Corte di Cassazione sentenza n. 3181 del 11 febbraio 2013
LAVORO (RAPPORTO DI) – LICENZIAMENTO INDIVIDUALE – RISARCIMENTO DEL DANNO – ALIUNDE PERCEPTUM – CINQUE MENSILITA’ DOVUTE PER LEGGE – FATTO COLPOSO DEL LAVORATORE
massima
______________
Ai sensi dell’art. 18 della L. 300/1970, il risarcimento del danno per il periodo intercorrente tra il licenziamento illegittimo e la sentenza di annullamento del medesimo si identifica – quanto al danno eccedente le cinque mensilità dovute per legge – nelle retribuzioni non percepite, salvo che il dipendente provi di aver subito un danno maggiore o che il datore di lavoro provi l’aliunde perceptum o la sussistenza di un fatto colposo del lavoratore in relazione al danno che il medesimo avrebbe potuto evitare usando la normale diligenza. A tale ultimo fine può assumere rilievo anche la mancata iscrizione nelle liste di collocamento, ma non come circostanza di per sé sola sufficiente a ridurre il danno risarcibile, bensì come circostanza valutabile nell’ambito dell’intera condotta del lavoratore, tenendo conto altresì delle effettive e concrete possibilità di nuova occupazione.
_____________
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
(OMISSIS) ha impugnato il licenziamento intimatogli in data 10 luglio 2004 dalla datrice di lavoro (OMISSIS) s.r.l. in relazione ad un episodio contestatogli quale grave insubordinazione e consistito nell’uso di espressioni volgari e minacciose nei confronti del legale rappresentante dell’Azienda datrice di lavoro.
La domanda, respinta in primo grado, veniva accolta dalla Corte di appello di Brescia con sentenza depositata il 16 giugno 2009. Secondo la narrativa dei fatti contenuta in tale sentenza, nel corso di una discussione tra il ricorrente e suo fratello, anch’egli dipendente della convenuta, in merito alla mancanza del mangime da distribuire al bestiame, era intervenuto il legale rappresentante dell’Azienda, che aveva intimato al ricorrente di stare zitto e di procedere con il lavoro, suscitando la reazione di costui, che replicò pronunciando le frasi oggetto della successiva contestazione disciplinare.
Osservava la Corte di appello che non era configurabile nella specie alcun atto di insubordinazione, come invece contestato dalla società, poiché la reazione inconsulta del ricorrente era addebitabile ad una sua malintesa modalità di ottemperare ai compiti assegnatigli; una prospettiva, pertanto, esattamente opposta a quella del soggetto che rifiuta di adempiere i propri doveri. Non vi era stata l’inosservanza di un comando impartito dal superiore gerarchico, ma solo la manifestazione della scelta di svolgere l’attività di somministrazione del mangime al bestiame, da cui era scaturita la discussione con il fratello. Non vi era prova dell’asserito contegno aggressivo del lavoratore, essendo rimasto indimostrato l’asserito gesto di aggredire il legale rappresentante dell’azienda. Quanto all’utilizzo di frasi scurrili e minacciose, il comportamento, pur dovendo ritenersi grave e sanzionabile, non poteva integrare l’ipotesi contestata della grave insubordinazione; il fatto era rimasto un episodio occasionale, proveniente da un soggetto del quale erano note le problematiche in tema di disagio e difficoltà di ordine psichiatrico; non vi erano precedenti disciplinari; dunque la sanzione appariva non proporzionata al fatto commesso. Non poteva avere ingresso la questione della sopravvenuta inidoneità lavorativa del ricorrente, ostandovi il divieto di proposizione di domande nuove in appello.
La Corte condannava la società appellata a reintegrare l’appellante nel posto di lavoro e a corrispondergli, a titolo risarcitorio, tutte le retribuzioni maturate dal licenziamento alla effettiva reintegra.
Per la cassazione di tale sentenza l’(OMISSIS) propone ricorso affidato a nove motivi, cui resiste con controricorso (OMISSIS).
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2014 e 2119 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, chiedendo se la nozione di insubordinazione sia circoscritta al rifiuto da parte del lavoratore di adempiere i propri doveri.
Il motivo è inammissibile.
Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., la formulazione del quesito di diritto deve essere tale da circoscrivere la pronuncia del giudice nei limiti di un accoglimento o un rigetto del quesito formulato dalla parte (Cass. S.U. 26 marzo 2007 n. 7258; Cass. 7 novembre 2007 n. 23153); il quesito non può nemmeno risolversi in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata, poiché la citata disposizione è finalizzata a porre il giudice della legittimità in condizione di comprendere – in base alla sola sua lettura – l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice e di rispondere al quesito medesimo enunciando una “regula iuris” (Cass. S.U. 5 febbraio 2008 n. 2658).
Il quesito di diritto formulato dalla parte non soddisfa tali requisiti in quanto dall’eventuale risposta affermativa non potrebbe discendere la risoluzione della controversia, non valendo tale affermazione a contraddire il fondamentale passaggio della sentenza impugnata secondo cui un malinteso sulle modalità di adempimento della prestazione lavorativa non può costituire insubordinazione. Tale considerazione evidenziava come l’equivoco – e dunque l’errore – in cui era caduto il lavoratore riguardo ai limiti e alle modalità di svolgimento delle proprie mansioni rendesse il comportamento privo della intenzionalità che deve invece connotare la condotta di colui che non voglia ottemperare ai propri doveri.
Con il secondo motivo, il terzo ed il quarto motivo la ricorrente censura la sentenza per vizio di motivazione in merito alla ricostruzione e all’interpretazione del comportamento tenuto dall’(OMISSIS), sostenendo che pure il semplice uso di espressioni offensive può integrare la fattispecie dell’insubordinazione: non erano stati debitamente considerati elementi quali l’assenza di provocazione, il verificarsi del fatto dinanzi ad un altro dipendente, l’ininfluenza del livello culturale e delle abitudini lessicali, come pure delle difficoltà psicologiche del lavoratore stesso, ben potendo costui intendere il significato e la portata lesiva del proprio operato. Gli stessi elementi deponevano per un giudizio di proporzionalità della sanzione espulsiva a fronte della gravità dell’episodio.
I tre motivi, che involgono questioni di fatto tra loro connesse e possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.
Le censure mosse al percorso argomentativo si risolvono non nella individuazione di vizi logici, ma nella ricerca di un diverso apprezzamento degli elementi acquisiti al giudizio, inammissibile in questa sede (cfr., ex plurimis, Cass. n. 14267 del 2006; cfr. pure Cass. n. 2707 e n. 12912 del 2004).
Secondo un principio ripetutamente affermato da questa Corte, il ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi di motivazione della sentenza impugnata a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, deve contenere – in ossequio al disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 4, che per ogni tipo di motivo pone il requisito della specificità sanzionandone il difetto – la precisa indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di essa censurato, ovvero la specificazione d’illogicità, consistenti nell’attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi. Ond’è che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all’opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'”iter” formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame. Diversamente, si risolverebbe il motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito; cui, per le medesime considerazioni, neppure può imputarsi d’aver omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacché nè l’una nè l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo (Cass. 23 maggio 2007 n. 12052).
Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la Corte territoriale ritenuto nuova ed inammissibile in appello, la domanda di accertamento dell’estinzione del rapporto per sopravvenuta impossibilità dell’(OMISSIS) di prestare le propria attività lavorativa connessa alle precarie condizioni fisiche e psichiche che lo rendevano “invalido con totale e permanente inabilità temporanea lavorativa: 100%, non collocabile al lavoro”. Con il sesto motivo si denuncia violazione dell’art. 1256 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, chiedendosi se la sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione lavorativa per totale inidoneità fisica costituisca causa sopravvenuta di estinzione del rapporto di lavoro.
Entrambi i motivi sono infondati.
L’inidoneità fisica, quale evento successivo ad un licenziamento già intimato, non potrebbe costituire ex post ragione giustificatrice di tale atto, né – come sembra prospettare parte ricorrente – causa di estinzione automatica del rapporto di lavoro, occorrendo una nuova manifestazione di volontà datoriale che assuma l’evento sopravvenuto a fondamento della rinnovazione dell’esercizio del potere di recedere dal rapporto di lavoro. L’inidoneità lavorativa non potrebbe rilevare in sé, ma solo quale presupposto di una nuova fattispecie di licenziamento, nel caso in esame nemmeno venuta ad esistenza.
