale In concreto inflitta per i due reati tributari, tenendo conto altresì del criterio condiviso dalla giurisprudenza maggioritaria secondo cui, per l’Irrogazione della pena accessoria, occorre tener conto della diminuente per il rito. Anche in caso di adesione all’orientamento minoritario in base al quale la pena accessoria prevista entro un minimo e un massimo edittale deve essere determinata sulla base dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., la sentenza sarebbe affetta da un evidente vizio di motivazione in ordine all’applicazione delle pene accessorie nella misura del massimo edittale.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato limitatamente alle pene accessorie temporanee ex art. 12 d. Igs. n. 74 del 2000, dovendo essere, nel resto, rigettato.
2. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato. Secondo li consolidato orientamento di questa Corte, nella motivazione della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, il giudizio negativo circa la ricorrenza di una delle ipotesi di cui all’art. 129 cod. proc. pen. deve essere accompagnato da una specifica motivazione soltanto nel caso in cui dagli atti o dalle deduzioni delle parti emergano concreti elementi circa la possibile applicazione di cause di non punibilità, dovendo, invece, ritenersi sufficiente, in caso contrario, una motivazione consistente nell’enunciazione – anche implicita – che è stata compiuta la verifica richiesta dalle leggi e che non ricorrono le condizioni per la pronuncia di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995, dep. 18/10/1995, Serafino, Rv. 202270). La sentenza impugnata è in linea con i prescritti requisiti motivazionali, avendo indicato, a sostegno dell’insussistenza delle condizioni per la pronuncia di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen., gli accertamenti svolti dal curatore fallimentare e la documentazione acquisita.
3. Il secondo motivo di ricorso è infondato, nei termini di seguito specificati.
Premesso che la motivazione della sentenza impugnata fa riferimento all’applicazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque anni «e» alle pene accessorie ex artt. 216, u.c., I. fall, e 12 d. lgs. n. 74 del 2000, laddove, il dispositivo menziona solo queste ultime, deve rilevarsi che gli elementi tratti dalla motivazione non risultano di pregnanza tale da giustificare una deroga alla regola della prevalenza del dispositivo quale immediata espressione della volontà decisoria del giudice (Sez. 5, n. 8363 del 17/01/2013, dep. 20/02/2013, Rimbano, Rv. 254820).
Alla luce di questi principi, nel caso di specie la statuizione relativa alle pene accessorie deve ritenersi rinvenibile nel solo dispositivo, sicché, mentre nessuna questione si presenta con riguardo alle pene accessorie di cui all’art. 216 u.c. l. fall., il generico richiamo all’art. 12 del d. Igs. n. 74 del 2000 deve ritenersi non idoneo a ricomprendere il riferimento all’interdizione dai pubblici uffici, posto che, come rilevato dai ricorrente, il titolo di reato per il quale è Intervenuta la sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. non rientra tra quelli previsti dal secondo comma del citato art. 12. Di conseguenza, la statuizione relativa alle pene accessorie di cui all’art. 12 del d. Igs. n. 74 del 2000 contenuta nel dispositivo non comprende la pena accessoria dell’interdizione dal pubblici uffici.
4. Il terzo motivo di ricorso è, invece, fondato.
Preliminarmente, deve rilevarsi che il motivo di ricorso ha ad oggetto esclusivamente la statuizione relativa alla durata delle pene temporanee di cui all’art. 12 del d. lgs. n. 74 del 2000: restano dunque escluse dal motivo sia l’applicazione delle pene accessorie di cui all’art. 216, u.c. I. fall., facendo espressamente riferimento il ricorrente all’erronea applicazione delle sanzioni accessorie previste dall’art. 12 del d. lgs. n. 74 del 2000, sia le statuizioni relative alle pene accessorie non temporanee previste dal citato art. 12.
L’esame del motivo deve muovere dall’interrogativo sulla riconducibilità della disciplina delle pene accessorie temporanee di cui all’art. 12 del d. Igs. n. 74 del 2000 nella sfera applicativa dell’art. 37 cod. pen.: si tratta, in termini più generali, di stabilire se nella nozione di pena accessoria di durata non espressamente determinata rientrino o meno le ipotesi in cui la pena accessoria è comminata attraverso la previsione di un limite minimo e di un limite massimo di durata, come appunto nel caso della disciplina di cui all’art. 12, comma 1, lett. a), b) e c), d. Igs. n. 74 del 2000.
Il Collegio è consapevole che, al riguardo, si rinvengono nella giurisprudenza di legittimità indirizzi diversi.
Si è infatti sostenuto, proprio con riferimento alle pene accessorie temporanee di cui all’art. 12 del d. Igs. n. 74 del 2000, che agli effetti dell’art. 37 cod. pen., pena accessoria di durata espressamente determinata dalla legge è anche quella per la quale la legge contempli un minimo ed un massimo spettando in tali casi al giudice, nell’ambito di tale intervallo temporale, stabilirne la concreta durata ricorrendo ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 3, n. 25229 del 17/04/2008 – dep. 20/06/2008, Ravara, Rv. 240256; In senso conforme: Sez. 3, n. 42889 del 15/10/2008 – dep. 18/11/2008, P.G. in proc. Di Vincenzo, Rv. 241538).
