Corte di Cassazione sentenza n. 38773 del 26 ottobre 2011
PARTE CIVILE – DANNI – ESERCIZIO DELL’AZIONE CIVILE NEL PROCESSO PENALE – PRESCRIZIONE – APPLICABILITA’ DEGLI ISTITUTI DELLA SOSPENSIONE E DELLA INTERRUZIONE
massima
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L’azione civile esercitata nel processo penale soggiace alle regole proprie della prescrizione penale, di guisa che ad essa sono applicabili anche gli istituti della sospensione e della interruzione di cui agli art. 159 e 160 c.p., con la conseguenza che fruisce non solo del termine di prescrizione quinquennale (o superiore se per il reato è previsto un più lungo termine), ma anche del prolungamento dei termini conseguenti ad eventi interruttivi e sospensivi della prescrizione penale. (Nella specie la costituzione di parte civile è avvenuta oltre il termine di cinque anni ma a seguito dell’interruzione della prescrizione ad opera della notifica all’imputato del decreto di citazione a giudizio).
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RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del giudice monocratico del Tribunale di Livorno del 10 luglio 2009, F.C. – quale dirigente del comune di Livorno, responsabile dello staff “Progettazione specialistica 2″, costituito nell’ambito dell’Unità operativa “progettazione e attuazione dei lavori” per la ristrutturazione di un ex sanatorio, sito in un immobile di proprietà comunale (Villa Corridi)- è stato ritenuto responsabile del delitto di lesioni colpose commesso, con violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, in pregiudizio di I.L., dipendente comunale. All’affermazione di responsabilità è seguita la condanna dell’imputato alla pena di sei mesi di reclusione, condizionalmente sospesa, ed al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio, in favore della costituita parte civile, alla quale è stata assegnata una provvisionale di 150.000,00 euro.
Con la stessa sentenza, è stata dichiarata la prescrizione del diritto al risarcimento del danno azionato con la costituzione di parte civile nei confronti del responsabile civile, comune di Livorno.
In fatto, era accaduto che l’I.L., incaricato dal F.C., unitamente all’architetto M.L., di eseguire alcune misurazioni nei locali di detto immobile, mentre si trovava al primo piano, unitamente all’architetto M.L., per eseguire le ultime misurazioni, è precipitato nel vano sottostante in conseguenza del crollo del solaio. Nella caduta l’I.L. ha riportato lesioni gravissime per la frattura della colonna vertebrale, con conseguente perdita quasi totale della capacità di deambulazione e con danni alle funzioni respiratorie e della digestione.
Nell’affermare la responsabilità dell’imputato, il giudice del merito ha rilevato: a) che le critiche condizioni di sicurezza dell’immobile erano note da tempo, perché già in precedenza si erano verificati dei crolli; in una occasione, inoltre, lo stesso I.L. si era rifiutato di eseguire dei rilievi a causa della precarietà dei luoghi ed aveva, in tale occasione chiesto al F.C. di operare per la messa in sicurezza dei locali; l’incidente, quindi, era ben prevedibile ed avrebbe potuto essere evitato; b) che l’ordine di recarsi in detto immobile per eseguirvi dei rilievi era stato impartito, all’I.L. ed alla M.L., dall’imputato; c) che quest’ultimo, quale dirigente dello staff sopra specificato, ricopriva, nei confronti di chi di quel gruppo di lavoro faceva parte, e dunque anche nei confronti della persona offesa, una posizione di garanzia ed era quindi destinatario dei relativi obblighi connessi alla sicurezza ed alla prevenzione degli infortuni sul lavoro.
2. Su appello proposto dall’imputato, la Corte d’Appello di Firenze, con sentenza del 7 luglio 2010, in parziale riforma della sentenza di primo grado, riconosciute all’imputato le circostanze attenuanti generiche, ha ridotto a quattro mesi la pena inflitta dal primo giudice, confermando, nel resto, la sentenza impugnata.
