Corte di Cassazione sentenza n. 433 del 10 gennaio 2013
IRPEF – VERSAMENTO DI SOMME SU CONTI CORRENTI BANCARI – SOMME APPARTENENTI A TERZI – IRRILEVANZA – TITOLARE DEL CONTO TENUTO AL PAGAMENTO DELLE IMPOSTE
massima
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Il titolare dei conti correnti bancari paga sempre l’Irpef sulle somme che vi transitano anche se una sentenza penale accerta che il denaro è del coniuge o di un terzo. il presupposto dell’IRPEF è il possesso di determinati redditi. Il termine “possesso” impiegato dall’art. 1 del TUIR non ha il significato tecnico che ha nel Codice civile, né ha un significato tecnico tributario uniforme per tutte le categorie reddituali. Nel caso di specie, il giudicato penale non è riuscito a elidere il presupposto del “possesso”, in quanto si è venuta a delineare un’ipotesi di interposizione “reale” della contribuente e del coniuge, trattandosi di un accordo bilaterale fra i due, cui i terzi sono del tutto estranei. E nell’interposizione reale, l’interposto (in questo caso la moglie) è l’effettivo titolare del rapporto, “tanto che occorre, perché l’interponente entri a sua volta in possesso dei beni, un ritrasferimento in suo favore da parte dell’imposto”. Non a caso il Legislatore ha chiaramente escluso la rilevanza dell’eventuale appartenenza di fatto ad altri del reddito, configurando, anzi, l’obbligo per l’Amministrazione Finanziaria di imputare comunque il reddito al possessore “apparente”.
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FATTO
G. G. impugnò gli avvisi di accertamento relativi agli anni 1987, 1988 e 1989, con i quali l’allora ufficio imposte dirette di Messina richiedeva in pagamento la maggiore imposta rispettivamente accertata ai fini IRPEF ed ILOR sulla somma dei redditi accertati sinteticamente, a seguito di alcune verifiche compiute dalla guardia di finanza sui movimenti bancari della contribuente, che avevano indotto l’amministrazione a considerare ricavi i versamenti eseguiti sui conti. Emerge dalle difese delle parti che G.G. successivamente impugnò le cartelle esattoriali concernenti le iscrizioni a ruolo che avevano fatto seguito agli accertamenti.
La Commissione tributaria provinciale, riuniti i ricorsi, in relazione all’anno 1987 determinò il reddito in lire 99.000.000, mentre li rigettò in relazione agli altri anni.
La sentenza impugnata ha accolto l’appello proposto da G.G., facendo leva sulla sentenza penale, divenuta cosa giudicata, con la quale il Tribunale di Messina ha assolto la contribuente dai reati fiscali a lei ascritti, in base alla considerazione che il titolare effettivo delle somme transitate sui conti correnti intestati a G.G. fosse in realtà il marito.
Ricorre l’Agenzia delle entrate per ottenere la cassazione della sentenza, affidando il ricorso a tre motivi. Replica la contribuente con controricorso.
DIRITTO
1.- Col primo mezzo, l’Agenzia delle entrate lamenta la novità del motivo – a suo dire proposto soltanto con i ricorsi avverso le cartelle di pagamento e non già con i ricorsi avverso gli avvisi di accertamento, antecedenti alle cartelle-, concernente la carenza di legittimazione al pagamento dell’imposta evasa, che deriverebbe dalla titolarità di terzi dei conti correnti su cui sono transitati i movimenti in denaro; a nulla rileverebbe, secondo la prospettazione del ricorso, l’argomentazione addotta all’uopo dalla sentenza impugnata, secondo cui la sentenza penale di assoluzione menzionata in narrativa è intervenuta successivamente alla pronuncia di primo grado (la sentenza di primo grado risulta depositata in data 24 giugno 1999, là dove la sentenza penale risulta depositata in data 30 settembre 1999).
1.1.- Il motivo è inammissibile perché formulato in maniera generica, in violazione dell’art. 366 c.p.c.
