CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 29 novembre 2013, n. 47471
Tributi – Reati fiscali – Frode fiscale – Associazione per delinquere – Limiti
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 29/05/2012 la Corte d’Appello di L’Aquila, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Teramo, dichiarava, tra gli altri, T. G., T. M. e T. F. colpevoli dei reati di cui all’art. 416 c.p. (capo a) e del reato di cui agli artt. 81, 110, 61 n.7 c.p.e 2 del d. Igs. n. 74 del 2000 (capo c), in questo assorbito il reato di truffa e tentata truffa aggravata di cui al capo b) e, esclusa l’aggravante di cui all’art. 61 n.7 c.p., rideterminava la pena in anni quattro e mesi otto di reclusione ciascuno.
2. Hanno interposto anzitutto ricorso T. G. e T. F. tramite i propri difensori Avv.ti De S. e C..
2.1. Con un primo motivo lamentano la nullità dell’ordinanza in data 29 maggio 2012 e della sentenza impugnata per inosservanza degli artt. 178, 179, 180 e 601 c.p.p. nonché insufficienza, illogicità e manifesta contraddittorietà della motivazione.
In particolare si dolgono del fatto che la Corte, pur avendo ritenuto non rispettato il termine di giorni venti per la notifica del decreto di citazione per l’udienza del 19 marzo 2012 nei confronti di T. G., abbia ritenuto sanata la nullità non avendo il difensore d’ufficio, designato in sostituzione di quello di fiducia non comparso, eccepito alcunché all’udienza predetta del 19 marzo. Infatti, essendo stata la predetta udienza rinviata per adesione dei difensori di fiducia e del difensore d’ufficio all’astensione dalle udienze, come rilevato dalla stessa sentenza, mai il difensore d’ufficio avrebbe potuto sollevare l’eccezione in oggetto precludendo l’astensione qualsiasi attività processuale. In ogni caso rileva che alla successiva prima udienza utile del 29 maggio 2012 l’inosservanza del termine a comparire venne ritualmente eccepita prima della dichiarazione di apertura del dibattimento e dunque nel rispetto del termine di cui all’articolo 491, comma 1, c.p.p. Di qui la nullità dell’intero processo di secondo grado non solo nei confronti di T. G. ma anche di T. F. e degli altri imputati, attesa la unitarietà delle posizioni processuali.
Ancor prima, peraltro, lamentano che la notifica del decreto sarebbe irritualmente avvenuta nelle mani del difensore, posto che non sussistevano i presupposti di irreperibilità di T. G. e atteso che il difensore aveva preventivamente rifiutato l’incarico di domiciliatario ex lege. Ciò avrebbe dovuto comportare la rinnovazione della notifica, affetta, per le ragioni dette, da nullità assoluta.
2.2. Con un secondo motivo lamentano la nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia sui motivi aggiunti dell’appellante T. G. in data 12/05/2012; con gli stessi si era eccepita infatti, tra l’altro, l’inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali e telefoniche in atti in quanto mai richieste né autorizzate ex art. 266, comma 2, c.p.p., la non genuinità del file della conversazione del 04/05/2006 e la non attribuibilità della stessa a F. e M. T., la inutilizzabilità della perizia telefonica effettuata in quanto non limitatasi a trascrivere le sole conversazioni telefoniche, errata quanto alla trascrizione di specifiche parole e non preceduta da autorizzazione a servirsi di terzi per la traduzione dalla lingua inglese a quella italiana e, infine, la contraddittorietà della motivazione; si era inoltre chiesta la rinnovazione dell’istruzione consistente nella rinnovazione della perizia telefonica, nella effettuazione di perizia volta a valutare l’autenticità dei file audio e l’integrale ascolto in udienza delle intercettazioni. In particolare la Corte avrebbe omesso di pronunciarsi sui medesimi senza fornire alcuna motivazione e dando atto unicamente del deposito dei motivi nuovi nell’Interesse di T. F., diversi da quelli presentati da T. G. in quanto mancanti di due specifici profili, con conseguente omessa pronuncia riverberatasi anche in ordine ai restanti appellanti circa il profilo della responsabilità e del regime sanzionatolo inflitto.