3. Avverso tale decisione ricorre, per il tramite del difensore, il F.C., che deduce:
a) Vizio di motivazione della sentenza impugnata, con riguardo all’affermazione di prevedibilità dell’evento. Sostiene il ricorrente che non risulterebbe rispondente al vero la circostanza riportata in sentenza secondo cui la persona offesa aveva chiesto all’imputato di mettere in sicurezza le strutture da recuperare; secondo quanto riferito dallo stesso I.L., peraltro, non spettava al F.C. assumere una decisione del genere poiché egli non aveva compiti inerenti la sicurezza; lo stesso F.C., del resto, rileva ancora il ricorrente, si era recato ripetutamente sul posto per dei sopralluoghi. Il giudice del gravame non avrebbe tenuto alcun conto di tali circostanze che, se valutate, avrebbero determinato l’assoluzione dell’imputato;
b) Vizio di motivazione con riguardo alla posizione di garanzia riconosciuta all’odierno ricorrente, in realtà inesistente poiché questi non aveva personale alle proprie dipendenze, ma erano lui stesso e la persona offesa alle dipendenze di altro funzionario; l’imputato era privo di poteri di intervento in materia di sicurezza connessi alla ristrutturazione dell’immobile, i cui compiti erano stati ad altri assegnati;
c) Vizio di motivazione in ordine alla conoscenza, da parte dell’imputato, della delega di funzioni conferitagli con disposizione n. 3089 del segretario generale del comune, affermata dalla corte territoriale solo in via presuntiva e senza tener conto del fatto che la stessa delega non riguardava i lavori di ristrutturazione dell’immobile dell’ex sanatorio;
d) Violazione dell’art. 2947 c.c., in relazione alla declaratoria di prescrizione della azione civile promossa nei confronti del responsabile civile ed alla mancata estensione all’imputato degli effetti di tale declaratoria, richiesta alla corte territoriale in via subordinata.
Conclude, quindi, il ricorrente, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato nei termini di seguito specificati.
1A) Osserva, anzitutto, la Corte che, non ravvisandosi ragioni di inammissibilità del gravame, il reato contestato all’odierno ricorrente è estinto per prescrizione. Accertato, invero, che l’infortunio del quale è rimasto vittima l’I.L. si è verificato il 13 gennaio 2003, e che, avuto riguardo alla pena prevista per il delitto contestato, come ritenuto dai giudici del merito, il termine massimo di prescrizione è di sette anni e sei mesi, come previsto dall’art. 157 c.p. (nella vecchia e nella nuova formulazione introdotta con la legge n. 251/05), deve prendersi atto del fatto che tale termine è interamente decorso fin dal 13 luglio 2010.
D’altra parte, le diffuse e coerenti argomentazioni svolte dalla corte territoriale nella sentenza impugnata escludono qualsiasi possibilità di proscioglimento nel merito, ex art. 129, comma 2°, c.p.p., posto che dall’esame di detta decisione non solo non emergono elementi di valutazione idonei a riconoscere la prova evidente dell’insussistenza del fatto contestato all’imputato o della sua estraneità al medesimo, ma sono rilevabili valutazioni di segno del tutto opposto, conducenti alla responsabilità dello stesso.
La sentenza impugnata deve essere, quindi, annullata senza rinvio, essendo rimasto estinto per prescrizione il reato ascritto all’imputato.
1B) A questo punto occorre, tuttavia, rilevare che – in tema di declaratoria di estinzione del reato – l’art. 578 c.p.p. prevede che il giudice d’appello o la Corte di Cassazione, nel dichiarare estinto per amnistia o prescrizione il reato per il quale sia intervenuta, come nel caso di specie, “condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati”, sono tenuti a decidere sull’impugnazione agli effetti civili; a tal fine, quindi, richiamata la consolidata giurisprudenza di questa Corte, occorre procedere all’esame dei motivi di ricorso, non potendosi trovare conferma della condanna al risarcimento del danno (anche solo generica) dalla mancanza di prova dell’innocenza dell’imputato, secondo quanto previsto dall’art. 129 c. 2, c.p.p.
Orbene, ritiene la Corte che, anche sotto lo specifico profilo appena menzionato, le censure mosse alla sentenza impugnata sono infondate ed ingiustificate alla luce della congruità e coerenza logica della motivazione, frutto di scrupoloso esame degli atti e di attenta disamina dei motivi di doglianza articolati nell’atto d’appello.
a) In realtà, con riguardo al primo motivo di ricorso, osserva la Corte che, in punto di prevedibilità dell’evento da parte del F.C., giustamente segnalata dai giudici del merito, nulla rileva sostenere, con il ricorrente, che non corrisponde al vero la circostanza secondo cui l’I.L. avesse chiesto all’imputato di provvedere alla messa in sicurezza del manufatto oggetto dell’intervento di recupero; così come nulla rileva osservare che tale decisione non era di competenza dello stesso imputato, né che egli non avesse compiti inerenti la sicurezza, né che avesse personalmente eseguito dei sopralluoghi.
