CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 settembre 2013, n. 37349
Tributi – Reati fiscali – Evasione fiscale – Dichiarazione fraudolenta – Emissione di fatture per operazioni inesistenti
Ritenuto in fatto
1. Il Sig. F. è stato condannato dal Tribunale di Roma con sentenza dell’ 8/3/2010 perché ritenuto colpevole dei reati previsti dall’art.2 del d.Igs. 10 marzo 2000, n. 74 (capo A) e dell’art. 8 della medesima legge (capo B) per avere, in concorso per il solo capo B con C. B., quale legale rappresentante della “K.N. S.r.l.” e quale amministratore di fatto della “BC C. di B. C. S.a.s.”, negli anni 2003 e 2004 fatto ricorso a fatture per operazioni inesistenti emesse dalla seconda società in favore della prima, a sua volta utilizzatrice di tali fatture e di altre ancora al fine di evasione delle imposte dirette e dell’I.v.a. Il Tribunale, mandata assolta la Sig.ra B. “perché il fatto non costituisce reato”, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche ha inflitto al sig. F. la pena di un anno e otto mesi di reclusione.
2. Con sentenza dell’ 8/6/2012 la Corte di appello di Roma, in parziale riforma di quella del Tribunale di Roma, ha confermato la sussistenza degli illeciti, ma ha dichiarato non doversi procedere in ordine al capo B) e in ordine al capo A), limitatamente al periodo d’imposta 2003, per intervenuta prescrizione e ha rideterminato la pena nella misura di un anno e due mesi di reclusione, confermando nel resto la prima sentenza.
3. Avverso tale decisione il sig. F. propone ricorso personalmente, in sintesi lamentando:
a. Errata applicazione di legge ex art. 606, lett. b) cod. proc. pen. e vizio di motivazione ai sensi dell’art. 606, lett c) cod. proc. pen. per avere la Corte di appello omesso di dare risposta alle specifiche censure mosse coi motivi d’impugnazione e fatto rinvio alla motivazione di primo grado, in particolare omettendo di illustrare le ragioni di rigetto delle questioni concernenti l’effettività delle operazioni commerciali sottostanti le fatture contestate. La Corte di appello ha, da un lato, riconosciuto che la sig.ra B. aveva esperienza lavorativa nel settore e che la “K.N.” ha registrato anche fatture di terza società, ma di questo non tiene conto quando conclude per la non operatività della società asseritamente interposta e delle fatturazioni relative. Se a ciò si aggiunge l’omessa valutazione delle testimonianze in atti (pag.3 ricorso) e il mero rinvio “per relationem” alla prima sentenza, emerge con chiarezza il vizio in cui è incorsa la sentenza di appello; in particolare: a) difetta la prova che la “BC C.” sia una società non operativa; b) vi è prova di regolari pagamenti della “K.N.” alla “BC C.” e di ordinativi di merce per via telematica; c) la Corte di appello non riesce a contrastare la “lettura alternativa” dei fatti fornita dagli imputati;
b. Errata applicazione di legge ex art. 606, lett. b) cod. proc. pen. e vizio di motivazione ai sensi dell’art. 606, lett. e) cod. proc. pen. con riferimento alla mancato applicazione dell’art.9 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 che vieta la doppia incriminazione per gli stessi fatti e con riferimento al mancato riconoscimento dell’assenza dell’elemento soggettivo del reato ex art. 43 cod. pen.;
c. Errata applicazione di legge ex art. 606, lett. b) cod. proc. pen. per avere i giudici di appello omesso di dichiarare la prescrizione dei reati;
d. Errata applicazione di legge ex art. 606, lett.b) cod. proc. pen. e vizio di motivazione ai sensi dell’art. 606, lett. e) cod. proc. pen. con riguardo al trattamento sanzionatorio, sicuramente eccessivo, e alla mancata concessione dei benefici di legge;
e. Errata applicazione di legge ex art. 606, lett. b) cod. proc. pen. e vizio di motivazione ai sensi dell’art. 606, lett. e) cod. proc. pen. con riferimento agli artt. 62-bis e 81 cod. pen.
Considerato in diritto
1. Osserva la Corte che la motivazione della Corte di appello, dopo avere affermato che i motivi di impugnazione si limitano a riproporre le tesi difensive senza confrontarsi con la motivazione specifica offerta dal Tribunale, si articola riproducendo i passaggi essenziali della sentenza di primo grado relativi alle risultanze probatorie e alla ricostruzione dei fatti (pagg. 2-18) e procedendo successivamente all’esame dei motivi d’impugnazione. Si tratta di articolazione motivazionale che potrebbe incorrere nell’ipotesi prevista dall’art. 606, lett. e) cod. proc. pen. qualora si risolvesse nel rinvio alla prima parte del percorso argomentativo e in una sostanziale carenza di argomenti dedicati alle censure dell’appellante. Così non è nel caso concreto.