Ritiene il Collegio di non poter aderire a tale indirizzo, ma di condividere l’orientamento secondo cui rientra nella nozione di pena accessoria non espressamente determinata dalla legge quella per la quale è previsto un minimo ed un massimo, sicché, in tali casi, la durata della pena accessoria va parametrata dal giudice a quella della pena principale inflitta (così, sempre in una fattispecie relativa alle pene accessorie previste per i reati tributari dall’art. 12 d.lgs. n. 74 del 2000, Sez. 3, n. 41874 del 09/10/2008 – dep. 10/11/2008, Azzani e altro, Rv. 241410).
Viene in rilievo, In tal senso, la considerazione che l’art. 37 cod. pen. detta un criterio generale di applicazione delle pene accessorie, la cui durata – qualora essa «non è espressamente determinata» – è legata a quella della pena principale inflitta: il carattere generale della disciplina in esame trova conferma, come si vedrà, nella regola sussidiaria stabilita dal secondo periodo dello stesso art. 37 cod. pen., in forza della quale la durata della pena accessoria in nessun caso può superare il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di essa.
La disciplina in esame deve essere applicata nel caso in cui la pena accessoria sia comminata attraverso la previsione di un limite minimo “o” di un limite massimo di durata: è il caso, ad esempio, della disciplina ex art. 217 l.fall., a proposito della quale è consolidato l’orientamento secondo cui, in tema di bancarotta semplice, le pene accessorie devono essere commisurate alla durata della pena principale, in quanto, essendo determinate solo nel massimo, sono soggette alla regola di cui all’art. 37 cod. pen., per il quale la loro durata è uguale a quella della pena principale inflitta (così, in una fattispecie di bancarotta semplice documentale, Sez. 5, n. 23606 del 16/02/2012 – dep. 14/06/2012, Ciampini, Rv. 252960).
Ma l’ampia formulazione delle disposizioni In esame fa si che l’art. 37 cod. pen. trovi applicazione anche nel caso in cui la pena accessoria – come nella disciplina ex art. 12 d. Igs. n. 74 del 2000 – sia comminata attraverso la previsione di un limite minimo ‘‘e” di un limite massimo di durata: l’espresso riferimento della regola sussidiaria delineata dal secondo periodo dell’art. 37 cod. pen. al limite minimo “e” al limite massimo consente di rinvenire nel dato normativo una conferma alla tesi dell’applicabilità del criterio generale dell’equiparazione cronologica tra la durata della pena principale e quella della pena accessoria anche all’ipotesi qui in esame. Pertanto, anche qualora la previsione legale relativa alla pena accessoria stabilisca sia il minimo, sia il massimo di durata della pena accessoria devono trovare applicazione il criterio generale e la regola sussidiaria previsti dall’art. 37 cod. pen.
A questo proposito, un argomento ulteriore a sostegno della tesi condivisa dal Collegio può trarsi dalla considerazione che l’interpretazione disattesa comporterebbe una rilevante contrazione della sfera applicativa dell’art. 37 cod. pen., che verrebbe sostanzialmente limitata alle ipotesi di pene accessorie disciplinate in assenza di qualsiasi limite edittale nel minimo o nel massimo: ne risulterebbe cosi svilita la fisionomia di criterio generale che si ricava dalla collocazione sistematica della norma e dai tenore testuale della disposizione. D’altra parte, la disciplina delle pene accessorie temporanee dettata dall’art. 12 del d. Igs. n. 74 del 2000 non presenta, rispetto alla comminatoria edittale delle pene principali cui accede, profili che ne mettano in luce l’incompatibilità con la regola generale sancita dall’art. 37 cod. pen.
Pertanto, le pene accessorie temporanee di cui all’art. 12 del d.lgs. n. 74 del 2000 devono ritenersi non espressamente determinate, quanto alla durata, dalla legge, con conseguente applicazione dell’art. 37 cod. pen.
Di conseguenza, il Tribunale di Treviso avrebbe dovuto considerare, quale parametro di computo per le pene accessorie non determinate dal legislatore in misura fissa, quello previsto dall’art. 37 cod. pen. (ossia la quantità di pena principale inflitta per i reati cui si riferiscono le pene accessorie in questione), integrato da quello ulteriore previsto all’art. 77 cod. pen., procedendo, a tal fine, alla scissione del reato continuato (Sez. 5, n. 29780 del 30/06/2010, dep. 28/07/2010, Ramunno, Rv. 248258). La sentenza impugnata deve dunque essere annullata limitatamente alle statuizioni relative alle pene accessorie temporanee di cui al citato art. 12, con rinvio al Tribunale di Treviso che si uniformerà ai principi sopra indicati.
P.Q.M.
Annulla la sentenza Impugnata limitatamente alle pene accessorie temporanee ex art. 12 D. Lgs. n. 74/2000 con rinvio al Tribunale di Treviso. Rigetta nel resto il ricorso.
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