Ciò che rileva, invero, in punto di prevedibilità, è che erano certamente note al F.C. le condizioni di estremo degrado del manufatto e di rischio di quanti vi si fossero avventurati senza che si fosse provveduto ad eseguire i necessari interventi di consolidamento. A tale pericolosa precarietà, invero, secondo i giudici del merito – non smentiti, sul punto, dal ricorrente – hanno fatto preciso riferimento, oltre che la persona offesa (che ha ricordato come cedimenti e crolli si fossero già verificati nell’edificio – sia pure in zone diverse da quelle ove l’infortunio si è verificato – e come avesse chiesto in passato all’imputato di mettere in sicurezza i locali), anche i testi M.L., collega dell’I.L., con costui incaricata di eseguire i rilievi nei locali del sanatorio e presente all’incidente, ed E., funzionario Asl, che hanno confermato il grave stato di degrado dell’immobile e la evidente pericolosità dello stesso.
Degrado e pericolosità che l’imputato, responsabile dell’unità alla quale apparteneva l’I.L., certamente conosceva, o avrebbe dovuto doverosamente conoscere, anche a prescindere dalle segnalazioni della persona offesa, e che avrebbero dovuto quantomeno indurlo a segnalare i rischi connessi all’attività da eseguirsi nella fase di progettazione – alla quale egli era deputato -, ed a richiedere e pretendere i necessari interventi di consolidamento, ove gli stessi non fossero di sua competenza, e comunque ad evitare di disporre sopralluoghi nei locali dell’edificio, proprio per tutelare l’incolumità dei tecnici che si trovavano alle sue dirette dipendenze.
Non avendo seguito tali elementari regole di doverosa prudenza e non avendo considerato nel relativo documento – secondo quanto ancora affermano i giudici del merito, senza essere smentiti – i rischi connessi all’attività di progettazione, della quale era stato incaricato, il F.C. ha posto a repentaglio l’incolumità del personale appartenente all’unità da lui diretta ed ha creato le premesse dell’infortunio, del quale giustamente è stato ritenuto responsabile. Mentre, la circostanza che egli stesso in passato avesse eseguito personalmente degli accessi sul posto, non ne esclude la responsabilità per quanto accaduto all’I.L.; al contrario, ne ribadisce la condotta superficiale ed imprudente, avendo egli in tali occasioni messo in pericolo anche la propria incolumità.
Inaccettabile è, poi, il tentativo del ricorrente di eludere le proprie responsabilità, attribuendo la decisione di salire al primo piano dell’edificio ai due tecnici incaricati dei rilievi. Sul punto, i giudici del merito hanno ricordato che tali rilievi riguardavano proprio il primo piano, di guisa che non poteva che essere ovvia la necessità dei due incaricati di accedervi, anche a prescindere dall’accertata impossibilità di procedervi rimanendo al piano terra, privo di luce per essere state murate le finestre. Circostanza, quest’ultima, che l’imputato avrebbe dovuto, peraltro, ben conoscere.
b) Quanto al secondo motivo di ricorso, rileva la Corte che giustamente è stata attribuita al F.C. una posizione di garanzia nei confronti di quanti svolgevano il proprio lavoro all’interno dell’unità operativa da lui diretta, secondo quanto accertato dai giudici del merito attraverso l’esame degli atti amministrativi acquisiti, che all’imputato hanno attribuito la responsabilità della richiamata unità, con i conseguenti poteri e responsabilità. L’attribuzione di un incarico direttivo e l’esercizio in concreto, delle relative mansioni, non pone dubbi di sorta in ordine alla piena conoscenza, da parte dell’imputato, dell’affidamento di tale incarico.
c) Fondato è, viceversa, l’ultimo dei motivi proposti, con il quale il ricorrente si duole, in via principale, della declaratoria di prescrizione dell’azione civile promossa dall’I.L. nei confronti del responsabile civile, comune di Livorno, per essere stata la stessa – secondo i giudici del merito – esercitata tardivamente, cioè oltre il termine di cinque anni dal fatto; termine previsto dall’art. 2947 c.c. Tanto, secondo gli stessi giudici, dovendosi ritenere, considerato che il fatto si è verificato il 13 gennaio 2003 e che, in conseguenza, l’azione civile avrebbe dovuto essere esercitata entro il 13 gennaio 2008 e non, come in concreto avvenuto, alla prima udienza di trattazione del 12 maggio 2008 (per la parte civile) ed alle successive (per il responsabile civile); e considerato, altresì, secondo il più ampio argomentare del primo giudice, che gli atti interruttivi della prescrizione penale, che ne prolungano il termine, non interrompono la prescrizione dell’azione civile, secondo quanto sostenuto dalle Sezioni Unite civili di questa Corte, con la sentenza n. 1479 del 1997, espressamente citata.
