Corte di Cassazione sentenza n. 4230 del 20 febbraio 2013
STRANIERI – IMMIGRAZIONE – PROTEZIONE INTERNAZIONALE DELLO STRANIERO – INDAGINE SUL REALE PERICOLO NEL PAESE – RIAPERTURA DEL CASO
massima
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Il nuovo sistema di protezione internazionale dello straniero, instaurato dalle Direttive CE 2004/83 e 2005/85, così come recepite nei D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251 e 28 gennaio 2008, n. 25, ha introdotto una nuova misura tipica, la protezione sussidiaria, che può essere riconosciuta anche quando sussista il rischio effettivo di essere sottoposto a pena di morte, tortura o trattamenti inumani e degradanti (art. 3 CEDU). Ne consegue che il positivo riscontro di tali condizioni non costituisce più una condizione idonea soltanto al rilascio del permesso di natura umanitaria, già previsto negli artt.5sesto comma e 19 primo comma D.Lgs. n. 286/1998, ma dà diritto ad un titolo di soggiorno stabile, triennale ed alla fruizione di un ampio quadro di diritti e facoltà (accesso al lavoro, allo studio, alle prestazioni sanitarie). Tuttavia, tale coincidenza di requisiti, pur essendo riconosciuta espressamente dalla previsione della convertibilità, al momento dell’entrata in vigore della nuova normativa, dei permessi umanitari preesistenti in protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 34 del D.Lgs. n. 251/2007, non esclude, nell’attuale sistema delle misure di protezione internazionale, la tutela residuale costituita dal rilascio di permessi sostenuti da ragioni umanitarie o diverse da quelle proprie della protezione sussidiaria o correlate a condizioni temporali limitate e circoscritte, come previsto dall’art. 32, comma 3, del D.Lgs. n. 25/2008, ai sensi del quale le Commissioni territoriali, quando ritengano sussistenti gravi motivi umanitari (evidentemente inidonei ad integrare le condizioni necessarie per la protezione sussidiaria) devono trasmettere gli atti al Questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE
“Il cittadino straniero aveva impugnato il provvedimento di espulsione emesso nei suoi confronti con decreto del prefetto di Chieti del 27/7/2011, deducendone l’illegittimità per violazione dell’art. 19, primo comma del T.U. n. 286 del 1998, (divieto di espulsione per ragioni umanitarie) dal momento che il rimpatrio nel proprio paese di origine, la Nigeria, lo avrebbe esposto a pericolo di vita per essere evaso dalle carceri del suo paese ove era stato ristretto a seguito dei disordini da cristiani e mussulmani;
“il giudice di pace respingeva il ricorso ritenendo non provate le condizioni dedotte ed evidenziando l’intervenuta reiezione, da parte della Commissione territoriale competente, della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato;
“il provvedimento è ricorribile per cassazione e non ha resistito l’intimata amministrazione;
“nell’unico motivo del ricorso per cassazione, il provvedimento impugnato è stato censurato sotto il duplice profilo della violazione e falsa applicazione dell’art. 19 del T.U. n. 286 del 1998, e del vizio di motivazione su un fatto decisivo per il giudizio quale il pericolo di persecuzione e di vita del ricorrente, perché il giudice di pace avrebbe ritenuto inapplicabile il divieto dì espulsione per ragioni umanitarie senza aver svolto alcun esame del materiale probatorio offerto a sostegno della domanda ed adottando una motivazione meramente formale del rigetto, fondata sulla mancanza di documenti di soggiorno e di fonti di reddito nonché sull’intervenuto rigetto della Commissione territoriale
“il ricorso risulta manifestamente fondato perché nel provvedimento impugnato è del tutto omessa la motivazione relativa all’assenza del rischio di persecuzione in caso di rimpatrio del cittadino straniero, essendosi, il giudice di pace, limitato ad affermare “tali circostanze (le condizioni di pericolo di vita per il ricorrente) non sono affatto provate in atti mentre con certezza l’istanza per il riconoscimento dello status di rifugiato veniva motivatamente rigettata dalla Commissione territoriale(…)”
” secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il giudice di merito, in materia di protezione internazionale, è tenuto ad effettuare un’indagine fattuale ampia e rigorosa, fondata sull’esame critico del materiale probatorio offerto dalla parte nonché sull’esercizio di poteri/doveri istruttori officiosi (Cass. S.U. 17318 del 2008), trattandosi dell’accertamento della titolarità di posizioni giuridiche soggettive appartenenti al rango dei diritti umani (Cass. S.U. 19393 del 2009),