2.3. Con un terzo motivo, connesso al secondo, lamentano la mancata assunzione di prova decisiva in conseguenza della omessa disamina dei motivi nuovi presentati da T. G., nei quali erano formulate importanti richieste istruttorie in ordine a prove decisive, essendo le intercettazioni state considerate tali dalla sentenza impugnata, che su di esse ha equiparato la posizione di T. G. a quella dei fratelli.
Con un quarto motivo lamentano, sempre con riguardo a detti motivi nuovi, l’inosservanza degli articoli 603 comma 2 e 3 c.p.p., 220 e 224 c.p.p., avendo la Corte comunque omesso di disporre d’ufficio, anche nell’ipotesi di tardività dei suddetti motivi, la richiesta di rinnovazione dell’Istruzione dibattimentale.
Con un quinto motivo lamentano la nullità della sentenza impugnata per inosservanza dell’articolo 585, comma 4, c.p.p. e per contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione posto che i motivi nuovi depositati in data 12/05/2012 da T. G., comunque non considerati, non avrebbero potuto essere considerati tardivi atteso che l’udienza utile cui fare riferimento per il calcolo del termine relativo non poteva essere quella del 19/03/2012, In relazione alla quale il decreto di citazione non era stato ritualmente notificato, bensì quella del 29/05/2012.
Con un sesto motivo lamentano la nullità della sentenza per inosservanza della legge processuale in relazione alle argomentazioni fornite quanto alla invocata inutilizzabilità, nei motivi nuovi di cui sopra, di tutte le intercettazioni ambientali operate in quanto né richieste, né autorizzate, insistendo per la inutilizzabilità e distruzione delle stesse. In particolare contestano l’affermazione illogica della Corte secondo cui il colloquio intervenuto tra due uomini, identificati in T. M. e F., non sarebbe stato il risultato di una intercettazione ambientale non autorizzata dal Gip, bensì una breve conversazione intercorsa tra due persone, risolvendosi in realtà tale precisazione nell’affermare ciò che si è voluto negare. Lo stesso perito avrebbe del resto confermato la natura della intercettazione ambientale operata, rispetto alla quale si insiste nel rilevare l’assenza in atti di ogni richiesta od autorizzazione. La Corte avrebbe poi illogicamente e contraddittoriamente motivato quanto all’attribuibilità, sulla base delle dichiarazioni del teste M. C., ai fratelli T. F. e M. delle voci della conversazione; lamentano poi l’omessa motivazione con riguardo all’indebito utilizzo, per l’intercettazione, di impianti appartenenti a privati. Insistono in ogni caso nel chiedere la inutilizzabilità e distruzione di tutte le intercettazioni ambientali in quanto non richieste né autorizzate nonché di ogni intercettazione telefonica, eseguita in violazione di legge perché realizzata con software che ne ha consentito unicamente l’ascolto e dunque con pregiudizio del diritto di difesa e della garanzia di genuinità e conformità del giusto processo.
2.4. Con un settimo motivo lamentano l’erronea applicazione dell’articolo 416 c.p. e la mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione. Si dolgono in particolare del fatto che, mentre la sentenza di primo grado aveva affermato l’insussistenza del reato associativo per la mancanza di elementi sintomatici del vincolo e l’impossibilità di valorizzare la struttura organizzativa utilizzata per fini leciti di impresa, la sentenza impugnata, per addivenire a diversa conclusione, si è limitata a richiamare la giurisprudenza di legittimità affermativa della sussistenza del reato anche laddove gli associati si servano di una struttura preesistente senza tuttavia spiegare in alcun modo, anche con riguardo alla consapevolezza della partecipazione ad un sodalizio criminoso, come la società per azioni facente capo agli imputati si sia inserita nello schema del reato associativo in maniera tale da integrare un valore aggiunto che consenta di ricondurre il fatto nella fattispecie illecita contestata. Deducono inoltre come sia completamente mancante la motivazione in ordine alla singola posizione di ciascun imputato sia con riguardo al ruolo ricoperto sia con riguardo alla commissione dei reati – fine, non essendo sufficiente a tal proposito la partecipazione alla struttura organizzativa criminosa. La sentenza impugnata avrebbe dovuto offrire elementi idonei a distinguere un’operazione commerciale lecita da una illecita ed in tale secondo caso a dimostrare che addirittura fosse stata organizzata una struttura criminosa.
