Corte di Cassazione sentenza n. 4299 del 21 febbraio 2013
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – ESTINZIONE DEL RAPPORTO – LICENZIAMENTO INDIVIDUALE – PER GIUSTIFICATO MOTIVO – RIASSETTO ORGANIZZATIVO DELL’AZIENDA – SOPPRESSIONE DI POSTI DI LAVORO E PARZIALE SOSTITUZIONE CON ALTRI LAVORATORI – INTERRUZIONE DEL NESSO CAUSALE TRA RECESSO DATORIALE E SITUAZIONE DI NECESSARIA RIORGANIZZAZIONE – AUTOMATICITÀ – ESCLUSIONE – INTENTO DI REALIZZARE IL CONTENIMENTO DEI COSTI – GIUSTIFICATO MOTIVO DI RECESSO – CONFIGURABILITÀ – CIRCOSTANZE DI CRISI – RILEVANZA
massima
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Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nella previsione della seconda parte dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, comprende anche l’ipotesi di un riassetto organizzativo dell’azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall’imprenditore, non pretestuosamente e non semplicemente per un incremento di profitto, bensì per far fronte a sfavorevoli situazioni – non meramente contingenti – influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario, senza che sia rilevante la modestia del risparmio in rapporto al bilancio aziendale, in quanto, una volta accertata l’effettiva necessità della contrazione dei costi, in un determinato settore di lavoro, ogni risparmio che sia in esso attuabile si rivela in diretta connessione con tale necessità e quindi da questa oggettivamente giustificato.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Milano S.P.A. conveniva in giudizio la C.A. S.p.A. chiedendo che fosse accertata l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli con raccomandata del 28/3/2008, con reintegra nel posto di lavoro. Contestava il ricorrente il provvedimento datoriale sia sotto il profilo del mancato esperimento delle procedure di mobilità sia sotto quello della mancanza di giustificato motivo.
Costituitasi in giudizio, la società contestava la fondatezza degli assunti di parte attorea eccependo preliminarmente l’intervenuta decadenza dell’S.P.A. per tardività dell’impugnativa. Il Tribunale di Milano rigettava il ricorso condividendo la preliminare eccezione della convenuta. Avverso tale pronuncia interponeva appello l’S.P.A.. La Corte di appello di Milano, seppur con diversa motivazione, confermava il rigetto della domanda.
Per la cassazione di tale sentenza S.P.A. propone ricorso affidato a sette motivi.
Resiste con controricorso l’intimata C.A. s.r.l. Unipersonale (già C.A. S.p.A.) e formula, altresì, ricorso incidentale condizionato affidato ad un motivo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo il ricorrente principale denuncia: “Insufficiente e contraddittoria motivazione sul fatto controverso e decisivo circa la sussistenza dei requisiti per ritenere la Filiale di Roma quale unità produttiva (art. 360 n. 5 cod. proc. civ.)”. Deduce che la Corte territoriale, pur a fronte di documentazione versata in atti tanto dal ricorrente quanto dalla società convenuta, deponente nel senso che tutte le attività decisionali assunte ed incentrate a Basiglio, ha ritenuto che il lavoratore non avesse indicato alcun elemento utile per considerare la struttura di Basiglio e quella di Roma unitariamente. Formula, al riguardo, il seguente quesito motivazionale: “Se costituisca o meno vizio di motivazione, con riferimento ad una fattispecie nella quale è stato chiesto l’accertamento dell’inesistenza di una unità produttiva autonoma, aver definito il giudizio senza esaminare e/o fare alcuna ricognizione della documentazione versata in causa ed in particolare della comunicazione del 26/4/2006 di avvio della procedura di mobilità e dei comunicati aziendali del 3/4/2007 e del 3/8/2007 o comunque senza darne assolutamente conto”.
2. Con il secondo motivo il ricorrente principale denuncia: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 24 della legge n. 223/1991 e art. 35 della legge n. 300/1970 – Violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.). Deduce che la Corte territoriale, nell’attribuire rilevanza alle difese della società circa l’autonomia e l’indipendenza dell’unità produttiva, tecnica ed amministrativa delle unità di Basiglio e di Roma ha violato le indicate norme di diritto essendo da queste richiesto, nell’interpretazione datane dalla giurisprudenza, non solo un’autonomia amministrativa ma anche operativa, economica e strategica e che tali ultime caratteristiche, con riguardo alla filiale di Roma, non emergevano dalla documentazione prodotta dalla società. Formula, al riguardo, il seguente quesito motivazionale: “Se con riferimento alla fattispecie nella quale risulti accertato che la società datrice di lavoro ha effettuato complessivamente oltre cinque licenziamenti nell’arco di 120 gg. tra la sede di direzione e l’unità locale, non avente quest’ultima i requisiti per essere qualificata come unità produttiva, costituisca o meno violazione delle disposizioni di cui all’art. 4 e 24 della legge n. 223/1991 e 35 legge n. 300/1970 non aver attivato dalla datrice di lavoro la procedura di messa in mobilità e conseguentemente costituisca o meno illegittimità e/o inefficacia dell’intimato licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.