“il divieto di espulsione o di respingimento previsto dall’art. 19, primo comma del D.Lgs. n. 286 del 1998 appartiene, incontestatamente, all’area della protezione internazionale (Cass. 10636 del 2010), conseguendone l’obbligo per il giudice di pace, in sede di opposizione alla misura espulsiva, di esaminare e pronunciarsi sul concreto pericolo, prospettato dall’opponente, di essere sottoposto a persecuzione o a trattamenti inumani e degradanti in caso di rimpatrio nel paese d’origine, in quanto la norma di protezione introduce una misura umanitaria a carattere negativo, che conferisce al beneficiario il diritto a non vedersi nuovamente immesso in un contesto di elevato rischio personale, qualora tale condizione venga positivamente accertata dal giudice (Cass. 3898 del 2011)
“nella motivazione del provvedimento impugnato è integralmente mancato il riscontro della concreta valutazione delle risultanze probatorie offerte dal ricorrente, né tale omissione può essere sanata con il mero riferimento, privo di alcuna indicazione delle ragioni della decisione, al rigetto della domanda di rifugio politico da parte della Commissione territoriale, atteso che i presupposti per la concessione dello status di rifugiato ed i requisiti per l’operatività del divieto ex art. 19 primo comma del D.Lgs. n. 286 del 1998 (sostanzialmente corrispondenti ai “seri motivi di carattere umanitario” che giustificano il rilascio di un permesso temporaneo ex art. 5 comma sesto D.Lgs. n. 286 del 1998) non coincidono ed inoltre, il diniego della misura tipica non determina automaticamente il rigetto anche della misura atipica minore e residuale (Cass. 4139 del 2011);
“per le ragioni svolte il provvedimento impugnato deve essere cassato con rinvio al giudice di pace di Chieti, in diversa persona, affinché nel verificare l’applicabilità del divieto di cu allo art. 19 primo comma d.lgs n. 286 del 1998 valuti concretamente e si pronunci sulla condizione di pericolo prospettata dal cittadino straniero di essere sottoposto a persecuzione o a trattamenti inumani o degradanti;
“ove si condividano i richiamati rilievi la causa può essere trattata in camera di consiglio e decisa con accoglimento cui segua al cassazione con rinvio del provvedimento impugnato” Il Collegio condivide la proposta di soluzione indicata nella relazione ma ritiene necessaria la seguente integrazione: secondo l’orientamento della prima sezione della Corte (tra le più recenti Cass. n. 7572 del 2009, 824 del 2010 e 15296 del 2012), in caso di diniego di riconoscimento, da parte della Commissione territoriale competente, dello “status” di rifugiato, che non venga impugnata dal richiedente, l’opposizione all’espulsione proposta ai sensi dell’art. 19, primo comma, del D.Lgs. n. 286 del 1998, deve fondarsi su ragioni umanitarie nuove o diverse da quelle che hanno formato oggetto del procedimento relative alla domanda di protezione internazionale. La novità non deve essere valutata in senso rigorosamente oggettivo, potendo anche trattarsi di una circostanza soggettivamente nuova, perché appresa medio tempore, integrante un non evidenziato fattore di rischio od un fatto non emerso davanti alla Commissione riguardante, tuttavia una ragione di pericolo per il rientro (es. sottoposizione a tortura o trattamenti inumani o degradanti), già esposta davanti alla Commissione, senza essere suffragata dalla nuova allegazione di fatto. Integrano, di conseguenza, il requisito della “novità” non soltanto i fatti cronologicamente sopravvenuti alla decisione di rigetto non impugnata, ma anche quelli ignorati in sede di valutazione della Commissione territoriale perché non allegati dal richiedenti o non accertati officiosamente dalla autorità decidente. Ne consegue che, in sede di opposizione all’espulsione fondata sul divieto di espulsione contenuto nell’art. 19 primo comma, D.Lgs. n. 286 del 1998, il giudice di pace è tenuto ad accertare, mediante l’esercizio dell’obbligo di cooperazione istruttoria cui è assoggettato al pari del giudice della protezione internazionale, circostanze non emerse davanti alla Commissione territoriale perché il richiedente non è stato in grado d’indicarle o allegarle e la Commissione non è stato in grado di accertarle.
