Corte di Cassazione sentenza n. 3409 del 12 febbraio 2013
SOCIETA’ DI CAPITALI – SOCIETA’ PER AZIONI – ORGANI SOCIALI – AMMINISTRATORI – RESPONSABILITA’ – VERSO LA SOCIETA’ – DILIGENZA DEL MANDATARIO DA PARTE DEGLI AMMINISTRATORI – OSSERVANZA – ACCERTAMENTO – CRITERI – SCELTE DI GESTIONE – OPPORTUNITA’ ECONOMICA – VALUTAZIONE AI FINI DELL’ACCERTAMENTO DELLA DILIGENZA DELL’AMMINISTRATORE – ESCLUSIONE
massima
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All’amministratore di una società non può essere imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di sua revoca, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società. Ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, e quindi, l’eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Nell’anno 2001 la C.C. s.p.a. promosse un’azione di responsabilità nei confronti dei sigg.ri G.C. e M.C. e P.S., componenti del consiglio di amministrazione in carica nell’anno 1997, nonché del sig. R.P., all’epoca direttore generale della società, imputando loro di aver proceduto senza le dovute cautele ed i preventivi necessari accertamenti ad un costoso investimento, consistito ne1l’acquisto di un nuovo macchinario industriale, così gravando la società di oneri finanziari insostenibili e cagionandole ingenti danni.
Con sentenza del 9 dicembre 2005 il tribunale di Bergamo, all’esito di un’istruttoria nel corso della quale era stata espletata una consulente tecnica d’ufficio, rigettò la domanda della società attrice, che frattanto era stata messa in liquidazione e sottoposta a procedura di concordato preventivo.
La Cartiera C. propose appello ed il giudizio di secondo grado, essendo deceduto in corso di causa il sig. P.S., fu poi riassunto nei confronti degli eredi, sigg.ri N.S. e F.S.
La Corte di appello di Brescia, con sentenza depositata in cancelleria il 15 giugno 2011, rigettò il gravame e pose a carico dell’appellante le spese dell’intero giudizio, ivi comprese quelle della consulenza tecnica.
Detta corte ritenne, anzitutto, che non vi fossero ragioni per dichiarare nulla, o comunque per rinnovare, la consulenza tecnica disposta in primo grado, giacché le critiche in proposito formulate dall’appellante non risultavano decisive e la circostanza che il consulente avesse avuto pregressi rapporti di comunanza d’ufficio e tuttora intrattenesse rapporti di società con uno degli appellati – circostanza che avrebbe reso opportuna, ma non obbligatoria, la sua astensione – non aveva sostanzialmente inficiato l’attendibilità delle conclusioni cui il medesimo consulente era pervenuto. Quanto al merito, la stessa corte, premesso che l’addebito di responsabilità mosso agli ex amministratori ed al direttore generale della società non poteva investire l’opportunità delle scelte imprenditoriali da essi compiute, bensì soltanto l’eventuale omissione delle cautele, delle analisi e delle verifiche che tali scelte normalmente richiedono da parte di un diligente gestore, reputò che non fosse in concreto censurabile la contestata decisione di acquistare il costoso macchinario avendo gli appellati svolto le indagini e gli approfondimenti preventivi a tal fine necessari; e che, inoltre, la decisione successivamente assunta dai nuovi amministratori di dismettere dopo breve tempo l’uso del macchinario in questione, quando era ancora troppo presto per poterne verificare davvero la produttività, avesse reso del tutto indimostrabile l’eventuale nesso causale tra la precedente scelta di acquistarlo ed i danni che si pretendeva ne fossero derivati per la società.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Cartiere C., prospettando sei motivi di censura.
Il sig. M.C. ha resistito con controricorso.
Il sig. N.S., cui il ricorso è stato notificato due volte, ha depositato due controricorsi, formulando a propria volta ricorso incidentale condizionato.
Tutte le anzidette parti hanno anche prodotto memorie.
Il difensore del sig. G.C. ha esposto solo in udienza i propri argomenti.
Gli altri intimati non hanno svolto difese in questa sede.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. È stata preliminarmente eccepita dalla difesa del sig. P.S. l’inammissibilità del secondo ricorso a lui notificato, identico per contenuto al primo. Ma la questione non si pone, perché non di due ricorso si tratta, bensì di un unico ricorso notificato due volte; né certo l’inutilità di tale doppia notifica si riflette sull’ammissibilità del ricorso.