3. Con il terzo motivo il ricorrente principale denuncia: “Omessa, insufficiente motivazione circa il fatto controverso e decisivo per il giudizio, se esisteva o meno l’invocata crisi aziendale (art. 360 n. 5 cod. proc. civ.)”. Deduce che la Corte territoriale ha posto a fondamento della ritenuta sussistenza di una crisi aziendale documenti risalenti nel tempo, senza che risultasse l’acuirsi della crisi e la necessità di intervenire con ben otto licenziamenti. Evidenzia che emergeva dagli atti che la situazione come documentati dagli accordi sindacali del 377/2006 e dell’11/7/2006 e la successiva procedura di mobilità con espulsione di nove esuberi “aveva rimesso le cose a posto, tant’è che le perdite erano state (quasi) azzerate”, non potendo il decremento di fatturato dell’1%, rispetto al precedente anno, essere considerato indice di crisi, ma semmai di una situazione, rispetto ai precedenti trend, di ripresa. Formula, al riguardo, il seguente quesito motivazionale: “Si chiede alla Corte di affermare se costituisca o meno vizio di motivazione, con riferimento ad una fattispecie nella quale è stato dichiarato il licenziamento, aver definito il giudizio sulla base di una situazione aziendale pregressa al licenziamento medesimo senza comunque dar conto congruamente della documentazione versata in causa e sulla quale è posta a base la decisione. In particolare, senza dare giusta valutazione alla limitata riduzione del fatturato, rispetto al precedente anno fiscale”.
4. Con il quarto motivo il ricorrente principale denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 604/1966 in punto di mancanza di pretestuosità della soppressione della mansione assegnata al sig. S.P.A. (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.). Deduce che la Corte territoriale non ha applicato correttamente la norma indicata per la quale non qualunque riduzione di fatturato giustifica il licenziamento, bensì solo quella che può apparire duratura nel tempo e che quindi non sia episodica o occasionale. Evidenzia che nella fattispecie de qua la riduzione del fatturato, come si rilevava dalla sintesi del conto economico al 31 marzo 2007) era stata solo dell’1% rispetto all’anno precedente e che anzi la stessa società aveva annunciato in data 3/8/2007 risultati positivi per il primo trimestre 2008. Formula, al riguardo, il seguente quesito di diritto: “Se con riferimento alla fattispecie nella quale l’anno precedente il licenziamento per g.m.o. la datrice di lavoro ha avuto un calo di fatturato, non sussistente all’atto del licenziamento, anzi con incremento del fatturato a far tempo dal trimestre successivo al licenziamento il recesso possa essere qualificato come legittimo i sensi dell’art. 3 della legge n. 604/1966”.
5. Con il quinto motivo il ricorrente principale denuncia: “Insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto controverso e decisivo del giudizio (art. 360 n. 5 cod. proc. civ.). Deduce che la Corte territoriale non ha in alcun modo motivato la relazione tra la riorganizzazione aziendale e la soppressione del posto dell’S.P.A. ed ha errato nel ritenere che alcuni lavoratori che avevano mantenuto la loro attività avessero una qualifica superiore a quella del ricorrente. Formula, al riguardo, il seguente quesito motivazionale: “Se costituisca o meno vizio di motivazione con riferimento ad una fattispecie nella quale è stato dichiarato legittimo un licenziamento per giustificato motivo oggettivo aver definito il giudizio sull’errato presupposto che l’inquadramento del lavoratore licenziato fosse inferiore a quello di altri lavoratori rimasti in forza e senza esaminare la documentazione versata in causa, dalla cui disamina l’esito del giudizio poteva essere diversamente deciso e comunque senza darne congruamente conto.