2.5. Con un ottavo motivo lamentano la nullità della sentenza impugnata per erronea applicazione degli artt. 192 comma 1, c.p.p. e 546 lett. e) c.p.p. nonché mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione. In particolare si deduce l’omessa valutazione delle testimonianze a sostegno della prospettazione difensiva in particolare in ordine al fatto che le operazioni svolte dalla società erano certe e sicure in quanto a fronte di ogni fattura attiva o passiva vi era sempre stata la consegna della merce ed il pagamento o l’incasso del relativo prezzo. In tal modo si sarebbe omesso di rispondere circa il fatto che le merci esistevano realmente, che la società ha sempre pagato tutte le fatture, che gli incassi precedevano la spedizione della merce attraverso bonifici urgenti, sicché nessuna anomalia è stata riscontrata dalla guardia di finanza nella gestione delle attività societarie. Né si comprende in base a quali elementi sia stata sostenuta la fittizletà dei rapporti fiscali e commerciali posti in essere dalla società non essendo stato indicato alcun elemento fattuale idoneo a corroborare l’esistenza di un rapporto fittizio che maschererebbe il reale trasferimento di proprietà.
Con un nono motivo deducono la nullità della sentenza impugnata per erronea applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 e mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione. In particolare, oltre a ribadire che la falsità soggettiva rileva solo se idonea a produrre effetti fiscali e non se qualificabile come mera falsità documentale, deducono che la fattispecie non sussiste ove la falsa indicazione riguardi il solo prestatore del servizio emittente la fattura atteso che l’utilizzatore dì fatture emesse da un soggetto diverso da quello che ha realmente eseguito la prestazione non espone alcun elemento passivo fittizio ma un costo realmente sostenuto e non agisce al fine di realizzare una propria evasione.
Con un decimo motivo denunciano la nullità della sentenza impugnata per erronea applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 e mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione in particolare quanto agli elementi del reato dell’inserimento nelle dichiarazioni annuali delle contestate 38 fatture e della presentazione delle dichiarazioni annuali stesse, essendosi la Corte limitata a richiamare generiche ed atemporali osservazioni dì carattere empirico quali l’indagine dell’Agenzia delle entrate, la domanda di rimborso ed il sequestro intervenuto.
Con un undicesimo motivo si lamenta la nullità della sentenza impugnata in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche, non concesse in base al marcato disvalore sociale delle condotte, alla turbativa del mercato così realizzata e alla pervicacia della condotta tenuta; in particolare, mentre il disvalore sociale non sarebbe sufficiente ad escludere l’operatività delle attenuanti, gli ulteriori elementi consisterebbero in mere illazioni smentite dagli stessi riscontri processuali; in particolare le modalità operative contestate si sarebbero limitate ad un arco temporale neppure coincidente con il periodo di vita dell’associazione criminosa sicché, nella sostanza, la sentenza avrebbe operato un generico, non sufficiente, riferimento alla gravità del reati contestati. Con un dodicesimo motivo lamentano la nullità della sentenza impugnata per l’errata applicazione degli articoli 2, 240 e 322 ter c.p.. In particolare la sentenza, dopo aver correttamente escluso l’applicabilità della confisca per equivalente al reato tributario contestato sia in virtù del principio di retroattività sia per il riconoscimento della specialità del reato di cui all’art. 2 cit. rispetto al delitto di truffa, ha però erroneamente applicato la confisca obbligatoria ex art. 240 c.p., da un lato violando il divieto di reformatio in peius laddove h i applicato una disposizione più sfavorevole al reo in assenza di impugnazione da parte del pm, e dall’altro non ha in alcun modo motivato circa la natura di profitto, prodotto o prezzo del reato del denaro confiscato.
Con un tredicesimo motivo lamentano la nullità della sentenza impugnata per l’errata applicazione degli articoli 240 e 322 ter c.9., precisano che la corte, pur escludendo la possibilità di procedere a confisca per equivalente di un credito, ha ritenuto applicabile in relazione ad esso la confisca nella forma diretta ex articolo 240 c.p. e tuttavia in dispositivo ha confermato la confisca disposta in primo grado limitatamente all’importo di € 2.672.478,16 ordinando la restituzione all’avente diritto della differenza rispetto all’importo di euro 3 milioni. Poiché, tuttavia, in primo grado la confisca era stata disposta per equivalente, il giudice d’appello ha finito per confermare la già disposta confisca per equivalente pur ritenendola non applicabile.