2. Si deve quindi senz’altro procedere all’esame del ricorso proposto dalla società C.C. il cui primo motivo denuncia, oltre a vizi di motivazione dell’impugnata sentenza, la violazione di una nutrita serie di articoli del codice di rito (artt. 51, 62, 63, 101, 157, 162, 192, 194, 196) e delle relative disposizioni di attuazione (artt. 90 e 92), nonché dell’art. 111 della Costituzione.
Sgombrato subito il campo da quest’ultimo riferimento, privo di una propria valenza autonoma ma destinato evidentemente solo ad una generica funzione di richiamo ai principi regolatori del giusto processo, che si pretende siano stati lesi in conseguenza della violazione delle norme processuali dianzi menzionate, è su queste ultime che occorre soffermare l’attenzione.
La doglianza investe essenzialmente lo svolgimento della consulenza tecnica disposta nel corso del giudizio di primo grado ed il mancato accoglimento, ad opera della corte distrettuale, delle censure al riguardo contenute nell’atto di appello: l’una, di carattere più generale, con cui l’appellante aveva messo in discussione la validità della consulenza nel suo insieme per difetto di imparzialità dell’ausiliario nominato dal giudice, e l’altra più specificamente rivolta a criticare il modus operandi del consulente.
Le censure dedotte a tal riguardo nel ricorso non appaiono però fondate.
2.1. Va ribadito il principio per cui la denunciata esistenza di rapporti di natura professionale e societaria tra una delle parti ed il consulente tecnico d’ufficio, se pure fosse in ipotesi tale da configurare per quest’ultimo un possibile motivo di astensione o di ricusazione (a norma dei citati artt. 51 e 63 c.p.c.), non comporterebbe comunque la nullità delle operazioni peritali espletate, volta che nessuna istanza di ricusazione è stata proposta nei suoi confronti entro il termine indicato dal secondo comma del successivo art. 192 (cfr., tra le altre, Cass. 25 maggio 2009, n. 12004; Cass. 6 giugno 2002, n. 8184; Cass. 8 marzo 2001, n. 3364; e Cass. 1 febbraio 1993, n. 1215).
È vero che, come sottolinea la difesa di parte ricorrente, questo non esclude la facoltà del giudice di disporre d’ufficio la rinnovazione della consulenza o la sostituzione del consulente per gravi motivi, a norma dell’art. 196 c.p.c.; ma una simile scelta, che rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito, non è sindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo della motivazione con cui l’uso di quei poteri è stato giustificato; e la motivazione con la quale, nel caso in esame, la corte d’appello ha disatteso l’istanza di rinnovazione delle operazioni peritali formulata dall’appellante – motivazione essenzialmente fondata sulla non rilevabilità in concreto, nella relazione di consulenza tecnica in atti, di elementi idonei a dimostrare un difetto d’imparzialità o comunque una scarsa attendibilità del consulente – fornisce un’adeguata, e quindi non censurabile, spiegazione del perché la corte di merito è pervenuta a quella decisione. Pretendere che la rinnovazione della consulenza dovesse esser disposta per il solo fatto che, ad operazioni peritali terminate, era stata posta in dubbio l’equidistanza del consulente dalle parti equivarrebbe a vanificare la disposizione che, come già ricordato, fissa un ben preciso termine entro il quale è consentito presentare l’istanza di ricusazione.
2.2. Non è condivisibile neppure la doglianza concernete l’asserita violazione, nel corso delle operazioni di consulenza, del principio del contraddittorio.
Detto principio può dirsi osservato quando il consulente abbia assolto all’obbligo di dare comunicazione ai procuratori delle parti e ai loro consulenti dell’inizio delle relative operazioni e alle parti non venga preclusa la facoltà di discutere le risultanze della consulenza, anche tramite propri tecnici di fiducia, eventualmente replicando alle argomentazioni del consulente d’ufficio o censurando le risultanze cui questi sia pervenuto e che abbia trasfuso nella propria relazione (Cass. 26 marzo 2010, n. 7281).
Nel caso in esame è indiscusso che le parti, i loro difensori ed i loro consulenti hanno avuto tempestiva comunicazione dell’inizio delle attività peritali e che hanno avuto ampia possibilità di discuterne le conclusioni. La maggiore o minor dialettica che può esservi stata, nel corso dello svolgimento della consulenza, tra il consulente d’ufficio ed i consulenti di parte, così come il mancato espletamento di un tentativo di conciliazione, non può certo comportare la nullità delle operazioni peritali; né può comportarlo il fatto che il consulente d’ufficio abbia dato o meno risposta a tutti i quesiti rivoltigli, restando comunque rimessa alla valutazione finale del giudice ogni valutazione sulla sufficienza, ai fini del decidere, delle indicazioni contenute nella relazione peritale.