6. Con il sesto motivo il ricorrente denuncia: “Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 cod. proc. civ.). Evidenzia che la Corte territoriale ha del tutto omesso di considerare che il ricorrente, in ragione dei diversi ruoli ricoperti e della professionalità maturata, potesse essere ricollocato in altre strutture portanti l’attività della società in Italia (così nella struttura commerciale vendite dirette ed in quella vendite indirette) ed egualmente omesso di considerare che le mansioni già svolte dal ricorrente fossero state redistribuite tra i commerciali rimasti (e non, dunque, a soggetti esterni alla società) e che dopo il licenziamento erano stati assunti altri lavoratori con la stessa qualifica. Formula, al riguardo, il seguente quesito motivazionale: “Se costituisca o meno vizio di motivazione con riferimento ad una fattispecie nella quale ai fini del repechage è stata affermata l’insussistenza di mansioni compatibili con quelle svolte dal lavoratore licenziato e che non erano stati assunti lavoratori della stessa qualifica successivamente al licenziamento, aver definito il giudizio senza esaminare la documentazione versata in causa e/o comunque senza averne dato adeguatamente conto”.
7. Con il settimo motivo il ricorrente principale denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 604/1966 (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.)”.
Deduce che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto sussistente un nesso di causalità tra riorganizzazione aziendale e soppressione della mansione non emergendo dagli atti che tale riorganizzazione fosse stata incentrata sulla figura professionale del ricorrente e risultando che erano diversi i colleghi di lavoro con pari inquadramento e minore anzianità non considerati ai fini dell’individuazione delle persone (eventualmente) da estromettere. Formula, al riguardo, il seguente quesito di diritto: “Se con riferimento ad una fattispecie nella quale è stato intimato il licenziamento per g.m.o. per soppressione della mansione, la successiva assunzione di personale con medesima qualifica ed inquadramento ovvero anche in diverso inquadramento ma in mansioni già svolte dal lavoratore ovvero la sussistenza di mansioni incompatibili con la professionalità maturata dal lavoratore licenziato, il recesso possa o meno essere qualificato come legittimo ex art. 3 legge n. 604/1966”.
8. Con l’unico motivo di ricorso incidentale la C.A. s.r.l. Unipersonale denuncia: “Violazione e falsa applicazione di norma di diritto, in particolare il combinato disposto dell’art. 410, comma 2, cod. proc. civ. e dell’art. 6 della legge n. 604/1966, nonché dell’art. 1334 cod. civ.”. Deduce che la Corte territoriale è incorsa in errore nel non dichiarare l’S.P.A. decaduto dall’impugnativa del licenziamento per essere decorso il termine di 60 giorni. Formula, al riguardo, il seguente quesito di diritto: “Se il secondo comma dell’art. 410 cod. proc. civ. debba interpretarsi nel senso che l’effetto sospensivo della decadenza in esso previsto (di cui all’art. 6 della legge n. 604/1966) si produce con la comunicazione al datore di lavoro della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione e non con la sola spedizione o ricezione della richiesta stessa da parte della commissione di conciliazione competente” ed in caso di risposta affermativa “se, in applicazione dell’art. 1334 cod. civ., per il prodursi dell’effetto sospensivo suddetto la comunicazione al datore di lavoro debba arrivare materialmente entro il termine di 60 giorni prescritto dalla legge ovvero se sia sufficiente che la comunicazione sia spedita a mezzo del servizio postale ovvero consegnata ad un ufficiale giudiziario entro il termine di 60 giorni, rimanendo, poi, al di fuori della disponibilità del lavoratore il perfezionamento del procedimento di notificazione”.
9. I ricorsi hinc et inde proposti avverso la stessa sentenza sono stati riuniti ex art. 335 cod. proc. civ..
10. Benché indicato, nella intestazione della memoria, come condizionato, il ricorso incidentale va esaminato con priorità atteso che è la stessa parte resistente, nelle conclusioni, ad anteporre la richiesta di delibazione sullo stesso a quella, avanzata “in via subordinata al mancato accoglimento del ricorso incidentale”, di declaratoria di inammissibilità e/o manifesta infondatezza del ricorso avversario e che, in ogni caso, si tratta di questione pregiudiziale.
Detto ricorso incidentale è infondato a mente del più recente orientamento di questa Corte (che supera ormai definitivamente una giurisprudenza ormai risalente e così Cass. n. 967 del 21 gennaio 2004) secondo il quale, alla luce di una lettura costituzionalmente orientata (v. Corte cost. n. 276 del 2000 e n. 477 del 2002) delle norme applicabili in materia di decadenza dal potere di impugnare il licenziamento (ribadita dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 8830 del 14 aprile 2010), non è necessario che Tatto di impugnazione giunga a conoscenza del destinatario nel predetto termine, ovvero, in particolare, che esso pervenga all’indirizzo del datore di lavoro entro i sessanta giorni previsti dall’art. 6 della legge n. 604 del 1966 per evitare la decadenza dalla facoltà di impugnare, in quanto, ai sensi dell’art. 410 cod. proc. civ., secondo comma (così come modificato dall’art. 36 del d.lgs. n. 80 del 1998), il predetto termine (processuale con riflessi di natura sostanziale) si sospende a partire dal deposito dell’istanza di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione, contenente l’impugnativa scritta del licenziamento, presso la Commissione di conciliazione e divenendo irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l’ufficio provinciale del lavoro provveda a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione (si veda, in tal senso, Cass. n. 17231 del 22/07/2010).