Occorre, inoltre, osservare che le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato sono diverse da quelle poste a base del riconoscimento della protezione sussidiaria ed in particolare, i requisiti della protezione sussidiaria non coincidono con quelli che consentono l’adozione di una misura atipica di protezione umanitaria ex art. 5 del D.Lgs. n. 286 del 1998, (Cass. 4139 del 2011; 24544 del 2011; 10686 del 2012). Pertanto, occorre, in primo luogo, verificare se il diniego della Commissione territoriale sia stato adottato nella vigenza del D.L. n. 416 del 1989 convertito nella L. n. 39 del 1990 e del correlato regolamento di attuazione nella versione anteriore alla modifica dovuta all’introduzione nel testo normativo dell’art. 1 quater (ex art. 32, comma primo lett. b della L. n. 189 del 2002, vigente dal 20/4/2005), ovvero quando alle predette Commissioni territoriali non era attribuito alcun potere diverso da quello di accogliere o negare il riconoscimento della misura del rifugio politico. In tale originano contesto normativo, ancorché di difficile attuale concreta verificabilità, la cognizione sull’opposizione all’espulsione ex art. 19, primo comma del D.Lgs. n. 286 del 1998, può fondarsi sulle circostanze di fatto emerse davanti alla Commissione territoriale da valutarsi alla stregua dei diversi parametri, posti a base del riconoscimento del diritto ad una misura atipica di protezione umanitaria, che costituiscono il fondamento dell’applicazione del principio di non refoulement su cui si fonda l’inespellibilità ex art. 19 D.Lgs. n. 286 del 1998. Il passaggio da un sistema monista di misure di protezione internazionale ad un sistema pluralista ( quale quello attuale dì derivazione comunitaria) non può essere trascurato dal giudice dell’opposizione all’espulsione perché l’oggetto e i poteri delle Commissione territoriali si sono coerentemente ampliati rispetto alla condizione originaria.
Dall’esclusiva cognizione sul rifugio politico le Commissioni come sopra illustrato (a partire dal 20/4/2005, cfr. Cass. 11535 del 2009) sono passate a conoscere anche dei permessi umanitari essendo tenute a richiedere al Questore il rilascio dei medesimi in presenza delle condizioni, nettamente diverse da quelle poste a base del rifugio, nell’art. 5 sesto comma del D.Lgs. n. 286 del 1998. Con l’entrata in vigore dei decreti legislativi attuativi delle Direttive europee 2004/83/CE e 2005/85/CE, le Commissioni sono tenute a verificare l’esistenza delle condizioni per il riconoscimento delle due misure tipiche e di quella atipica, così espandendo ulteriormente la loro cognizione. Nel quadro normativo attualmente vigente si colloca la fattispecie dedotta nel presente giudizio, nella quale al decisione sul diniego del rifugio politico non risulta essere stata impugnata davanti ai giudice della protezione internazionale. Nel provvedimento del giudice di pace non risultano neanche genericamente indicati quali siano stati i fatti posti a base della decisione della Commissione territoriale, se siano stati i medesimi “/ riprodotti nell’impugnazione dell’espulsione; se la Commissione abbia agito nella vigenza della normativa attuale o di quella in vigore dal 21 aprile 2005 (con conseguente obbligo di verifica quanto meno dell’esistenza dei presupposti per il rilascio di un permesso umanitario ex art. 5, sesto comma, D.Lgs. n. 286 del 1998); se siano state allegate circostanze nuove o diverse da quelle formanti oggetto della verifica della Commissione territoriale, sia perché sopravvenute, sia perché non conosciute, non prese in esame o non officiosamente accertate. La motivazione, come già evidenziato nella relazione che precede, si limita a riferire dell’esistenza di un provvedimento di rigetto della Commissione sul rifugio e della mancanza di prove sulle circostanze addotte dall’opponente, così rimanendo non comprensibile se il rigetto sia dovuto alla natura delle circostanze di fatto in quanto già formanti oggetto del provvedimento non impugnato della Commissione territoriale o dalla carenza di sostegno probatorio, essendo tenuto il giudice di pace, in quest’ultima ipotesi, ove i fatti possano sostenere il divieto di espulsione ex art. 19 D.Lgs. n. 286 del 1998 e, conseguentemente, integrare quanto meno le condizioni per il rilascio di un permesso umanitario ex art. 5, comma sesto D.Lgs. n. 286 del 1998, ad esercitare il proprio potere dovere di cooperazione istruttoria, stabilito negli art. 3 del D.Lgs. n. 251 del 2007 e 10 del D.Lgs. n. 25 del 2008.
Si condivide in conclusione la proposta di cassazione con rinvio al giudice di pace in diversa persona perché si attenga ai principi di diritto sopraesposti;
P.Q.M.
Accoglie il ricorso. Cassa il provvedimento impugnato e rinvia al Giudice di Pace di pace di Chieti, in diversa persona, anche per le spese del giudizio di legittimità.
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