Orbene, occorre in proposito osservare che questa Corte ha affermato il principio secondo cui: “Allorché l’azione civile per il risarcimento del danno sia esercitata nel processo penale, ha luogo l’interruzione della prescrizione del relativo diritto per tutta la durata del processo e il termine riprende a decorrere dalla data in cui diviene irrevocabile la sentenza penale che dichiari la prescrizione del reato, non potendosi ritenere che il riferimento contenuto nell’art. 2947, comma terzo, c.c., alla durata, eventualmente più lunga, della prescrizione penale operi solo con riguardo al termine base e non anche a tutti gli istituti propri di essa” (Cass. n. 3601 del 20.12.07 rv. 238369).
In particolare, nella sentenza richiamata, il giudice di legittimità ha condivisibilmente affermato che l’azione civile introdotta nel processo penale soggiace, anche in tema di prescrizione, alle regole proprie della prescrizione penale, di guisa che ad essa sono applicabili anche gli istituti della sospensione e della interruzione di cui agli artt. 159 e 160 c.p. Non sarebbe consentita, invero, si legge nella citata sentenza, una interpretazione dell’art. 2947 co. 3 c.c. “per cui il riferimento alla più lunga prescrizione penale debba avvenire soltanto con riguardo al termine base e non anche a tutti gli istituti della prescrizione penale, poiché ciò comporterebbe il rischio inaccettabile di fare prescrivere l’azione civile nel caso di scelta di innestarla nel processo penale, che pure è prevista dalla legge come regola e che non può danneggiare colui che ha già subito un danno”. E dunque, proprio alla stregua della norma richiamata, è stato sostenuto che l’azione civile esercitata nel processo penale fruisce, non solo della prescrizione “base” quinquennale (o superiore se per il reato è previsto un più lungo termine), ma anche del prolungamento dei termini conseguente ad eventi interruttivi e sospensivi della prescrizione penale.
Conclusione che è stata ritenuta non in contrasto con la citata sentenza delle S.U. civili n. 1479 del 1997 poiché la stessa ha riguardato il caso, del tutto diverso, di prescrizione dell’azione di risarcimento del danno da reato esercitata in sede civile (in tal caso, hanno sostenuto le S.U. civili, non assumono rilievo eventuali cause di interruzione o sospensione dei termini di prescrizione relativi al reato, essendo ontologicamente diversi l’illecito civile e quello penale), non nella sede penale, come nel caso oggetto del presente ricorso ed in quello definito con la richiamata sentenza n. 3601 del 20.12.07.
Alla stregua di tali condivisi principi, quindi, tenuto conto dell’interruzione dei termini prescrizionali determinata dalla notifica all’imputato del decreto di citazione a giudizio, emesso, secondo quanto ha precisato il giudice di primo grado, il 6 novembre 2007, tempestiva deve ritenersi l’azione civile risarcitoria esercitata dalla persona offesa nei confronti dell’imputato e del responsabile civile, comune di Livorno, nei confronti del quale erroneamente detta azione è stata dichiarata prescritta.
2. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata, senza rinvio, essendo il reato contestato estinto per prescrizione, mentre devono essere confermate le statuizioni civili tra parte civile ed imputato, con conseguente condanna di quest’ultimo alla rifusione delle spese del presente di giudizio, in favore della parte civile, che si liquidano in complessivi euro 1.750,00, oltre accessori come per legge. La stessa sentenza deve essere annullata senza rinvio quanto alla conferma della declaratoria di prescrizione dell’azione civile nei confronti del responsabile civile.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione. Conferma le statuizioni civili tra parte civile ed imputato e condanna quest’ultimo alla rifusione delle spese in favore della predetta parte civile, che liquida in complessivi euro 1.750,00, oltre accessori come per legge.
Annulla, inoltre, senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla conferma della declaratoria di prescrizione dell’azione civile nei confronti del responsabile civile.
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