L’affermazione, poi, secondo cui il consulente d’ufficio avrebbe acquisito informazioni da terzi anche dopo la formale chiusura delle operazioni peritali ed avrebbe svolto indagini senza renderne edotte le parti, ove pure corrispondesse al vero, non varrebbe comunque a determinare la nullità dell’intera consulenza, né comunque ad imporne la rinnovazione previa cassazione dell’impugnata sentenza, in difetto di un’adeguata dimostrazione della rilevanza decisiva che quelle informazioni e quelle indagini abbiano avuto sulla definizione della lite.
3. Il secondo ed il terzo motivo del ricorso principale investono più direttamente il merito della decisione e possono essere esaminati congiuntamente.
La società ricorrente lamenta, oltre a vizi di motivazione dell’impugnata sentenza, la violazione degli artt. 2392, 2396, 1710 e 2697 ce, nonché 115 e 116 c.p.c.
3.1. Il richiamo alle norme processuali da ultimo menzionate non sembra però pertinente. Nemmeno la ricorrente assume, infatti, che nel caso in esame il giudice di merito abbia violato il principio di disponibilità delle prove, ponendo a fondamento della propria decisione elementi estranei al dibattito processuale, né che abbia valutato le prove in base ad un criterio diverso da quello del proprio prudente apprezzamento. Che tale valutazione non sia condivisa dalla parte non implica, ovviamente, che vi sia stata violazione degli articoli del codice di rito sopra menzionati. Quanto, poi, al modo in cui la sentenza impugnata dà conto del ragionamento sul quale quella valutazione si basa, valorizzando l’uno piuttosto che l’altro degli elementi acquisiti al processo, se ne può discutere sotto il profilo di eventuali vizi motivazionali, ma non sotto il profilo di pretesi errores in procedendo.
3.2. Venendo agli aspetti di diritto sostanziale, è appena il caso di ricordare il principio – che anche la difesa della ricorrente mostra d’altronde di avere ben presente – secondo cui all’amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico. Una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell’amministratore, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società. Donde consegue che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e le circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, e quindi l’eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità (si vedano Cass. 28 aprile 1997, n. 3652; e Cass. 12 agosto 2009, n. 18231).
A tale principio anche la corte d’appello si è richiamata, nell’impugnata sentenza, e ad esso si è puntualmente attenuta nella decisione, evitando di esprimere valutazioni sul merito della scelta compiuta dagli amministratori della società nel procedere al contestato investimento e reputando, per il resto, che nessuna negligenza fosse imputabile ai medesimi amministratori quanto all’assunzione di informazioni ed allo svolgimento di verifiche preliminari a tale scelta. Tanto basta per escludere che si possa configurare la violazione del citato art. 2392; e lo stesso è a dirsi, con riguardo alla dedotta responsabilità del direttore generale (retta da analogo principio), per la pretesa violazione dell’art. 2396 c.c..
3.3. Neppure le regole dettate dall’art. 2697 c.c. in tema di onere della prova risultano essere state violate.
Non è in discussione il principio, già ripetutamente affermato da questa corte, secondo cui la natura contrattuale della responsabilità degli amministratori verso la società (ma lo stesso vale, ovviamente, per la responsabilità del direttore generale) comporta che quest’ultima ha soltanto l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità con il danno patito, mentre incombe sugli amministratori l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti (si vedano Cass. 29 ottobre 2008, n. 25977; e Cass. 11 novembre 2010, n. 22911).
Ma è proprio la prova della sussistenza delle violazioni imputate ai convenuti nella presente causa, oltre che del danno ipoteticamente derivatone, che la corte d’appello (come già prima il tribunale) ha ritenuto non sia stata adeguatamente fornita. Il fatto che, viceversa, la difesa di parte ricorrente reputa che tale prova vi fosse si traduce, quindi, in una censura di merito in ordine alla valutazione delle risultanze istruttorie – a parte la denuncia di vizi di motivazione dell’impugnata sentenza di cui a breve si dirà – ma non implica certo che la corte distrettuale sia incorsa in un errore di diritto nell’applicare le disposizioni di legge che regolano l’onere della prova.