11. Il primo e secondo motivo di ricorso, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono inammissibili nella misura in cui non viene censurata la “mancata indicazione” e cioè proprio la “mancata deduzione” di elementi utili per considerare le strutture unitariamente (né d’altra parte si evince dal ricorso in quale parte del ricorso introduttivo ovvero del primo atto difensivo successivo alla costituzione della società nel giudizio di primo grado fosse stata introdotta la questione dell’unitarietà delle strutture e sulla base di quali argomentazioni ovvero fosse stata censurata, e sulla base di quali argomentazioni, la prospettata autonomia ed indipendenza produttiva). In sostanza il ricorrente non spiega per quali ragioni dì diritto la Corte di appello, pur a fronte di tale sottolineata mancanza di deduzione, avrebbe dovuto rilevare, comunque, dagli atti l’assenza di autonomia tra le unità produttive ovvero avrebbe dovuto ritenere che, essendo sufficiente il richiamo alla legge n. 223/91 ed al mancato esperimento della procedura di mobilità per rendere chiara la natura della tutela invocata ed i presupposti della stessa, fossero esauriti gli incombenti posti a carico del lavoratore, ricadendo sul datore di lavoro la prova di un ambito dimensionale dell’impresa preclusivo della specifica tutela invocata (ciò a mente del principio espresso da Cass. SU n. 141 del 10/01/2006).
In buona sostanza, la Corte territoriale ha mostrato di aderire all’orientamento secondo il quale, anche laddove risulti correttamente invocabile il principio dell’inversione dell’onere della prova, tale principio va sempre coniugato con quelli dell’onere di deduzione e di contestazione, sussistendo una inscindibile relazione di “circolarità” tra gli stessi tanto sotto il profilo della corretta introduzione nel giudizio del punctum (ambito dimensionale dell’impresa) in ordine al quale, poi, il soggetto tenuto a dare la prova (e nella specie il datore di lavoro) possa provvedervi con i mezzi messi a disposizione dall’ordinamento tanto sotto il profilo della rilevanza da attribuire alle deduzioni contrarie ovvero alle contestazioni in ordine a circostanze difensive precisamente addotte. Tale scelta valutativa non ha formato oggetto di specifica censura da parte del ricorrente né sotto il profilo della violazione di legge né sotto quello del vizio di motivazione.
12. Il terzo e quarto motivo di ricorso, da trattarsi congiuntamente, sono infondati.
Oltre a rilevarsi che, sia con la prospettata violazione di legge sia con il denunciato vizio di motivazione, viene richiesto un riesame della situazione di fatto, inammissibile in questa sede di legittimità, non si registrano, nella sentenza impugnata, i lamentati vizi.
Intanto va premesso che, come costantemente affermato da questa Corte, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nella previsione della seconda parte dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, comprende anche l’ipotesi di un riassetto organizzativo dell’azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall’imprenditore, non pretestuosamente e non semplicemente per un incremento di profitto, bensì per far fronte a sfavorevoli situazioni – non meramente contingenti – influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario, senza che sia rilevante la modestia del risparmio in rapporto al bilancio aziendale, in quanto, una volta accertata l’effettiva necessità della contrazione dei costì, in un determinato settore di lavoro, ogni risparmio che sia in esso attuabile si rivela in diretta connessione con tale necessità e quindi da questa oggettivamente giustificato.
Il giudizio di effettività si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato, a meno che lo stesso non si ponga in contrasto con i principi dell’ordinamento espressi dalla giurisdizione di legittimità e con quegli “standards” valutativi esistenti nella realtà sociale (riassumibili nella nozione di civiltà del lavoro, riguardo alla disciplina del lavoro subordinato) che concorrono con detti principi a compone il diritto vivente. Va anche ricordato che per costante giurisprudenza il vizio di omessa od insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., sussiste solo quando nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile una obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento, mentre il vizio di contraddittoria motivazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti, in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della “ratio decidendì”, e cioè l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione adottata. Questi vizi non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge in cui un valore legale è assegnato alla prova (cfr. ex plurimis da ultimo: Cass. 6 marzo 2008 n. 6064). Tanto precisato, va osservato che, nella specie, la Corte del merito ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto posti dall’art. 3 della legge n. 604/1966 ed in particolare ricollegato la soppressione della mansione assegnata all’S.P.A. alla crisi aziendale in atto ed alla riduzione del fatturato considerando, di conseguenza, la stessa come diretta a fronteggiare una situazione sfavorevole non meramente contingente.