La sentenza impugnata, benché nell’intestazione riporti il riferimento a tre avvisi di accertamento ed a tre cartelle di pagamento, fa parola in motivazione soltanto dell’impugnazione degli avvisi di accertamento e soltanto su questi si pronuncia, annullandoli.
L’Agenzia delle entrate si è limitata a dedurre la novità del motivo, ma non ha riportato gli stralci rilevanti dei ricorsi originariamente proposti dalla contribuente, utili a conferire specificità alla doglianza ed a consentire alla Corte di valutarla.
Giova rimarcare, al riguardo, che, sebbene la Corte sia giudice anche del «fatto processuale», il diretto esame degli atti processuali è sempre condizionato ad un apprezzamento preliminare della decisività della questione posta al suo esame (vedi, ex plurimis, Cass., 16 aprile 2003, n. 6055); e tale apprezzamento preliminare postula l’esatta e compiuta specificazione delle deduzioni e dell’errar in procedendo denunziato.
2.- Col terzo motivo di ricorso, logicamente prodromico rispetto all’esame del secondo per le ragioni di seguito specificale, l’Agenzia delle entrate censura, in relazione all’art. 360, 1° co., n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, formulando il quesito di diritto volto a verificare “se sia responsabile per il pagamento delle imposte sul reddito il possessore di un reddito non dichiarato, indipendentemente dal fatto che egli non sia l’effettivo titolare delle somme accertate”. A fondamento del motivo, la ricorrente sostiene che l’accertamento è correttamente rivolto nei confronti di colui che abbia il possesso del reddito, anche se le somme appartengano ad un terzo evasore.
2.1.- Col motivo è fondato e va in conseguenza accolto. È dato di fatto incontestato che G. G. fosse la titolare dei conti bancari. Ed il dato è incontestato, perché ha integrato il presupposto di fatto degli avvisi di accertamento, scaturiti, secondo la ricostruzione dell’Agenzia delle entrate, non contraddetta dalla controricorrente, dal rinvenimento di un libretto al portatore acceso presso il Banco di Credito siciliano di Messina, sul quale G. G. aveva versato ingenti somme nel corso degli anni cui si riferiscono gli accertamenti. D’altronde, la stessa sentenza impugnata, nel riportare lo stralcio della sentenza penale di assoluzione citata in narrativa, riferisce che «…la G. era la formalmente titolare dei conti correnti… ».
2.2.- Irrilevante è, allora, al riguardo la valutazione del giudice penale, acriticamente recepita dalla sentenza impugnata, secondo cui il titolare effettivo delle somme transitate sui conti correnti del Banco di Credito siciliano era in realtà il coniuge di G.G.
Il presupposto dell’Irpef è difatti il possesso di determinati redditi. Il termine possesso impiegato dall’art. 1 del D.P.R. n. 917 del 1986 non ha il significato tecnico che ha nel codice civile, né ha un significato tecnico-tributario uniforme per tutte le categoria reddituali. Ma il significato minimo comune del termine senz’altro evoca, ai fini della tassabilità, la riferibilità ad un soggetto di determinati redditi e la titolarità in capo a lui dei poteri di disposizione in relazione ad essi.
Nel nostro caso, la ricostruzione dei fatti dovuta alla sentenza penale acriticamente recepita da quella impugnata non è capace di elidere il presupposto del possesso, assunto a fondamento degli accertamenti operati a carico della contribuente.
Questa ricostruzione, invero, delinea un’ipotesi d’interposizione reale di G. G. e del marito, perché tradottasi in un accordo bilaterale fra i due coniugi, cui i terzi, compreso il fisco, sono del tutto estranei. E, nell’interposizione reale, l’interposto, ossia, nel nostro caso, in ipotesi, G. G., è l’effettivo titolare del rapporto, tanto che occorre, perché l’interponente entri a sua volta in possesso dei beni o comunque dei diritti oggetto dell’interposizione, un ristrasferimento in suo favore da parte dell’interposto (vedi, in argomento, Cass. 14 marzo 2006, n. 5457).