L’accertamento richiesto, vertendo su un fatto e non su un diritto, era dunque inammissibile per difetto di interesse (art. 100 c.p.c.), ancor prima che per divieto di nova in appello (art. 437 c.p.c., comma 2). Il processo può essere utilizzato solo a tutela di diritti sostanziali e deve concludersi (salvo casi eccezionali) con il raggiungimento dell’effetto giuridico tipico, cioè con l’affermazione o la negazione del diritto dedotto in giudizio, onde i fatti possono essere accertati dal giudice solo come fondamento del diritto fatto valere in giudizio (Cass. n. 17788 del 2003; v. pure Cass. 4516 del 2003).
Il settimo motivo investe il capo della sentenza con cui la società è stata condannata al risarcimento del danno Legge n. 300 del 1970, ex art. 18. Si denuncia la sentenza per violazione di legge ed omessa motivazione, non essendo stata debitamente considerata l’assenza di colpa del datore di lavoro: a) nel momento dell’intimazione del licenziamento, non potendosi imputare alla società gli effetti dell’atteggiamento di protervia tenuto dal proprio dipendente; b) dall’intimazione del licenziamento fino al momento della riforma della sentenza di primo grado, stante la validità del provvedimento datoriale non ancora rimosso giudizialmente; c) dalla data della sopravvenuta impossibilità della prestazione da parte del lavoratore, non potendo ascriversi al datore il mancato ricevimento della prestazione.
Il motivo è infondato.
La tutela risarcitoria prevista dalla Legge n. 300 del 1970, art. 18, secondo costante giurisprudenza di questa Corte, costituisce una specificazione del generale principio della responsabilità contrattuale. Ne costituiscono applicazione le decisioni che richiedono, quale presupposto dell’obbligo risarcitorio del datore di lavoro, l’imputabilità a costui dell’inadempimento secondo il precetto generale dell’art. 1218 c.c. In particolare, quanto al danno eccedente le cinque mensilità dovute per legge, si presume iuris tantum che questo corrisponda a tutte le retribuzioni non percepite in quel periodo (per tutte vedi Sez. un. 29 gennaio 1985 n. 2761, Sez. lav. 23 novembre 1992 n. 12498), salvo che il datore non provi l’aliunde perceptum o la possibilità del lavoratore di evitare il danno usando la normale diligenza (Cass. n. 3904 16 marzo 2002 n. 3904 e 2 settembre 2003 n. 12798; S.U. 29 aprile 1985 n. 2762, Cass. 23 novembre 1992 n. 12498, 19 febbraio 1992 n. 2073, Cass. 28 luglio 1994 n. 7048).
I fatti prospettati dall’attuale ricorrente non incidono sul principio di imputabilità del danno al datore di lavoro inadempiente.
Nel caso di licenziamento illegittimo annullato dal giudice con sentenza reintegratoria che ricostituisce il rapporto con efficacia ex tunc, la prestazione di fatto è resa impossibile dall’illegittimo rifiuto del datore di lavoro di ricevere la prestazione e tale situazione rende il datore de iure inadempiente fino alla effettiva reintegrazione del dipendente. Quanto al fatto prospettato sub e), prima di ogni altra considerazione, deve rilevarsi che il motivo difetta di autosufficienza, non essendo stato indicato in quale atto e in quali termini la questione della limitazione del risarcimento del danno per effetto della impossibilità della prestazione lavorativa nel periodo successivo all’accertamento della commissione medica fosse stata introdotta nel giudizio di appello, mentre la sentenza impugnata affronta la questione della inidoneità ai soli fini della “asserita sopravvenuta causa giustificativa del licenziamento”, ritenuta questione estranea al thema decidendum.
L’ottavo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c., art. 2909 c.c. e art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e vizio di omessa motivazione, per mancata considerazione dell’avvenuto passaggio in giudicato del capo della sentenza di primo grado relativo alla condanna al rilascio dell’immobile. Assume la ricorrente che la domanda che aveva originariamente proposto in via riconvenzionale era basata sulla persistenza del rapporto di lavoro, nonché sulla previsione di cui all’art. 35 c.c.n.l. di settore. Deduce che, avendo il giudice di primo grado accolto la domanda e non essendo tale capo stato specificamente impugnato dall’appellante, sullo stesso si era formato il giudicato interno e la Corte di appello non avrebbe potuto riformare tale statuizione se non violando il principio di cui all’art. 112 c.p.c. Con il nono motivo, si censura la sentenza per omesso esame del diritto al rilascio dell’immobile alla stregua della disciplina contrattuale di cui all’art. 35 c.c.n.l. di settore.
Il primo motivo è infondato ed il secondo inammissibile.
