CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 gennaio 2014, n. 3636
Tributi – IVA – Reati fiscali – Omesso versamento – Amministratore della società – Subentro nelle quote e assunzione della carica – Controlli – Responsabilità – Conseguenze
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 31/5/2011, il Tribunale di Bergamo dichiarava S. S. colpevole del reato di cui all’art. 10 ter D. L.vo 74/2000, perché, in qualità di rappresentante legale della C. Srl, con sede in mezzo la loro, non versava entro il 27 dicembre 2006, termine previsto per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale afferente all’anno 2005 per l’ammontare complessivo di euro 50.397.
Ritenuta la recidiva, lo condannava alla pena di mesi otto di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali e alle sanzioni accessorie previste per legge.
Il tribunale considerava che la società C. s.r.l. aveva con l’erario un debito IVA per l’anno 2005 pari ad € 50.397,00, mai versato, neppure dopo la notifica dell’avviso di accertamento.
Legale rappresentante della società al momento della presentazione della dichiarazione (30 ottobre 2006) era un soggetto diverso dall’imputato, cui era subentrato il 5 dicembre 2006 (e sino al giugno 2007, data delle sue dimissioni) lo S., che era pertanto l’amministratore allo spirare del termine per il versamento dell’acconto IVA per l’anno 2006, scadente il 27 dicembre 2006. Ai fini della fattispecie penale, il 27 dicembre 2006 era quindi il termine ultimo entro il quale avrebbe dovuto essere eseguito il versamento dell’lva dovuta per l’anno 2005. Aveva sostenuto l’imputato di essere stato nella sostanza vittima di un raggiro, poiché i precedenti soci ed amministratori della C. s.r.l. non gli avevano rappresentato la reale situazione debitoria della società, scoperta la quale il prevenuto aveva deciso di rivendere le quote e fin dal gennaio 2007 era di fatto uscito dalla società medesima, salvo formalizzare la cessazione dalla carica di amministratore solo nel giugno 2007.
Il primo giudice disattendeva tuttavia la tesi difensiva, considerato che l’imputato aveva acquistato le quote societarie ed aveva assunto la carica di amministratore, potendo così prendere visione dei bilanci e sincerarsi conseguentemente delle condizioni reali della società. Egli inoltre, pur avendo asserito di essere stato turlupinato, si era ben guardato dal presentare denuncia a carico dei precedenti amministratori.
2. Avverso la sentenza interponeva appello il difensore dell’imputato, riproponendo la tesi difensiva già svolta in primo grado.
La Corte d’appello di Brescia, con sentenza del 22 novembre 2012, confermava la sentenza del tribunale di Bergamo e condannava l’appellante al pagamento delle spese processuali.
3. Avverso questa pronuncia l’imputato propone ricorso per cassazione con due motivi con cui deduce il vizio di motivazione della sentenza impugnata. La corte d’appello non avrebbe considerato che il ricorrente non aveva verificato le scritture contabili e quindi doveva considerarsi in buona fede con conseguente insussistenza dell’elemento soggettivo del contestato reato.
Inoltre il ricorrente si lamenta della mancata concessione delle attenuanti generiche.
4. Il ricorso è inammissibile.
La corte d’appello ha puntualmente motivato in proposito ritenendo che l’acquisto di quote della società e la conseguente assunzione della carica di amministratore comportano, per comune esperienza, una minima verifica della contabilità, dei bilanci e delle ultime dichiarazioni dei redditi. Ove ciò non avvenga, è evidente che colui che subentra nelle quote e assume la carica si espone volontariamente a tutte le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze. Nel caso in esame, non si trattava di un debito verso l’erario particolarmente remoto o nascosto, poiché si trattava dell’IVA dovuta sulla base dell’ultima dichiarazione (presentata nello stesso anno 2006) e quindi bastava, prima di acquistare le quote ed assumere la carica di amministratore, chiedere di visionare la dichiarazione e l’attestato di versamento all’erario dell’IVA a debito che la stessa evidenziava.
La Corte territoriale ha quindi escluso qualsivoglia raggiro o truffa (peraltro mai denunciata) di cui potesse essere stato vittima lo S., posto che anche qualora il bilancio non evidenziasse “debiti verso l’erario”, l’ultima dichiarazione (presentata nello stesso anno di subentro dello S.) evidenziava il debito sulla base del quale è stata elevata l’imputazione. Non può parlarsi di un addebito “colposo” poiché le verifiche in base alle quali lo S. era in grado di apprendere che l’iva emergente dalla dichiarazione non era stata versata e che conseguentemente il termine ultimo sarebbe scaduto il 27/12/2006, erano invero assai semplici e coincidevano con i minimi riscontri d’obbligo che debbono essere eseguiti prima del subentro nella carica. In altre parole, si trattava di un debito (con conseguente obbligo di versamento) risultante dall’ultima dichiarazione fiscale e quindi facilmente costatabile. Ammesso che lo S. non avesse eseguito neppure tale elementare riscontro, si tratterebbe comunque di un fatto- reato addebitabile a titolo di dolo eventuale, quale sarebbe l’elemento psicologico di colui che (in ipotesi) acquista quote sociali e diviene amministratore di una s.r.l. senza alcun previo controllo di natura puramente documentale almeno sugli ultimi adempimenti fiscali.
Quanto ai restanti motivi di gravame, la Corte territoriale ha puntualmente motivato rilevando per ciò che concerne le attenuanti generiche, che i precedenti penali (per pluralità e varietà di reati), uniti all’assenza di elementi valorizzabili in senso positivo, non consentivano di accogliere la relativa richiesta, peraltro del tutto generica.
5. Pertanto il ricorso va dichiarato inammissibile.
Tenuto poi conto della sentenza 13 giugno 2000 n. 186 della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento di una somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di euro mille alla Cassa delle ammende.
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