2.3.- Non a caso, il legislatore, sia pure con norme almeno in parte non applicabili ratione temporis, ha chiaramente escluso la rilevanza dell’eventuale appartenenza di fatto ad altri del reddito, configurando, anzi, l’obbligo per l’ufficio di imputare comunque il reddito al “possessore” apparente.
Si considerino le disposizioni rispettivamente dettate dal terzo e dal quarto comma dell’art. 37 del D.P.R. n. 600 del 1973, secondo cui:
«in sede di rettifica o di accertamento d’ ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona» – terzo comma, applicabile a far data dal 2 marzo 1989, perché introdotto dal D.L. 2 marzo 1989, n. 69 e
– «le persone interposte, che provino di aver pagato imposte in relazione a redditi successivamente imputati, a norma del comma terzo, ad altro contribuente, possono chiederne il rimborso. L’amministrazione procede al rimborso dopo che l’accertamento, nei confronti del soggetto interponente, è divenuto definitivo ed in misura non superiore all’ imposta effettivamente percepita a seguito di tale accertamento-quarto comma» – quarto comma, applicabile dall’8 novembre 1997, in quanto introdotto dal D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358.
Sul punto, sia pure in relazione ad una fattispecie integralmente soggetta ad entrambe le norme, questa Corte ha già avuto occasione di rimarcare che «in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la disciplina dell’interposizione prevista dal 3° e 4″ comma dell’art. art. 37 D.P.R. n. 600 del 1973 risulta invocabile dagli interposti solo qualora provino di aver pagato imposte in relazione a redditi successivamente imputati ad altro contribuente, e comporta il diritto al rimborso di quanto indebitamente versato soltanto dopo che l’accertamento, nei confronti dell’interponente, diventi definitivo» (Cass. 22 gennaio 2010, n. 1166, che ha escluso l’applicabilità della disciplina dell’interposizione, difettandone i relativi presupposti, nel caso in cui un contribuente, intestatario di quota di una società di persone, intenda dimostrare la sua estraneità al rapporto societario, per contestare un avviso di accertamento contenente l’imputazione proporzionale dei redditi di partecipazione, ex art. 5 D.P.R. n. 917 del 1986). Là dove, per altro verso, la Corte, sia pure in relazione ad una fattispecie successiva all’entrata in vigore della norma, ha altresì precisato che l’art. 37, 3° comma, D.P.R. n. 600/1973 si applica a tutti quei casi in cui i redditi attribuiti giuridicamente a un terzo siano invece riferibili a un soggetto che ne ha l’effettiva disponibilità, a prescindere dal titolo in base al quale i redditi risultano nominalmente intestati a tale soggetto, anche con riguardo, dunque, alle ipotesi di interposizione reale (Cass. civ., 10 giugno 2011, n. 12788).
3.- L’accoglimento di questo motivo determina l’assorbimento del secondo motivo di ricorso, col quale l’Agenzia delle entrate si duole dell’acritico recepimento della sentenza penale di assoluzione della contribuente da parte della Commissione tributaria regionale, che non ha proceduto ad un’autonoma valutazione dei fatti, in violazione e falsa applicazione dell’art. 654 c.p.p., in ragione della irrilevanza delle valutazioni acriticamente recepite.
4.- Il ricorso va in conseguenza accolto.
La sentenza va, peraltro, cassata con rinvio, in quanto, sebbene il richiamo contenuto in calce di pag. 7 del controricorso, secondo cui «in caso di accoglimento resistono ovviamente tutti gli altri motivi di appello non esaminati a causa dell’intervenuto assorbimento» sia generico, emerge dalla narrativa della sentenza che il contribuente aveva proposto ulteriori due censure, che la sentenza impugnata non ha esaminato.
P.Q.M.
– Dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso;
– accoglie il terzo motivo di ricorso, in esso assorbito il secondo;
– cassa la sentenza impugnata;
– rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione Tributaria regionale della Sicilia.