3.4. In effetti gran parte del ricorso è dedicato ad analizzare le risultanze documentali acquisite in causa per dedurne che, al contrario di quanto reputato dalla corte d’appello, l’investimento compiuto dagli amministratori della società, su proposta del direttore generale, fu sconsiderata ed imprudente, perché attuata senza tener conto della condizione in cui versava l’azienda e senza un’adeguata valutazione delle prospettive di mercato e degli oneri finanziari che ne sarebbero derivati.
Ma la ricorrente non può esser seguita su questa strada, che, prima ancora di evidenziare specifici fatti decisivi in ordine ai quali la motivazione dell’impugnata sentenza risulterebbe deficitaria, si traduce in una completa rivisitazione del materiale istruttorio al fine di sollecitare dal giudice di legittimità ciò che non è invece alla sua portata: cioè un giudizio di merito diverso da quello cui la corte distrettuale è pervenuta.
Rimanendo entro i confini segnati dall’art. 360, n. 5, c.p.c., occorre invece osservare che le conclusioni alle quali è giunta la corte bresciana sono sorrette da una motivazione che appare esente da vizi. La sentenza impugnata ricostruisce nei suoi tratti essenziali la vicenda che ha dato origine alla causa; evidenzia come la scelta a suo tempo compiuta dagli amministratori della società traesse fondamento da incontestate esigenze di ammodernamento del macchinario aziendale e come il relativo investimento fosse apparso indifferibile; sottolinea che la decisione di acquisire il nuovo impianto era stata preceduta da apposite relazioni tecniche e di mercato, talune delle quali affidate ad esperti esterni alla società, e che in quel momento l’operazione appariva sostenibile anche sotto il profilo finanziario, come confermato dal credito erogato dalle banche e da imprese di leasing proprio per permettere l’acquisto dei macchinari in questione. D’altronde, se non era stato possibile compiere ancora ulteriori e più approfondite indagini prima di procedere all’investimento, ricorrendo al finanziamento bancario a tal fine necessario, ciò era dipeso – secondo la corte d’appello – soprattutto da fenomeni ostruzionistici collegati all’insanabile contrasto da tempo insorto tra i due fratelli C., ai quali faceva capo la maggioranza del capitale sociale; ma in tale frangente la già rilevata urgenza di ammodernare gli impianti e l’assenza di una valida alternativa giustificava la scelta operata.
Si tratta di argomenti ben sviluppati, privi di intrinseche contraddizioni e logicamente appaganti, soprattutto ove si consideri che le valutazioni circa il comportamento di amministratori di società, quali quelle in esame, richiedono una particolare attenzione per evitare il rischio di deformazione sempre insito in giudizi espressi ex post, occorrendo invece che le si formuli ponendosi correttamente in una prospettiva ex ante.
Nondimeno, la società ricorrente obietta e si sforza di dimostrare che il contenuto dei documenti in atti, ed in particolare delle relazioni predisposte in vista del contestato investimento, non era in realtà tale da giustificare il compimento dell’investimento medesimo. Ma questo sposta il discorso su un piano valutativo, che attiene al merito della vertenza e non già a vizi di motivazione denunciabili con ricorso per cassazione, che è destinato a sollecitare un controllo di logicità del giudizio di fatto ma non anche una revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione sarebbe esso, stesso, null’altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (cfr. tra le altre, in tal senso, Cass. 28 marzo 2012, n. 5024; Cass. 17 giugno 2011, n. 13327; e Cass. 15 aprile 2011, n. 8639). Non senza dire che i rilievi contenuti nel ricorso, cui s’è fatto cenno, per certi aspetti esulano addirittura dai limiti oltre i quali anche al giudice di merito – come prima si è ricordato – non è consentito sindacare le scelte imprenditoriali degli amministratori ed il grado di rischio ad esse inerente.
La ricorrente lamenta pure che la corte territoriale non abbia preso in considerazione altri elementi, a suo tempo evidenziati dalla difesa dell’appellante, e che non abbia dato risposta alle obiezioni da questa mosse alle valutazioni del consulente tecnico. Ma è al giudice del merito che soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento ed, a tale scopo, scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr., ex multis, Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; e Cass. 30 dicembre 2010, n. 26403), né gli ulteriori dati che la ricorrente vorrebbe valorizzare a sostegno della propria tesi appaiono di per sé soli dotati di un peso decisivo, idoneo a ribaltare le conclusioni alle quali ha condotto il ragionamento svolto dal giudice di merito. Così come privi di decisività appaiono i rilievi concernenti le valutazioni espresse dal consulente tecnico, giacché, a ben vedere, l’impugnata sentenza della corte d’appello solo assai marginalmente si appoggia su dette valutazioni.