I giudici di merito hanno ritenuto che il godimento dell’immobile si fondasse sul titolo costituito dal rapporto di lavoro, con la conseguenza che in primo grado l’accoglimento della domanda riconvenzionale era stato l’effetto del rigetto dell’impugnativa del licenziamento proposta dal lavoratore e in appello il rigetto della domanda riconvenzionale era conseguenza della riforma integrale della pronuncia di primo grado e dell’accoglimento della domanda di reintegra dell’(OMISSIS) nel posto di lavoro, con conseguente ricostituzione ex tunc del rapporto, da cui il diritto del lavoratore a permanere nel godimento dell’immobile. Pur in difetto di uno specifico motivo di appello, la questione restava strettamente connessa all’accoglimento dell’impugnativa del licenziamento, in quanto la ricostituzione del rapporto con effetti retroattivi avrebbe comportato il ripristino di tutti gli effetti connessi allo stesso, da ritenersi de iure in atto, ivi compreso il diritto al godimento dell’immobile. Il giudice di appello non è incorso nel vizio di ultrapetizione, in quanto non si era formato il giudicato interno sul punto.
La questione che investe l’interpretazione dell’art. 35 c.c.n.l. è invece improponibile per mancanza produzione del testo integrale del contratto collettivo applicabile e che dovrebbe costituire oggetto di interpretazione.
L’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nella parte in cui onera il ricorrente (principale od incidentale), a pena di improcedibilità del ricorso, di depositare i contratti od accordi collettivi di diritto privato sui quali il ricorso si fonda, va interpretato nel senso che, ove il ricorrente denunci la violazione o falsa applicazione di norme dei contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (nel testo sostituito dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2), il deposito suddetto deve avere ad oggetto non solo l’estratto recante le singole disposizioni collettive invocate nel ricorso, ma l’integrale testo del contratto od accordo collettivo di livello nazionale contenente tali disposizioni, rispondendo tale adempimento alla funzione nomofilattica assegnata alla Corte di Cassazione nell’esercizio del sindacato di legittimità sull’interpretazione della contrattazione collettiva di livello nazionale (v. Sezioni Unite, sentenza 23 settembre 2010 n. 20075; conf. Cass. n. 21358 del 2010).
In conclusione, il ricorso va respinto e parte ricorrente va condannata al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in euro 4.000,00 per compensi ed euro 50,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
Possono essere interessanti anche le seguenti pubblicazioni:
- CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 3694 depositata il 7 febbraio 2023 - In tema di danno cd. differenziale, la diversità strutturale e funzionale tra l'erogazione INAIL ex art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 ed il risarcimento del danno secondo i criteri…
- CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 36841 depositata il 15 dicembre 2022 - Il danno subito dalla vittima, nell'ipotesi in cui la morte sopravvenga dopo apprezzabile lasso di tempo dall'evento lesivo, è configurabile e trasmissibile agli eredi nella…
- Corte di Cassazione ordinanza n. 29335 depositata il 23 ottobre 2023 - Oltre alla reintegra nel posto di lavoro il lavoratore ha diritto a risarcimento del danno sub specie di danno non patrimoniale ed in particolare di danno esistenziale. Il danno…
- CORTE di CASSAZIONE - Sentenza n. 20855 depositata il 18 luglio 2023 - In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, ferma la regola generale di cui al primo comma dell'art. 5, l. n. 223 del 1991, secondo cui "l'individuazione dei…
- CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 28 febbraio 2022, n. 6503 - E' ritenuto configurabile e trasmissibile iure hereditatis il danno non patrimoniale nelle due componenti di danno biologico «terminale», cioè di danno biologico da invalidità temporanea…
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 25 febbraio 2021, n. 5233 - In caso di fallimento del datore di lavoro, ove non vi sia esercizio provvisorio di impresa, il rapporto di lavoro entra in una fase di sospensione, con conseguente venir meno dell'obbligo di…
RICERCA NEL SITO
NEWSLETTER
ARTICOLI RECENTI
- Processo tributario: i dati tratti da server non c
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 7475 deposi…
- Le liberalità diverse dalle donazioni non sono sog
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 7442 depositata…
- Notifica nulla se il messo notificatore o l’
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 5818 deposi…
- Le clausole vessatorie sono valide solo se vi è ap
La Corte di Cassazione, sezione II, con l’ordinanza n. 32731 depositata il…
- Il dipendente dimissionario non ha diritto all’ind
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 6782 depositata…