Esclusa, dunque, la sussistenza del dedotto vizio di violazione di legge, deve rilevarsi che la Corte territoriale, con motivazione esaustiva e coerente con le risultanze istruttorie, ha dato conto delle ragioni giustificative addotte dalla società. Più precisamente ha ritenuto che la crisi aziendale in atto al momento del licenziamento risultasse idoneamente provata dalla documentazione prodotta dalla società evidenziarne un trend costantemente negativo delle performances aziendali, un progressivo calo di fatturato in tutte le aree business negli anni precedenti il 2006, per fronteggiare la quale erano state intraprese nell’aprile del 2006 varie iniziative tra cui l’avvio di una procedura di riduzione del personale con individuazione di 9 posizioni in esuberi e ulteriore risoluzione di 5 rapporti di lavoro nell’area vendita indiretta, piccole e medie imprese cui l’S.P.A. era adibito da aprile 2006. Rispetto a tale valutazione non assume rilevanza il riferimento operato dal ricorrente a dati contabili asseritamele pretermessi ed evidenziane una ripresa proprio a ridosso del licenziamento sia perché si tratta di dati riferiti al gruppo C.A. nel suo complesso e, dunque, non soltanto nell’area business in cui il ricorrente operava sia perché, come sembra, si tratta di dati evidenziami i ricavi aziendali e non gli utili netti di esercizio (e cioè la differenza tra i ricavi ed i costi).
13. Il quinto ed il settimo motivo, da trattarsi congiuntamente, appaiono infondati e non possono essere accolti in quanto, al pari di quelli precedenti, sviluppano mere censure di merito dirette ad una rivalutazione del fatto, inammissibile in questa sede.
Peraltro la sentenza impugnata effettua una precisa analisi del riassetto della struttura aziendale in conseguenza della crisi ed in particolare dà conto sia delle ragioni per le quali determinate professionalità erano state mantenute sia della scelta di affidare i compiti residui dei venditori licenziati (e cioè le attività di supporto ai rivenditori di piccole/medie dimensioni) alle società esterne Var e Vad, preesistenti rispetto alla riorganizzazione.
Del resto, la questione della erronea indicazione della “qualifica superiore” di alcuni dipendenti rimasti in forza all’azienda resta irrilevante alla luce della indicata gestione – “e gestivano” – (incontestata) da parte degli stessi di “partners di grandi dimensioni ad alto potenziale” che già in sé integra un elemento differenziale rispetto alla evidenziata scelta di dismettere le sole attività di supporto ai rivenditori di piccole/medie dimensioni.
14. Il sesto motivo introduce questioni nuove mai svolte prime. Il ricorrente non dice quando abbia fatto riferimento ad assunzioni successive al suo licenziamento ed in mansioni equivalenti alle sue né ciò si evince dalla sentenza impugnata.
Egualmente non chiarisce quando ed in che termini sia stata posta la questione della esistenza di posti di lavoro in mansioni compatibili con quelle da lui svolte ove poter essere collocato.
In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, compete al giudice – che non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost. -, in ragione del rapporto di specificazione esistente fra le norme degli artt. 1463-1464 cod. civ. e quelle dell’art. 3 della L. n. 604/1966, il controllo di legittimità del licenziamento e tale controllo, in relazione all’invocazione dell’impossibilità sopravvenuta, si connota come controllo della effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il datore di lavoro ha l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte. Tuttavia, come questa Corte ha più volte affermato, tale prova non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile “repechage”, mediante l’allegazione di circostanze di fatto utili a dimostrare o anche solo a far presumere l’esistenza, nell’ambito dell’azienda, di posti di lavoro cui poter essere ancora adibito, e conseguendo a tale allegazione l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti (così Cass. n. 3040 del 8/2/2011, id. n. 6559 del 18/03/2010, n. 22417 del 22/10/2009, n. 13468 del 23/6/2005). Se tale onere non è stato adempiuto in sede di ricorso introduttivo, non solo neppure insorge l’onere per il datore di lavoro convenuto di offrire la prova della concreta insussistenza di tale possibilità di diverso e conveniente utilizzo del dipendente licenziato ma non può poi la parte introdurre la relativa questione nei successivi gradi di giudizio.
15. Da tanto consegue che il ricorso deve essere rigettato.
16. L’esito del ricorso principale e di quello incidentale costituisco motivo per compensare tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa tra le parti le spese processuali del presente giudizio di legittimità.
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