4. Le considerazioni che precedono potrebbero del tutto esimere dall’esame del quarto e del quinto motivo del ricorso proposto dalla Cartiere C..
Tali motivi, infatti, si riferiscono ad una seconda ed autonoma ratio deciderteli che è posta a fondamento nell’impugnata sentenza della corte d’appello, la quale, come già dianzi ricordato, non solo ha escluso possa ravvisarsi un difetto di diligenza degli amministratori e del direttore generale della società nella scelta d’investimento di cui si discute, ma ha anche osservato come, ove pure viceversa quella scelta fosse da considerare incauta, non vi sia comunque la prova di un danno da essa derivato alla società. Questione, questa, che perde tuttavia di rilevanza, volta che sia destinata a restar fermo, per le ragioni sopra indicate, il giudizio che esclude ogni negligenza colpevole.
Per mera completezza varrà solo la pena di aggiungere che anche le doglianze espresse nei due motivi di ricorso ora menzionati si risolvono, in realtà, in censure di merito, non essendo per il resto viziata, né sul piano giuridico né su quello logico, la conclusione della corte d’appello secondo cui la valutazione degli effetti del contestato investimento avrebbe potuto essere compiuta con un sufficiente grado di certezza solo al termine di un periodo di utilizzazione significativa del macchinario acquistato, il che invece non è stato possibile in conseguenza della scelta dei nuovi amministratori di dismettere detto macchinario dopo brevissimo tempo. Scelta della quale non è evidentemente in discussione la legittimità, ma che obiettivamente ha precluso la possibilità di verificare, se non in termini meramente ipotetici, quali risultati economici l’utilizzazione di quel macchinario avrebbe potuto dare.
5. Anche l’ultimo motivo del ricorso principale è infondato.
Nel dolersi della violazione degli artt. 112 e 227 c.p.c., la società ricorrente riferisce di avere a suo tempo impugnato anche la statuizione con la quale il giudice di primo grado aveva posto a carico di essa società le spese della consulenza tecnica d’ufficio, quantunque al consulente fosse stato posto, tra gli altri, un quesito che era stato sollecitato dalla difesa della controparte, in realtà privo di rilevanza al fini della decisione della causa e che, del resto, non aveva trovato neppure nella relazione di consulenza un’esplicita risposta. Non avendo la corte d’appello esaminato tale questione, la società ricorrente censura l’impugnata sentenza anche sotto questo profilo.
Il lamentato vizio di omessa pronuncia, tuttavia, non sussiste, perché la corte d’appello ha confermato la sentenza del tribunale anche nella parte relativa alla condanna alle spese di cui si discute e si è perciò evidentemente pronunciata sul punto.
È vero che manca in proposito un’esplicita motivazione, ma è agevole desumere dal tenore complessivo della sentenza che a fondamento della condanna alle spese processuali della Cartiera C., comprensiva anche delle spese della consulenza, sta il principio della soccombenza.
Ciò posto, sarebbe palesemente arbitrario voler scorporare dalle spese della soccombenza una quota – che neanche si saprebbe bene come quantificare – da imputarsi nemmeno alla consulenza tecnica nella sua interezza, bensì ad una frazione dell’attività peritale posta in essere dal consulente; ed, in ogni caso, non si vede alcuna plausibile ragione giuridica per la quale ciò avrebbe dovuto esser fatto, dal momento che la decisione di disporre una consulenza tecnica e la formulazione dei quesiti da rivolgere al consulente, chiunque possa eventualmente averli suggeriti, sono atti di esclusiva competenza del giudice, sicché è del tutto naturale che il relativo onere economico sia posto a carico della parte che ha dato causa alla lite avanzando una pretesa rivelatasi poi priva di fondamento.
6. L’esame del ricorso incidentale condizionato è assorbito del rigetto del ricorso principale.
7. Al rigetto del ricorso principale fa seguito la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore degli intimati che hanno svolto difese in tale giudizio, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso principale, con assorbimento dell’incidentale, e condanna, la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, quanto ai sigg.ri M.C. e N.S., in euro 5.200,00 (di cui 5.000,00 per compensi) per ciascuno e, quanto al sig. G.C., in euro 2.200,00 (di cui 2.000,00 per compensi), oltre agli accessori di legge.
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