2. Deve, infatti, rilevarsi sul punto che la Corte di appello non si è limitata a sottolineare come gli argomenti dell’appellante (sintetizzati compiutamente a pag.18) siano la riproposizione delle tesi esposte davanti al primo giudice, e da questi smentite, ma aggiunge che a proprio parere tali argomenti non raggiungono “neppure la soglia della probabilità concreta”. Tale conclusione è stata nelle pagine successive motivata mediante l’esame delle tesi difensive concernenti: a) i pagamenti della “K.N.” alla società apparente venditrice; b) le 16 fatture che, su un totale di circa 370, sono state emesse nei confronti di società terze; c) le dichiarazioni testimoniali invocate a supporto della impostazione difensiva (e contrariamente all’assunto difensivo esaminate in modo specifico dal Tribunale alle pagg, 6-7 della motivazione); d) l’elemento soggettivo del reato (il Tribunale ha riconosciuto la non utilizzabilità delle presunzioni tributarie, pag.8, e l’esigenza di utilizzare i criteri in tema di prova e di indizi fissati dal codice processuale).
3. Quanto appena esposto consente alla Corte di affermare che la Corte di appello non ha omesso di esaminare le censure mosse coi motivi di impugnazione e ha, seppure sinteticamente, illustrato le ragioni che conducono a ritenere sussistente la fittizietà delle fatturazioni e la infedeltà delle dichiarazioni, così confermando la ricostruzione dei fatti operata dal primo giudice e respingendo la diversa ricostruzione dei fatti offerta dalla Difesa.
Rileva, ancora, la Corte che il ricorrente erra allorché ritiene che la proposizione da parte della difesa di una “tesi alternativa” possibile costituisca elemento che impone di ritenere sussistente un “ragionevole dubbio” in grado di neutralizzare l’accusa. La Corte di appello ha correttamente affermato il principio secondo cui l’ipotesi alternativa della difesa deve raggiungere un livello di probabilità in grado di neutralizzare sul piano logico quanto sostenuto dalla pubblica accusa, e ciò avviene quando i fondamenti valutativi del materiale probatorio e gli elementi ricostruttivi dei fatti non consentono di ritenere accertati i presupposti del reato.
Sovvengono sul punto in relazione al contenuto del ricorso avanti questo giudice i principi interpretativi in tema di limiti del giudizio di legittimità e di definizione dei concetti di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, nonché in tema di travisamento del fatto che sono contenuti nelle sentenze delle Sez. Un., n. 2120, del 23 novembre 1995-23 febbraio 1996, Fachini, rv 203767, e n.47289 del 2003, Petrella, rv 226074. In tale prospettiva di ordine generale deve essere seguita la costante affermazione giurisprudenziale del principio secondo cui è “preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti” (fra tutte: Sez.6, sentenza n.22256 del 26 aprile-23 giugno 2006, Bosco, rv 234148).
In altri termini, una volta escluso che la Corte di appello abbia omesso di dare risposta alle censure dell’appellante, le motivazioni della prima e della seconda sentenza si saldano in un complesso motivazionale che la Corte di legittimità può censurare solo in presenza di vizi radicali del percorso argomentativo che ne comportino la contraddittorietà insanabile o la manifesta illogicità. Vizi che nel caso in esame non sussistono.
6. Resta da esaminare la questione proposta con riferimento all’art. 9 del d.Igs. 10 marzo 2000, n. 74 e al cd, divieto di duplicazione dell’imputazione. La Corte ha già avuto modi di affrontare il tema, distinguendo il divieto di concorso dell’utilizzatore nel reato commesso da diverso soggetto emittente dalla ipotesi che l’utilizzatore abbia parte attiva nella condotta di emissione quale titolare o contitolare (di diritto o di fatto) della ditta o della società emittente; in questa seconda ipotesi, afferma la giurisprudenza, l’imputato risponderà dei singoli e diversi reati cui ha dato corso, eventualmente unificabili tra loro all’Interno dell’unico disegno criminoso (Sez.3, n.47863 del 6/10/2011, rv 251963). Proprio in questo direzione va il caso che ci occupa, essendo stato contestato al sia F. il reato di emissione delle fatture per operazioni inesistenti quale amministratore di fatto e dominus della ditta “BC”. Anche questo motivo dì ricorso va, conclusivamente, qualificato come inammissibile.
7. Venendo così alle censure mosse con gli ultimi due motivi al trattamento sanzionatone, si è in presenza di impugnazione palesemente infondata. La Corte di appello, dichiarata l’estinzione per prescrizione dei restanti reati, ha determinato la pena per il solo capo A e per il solo anno 2004, fissando una pena base «lievemente superiore al minimo edittale per l’intensità del dolo e per l’entità delle operazioni” e operando una diminuzione della pena “nella massima estensione per le già concesse attenuanti generiche”. A fronte di queste scelte dei giudici di appello le censure del ricorrente sono palesemente lontane dalla realtà e meritevoli di pronuncia di inammissibilità.
8. Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000, n.186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, nonché al versamento della somma di Euro 1.000 00 alla Cassa delle ammende.
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