3. Un ulteriore ricorso è stato presentato dal solo T. G. per il tramite del Difensore Avv. De S.. Tale ricorso, assolutamente analogo a quello presentato unitamente a T. F. in relazione ai tredici motivi sopra indicati, propone ulteriori due motivi non presenti in quello.
Più precisamente, con il primo di detti due motivi (indicato come ottavo motivo), lamenta, subordinatamente al motivo lamentante l’erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 416 c.p., e la mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione, la nullità della sentenza e dell’ordinanza impugnate per mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione e per travisamento di prova. In particolare, premesso che la Corte territoriale, pur avendo ritenuto T. G. meno esposto rispetto ai fratelli, sarebbe stato comunque coinvolto sulla base delle conversazioni telefoniche, delle dichiarazioni di F. G., delle dichiarazioni di C. V. e delle dichiarazioni di B. T., ha poi contraddittoriamente escluso la possibilità di attribuire a T. G. un ruolo minoritario. Inoltre la stessa Corte non ha motivato specificamente sul perché, difformemente da quanto ritenuto dal Tribunale, i primi tre elementi non fossero idonei a disegnare in capo a T. G. un ruolo meno esposto; ciò, tanto più emergendo da dette telefonate che G. si limitò a interessarsi dei percorsi di alcuni camion ed essendosi il testimone F., quanto all’episodio della copertura dei timbri doganali, espresso in termini dubitativi circa la presenza di G. e i testi C. e B. avendo fatto affermazioni correttamente interpretate dal Tribunale ma travisate dalla Corte. Di qui l’illegittima attribuzione anche a G. delle condotte di reato contestate (difettando in ogni caso l’elemento soggettivo) o quanto meno l’illegittimo trattamento sanzionatorio eguale a quello stabilito per i due fratelli.
Con il secondo dei due motivi suddetti (formalmente indicato come dodicesimo motivo), poi, lamenta la nullità della sentenza per erronea applicazione dell’art.2 del d. Igs. n. 74 del 2000. Infatti, anche a voler ritenere l’inesistenza soggettiva delle operazioni, il reato non potrebbe sussistere comunque alla luce dell’art.8 del d.l. n, 16 del 2012, convertito in I. n. 44 del 2012; infatti, a tale norma non conseguirebbe più l’indeducibilità relativamente alle fatture per operazioni soggettivamente inesistenti giacché in tal caso il costo non sarebbe in rapporto diretto col reato; di qui la non integrazione del reato posto che l’art.2 si porrebbe a presidio della completa percezione de! tributo, non potendo quindi essere invocata nei casi di fenomeno privo di profili evasivi.
3. Ha interposto ricorso anche T. M. personalmente.
Con un primo motivo lamenta la nullità dell’ordinanza in data 29 maggio 2012 e della conseguente sentenza per inosservanza degli articoli 178, 179, 180 e 601 c.p.p. nonché insufficienza, illogicità e manifesta contraddittorietà della motivazione.
In particolare si duole dei fatto che la Corte, pur avendo ritenuto non rispettato il termine di giorni venti per la notifica del decreto di citazione per l’udienza del 19 marzo 2012 nei confronti di T. G., abbia ritenuto sanata la nullità non avendo il difensore d’ufficio, designato in sostituzione di quello di fiducia non comparso, eccepito alcunché all’udienza predetta del 19 marzo. Infatti, essendo stata la predetta udienza rinviata per adesione dei difensori di fiducia e del difensore d’ufficio all’astensione dalle udienze, come rilevato dalla stessa sentenza, mai il difensore d’ufficio avrebbe potuto sollevare l’eccezione in oggetto precludendo l’astensione qualsiasi attività processuale. In ogni caso rileva che alla successiva udienza del 29 maggio 2012 l’inosservanza del termine a comparire sarebbe stata ritualmente eccepita prima della dichiarazione di apertura del dibattimento e dunque nel rispetto del termine di cui all’articolo 491 comma 1 c.p.p. Ancor prima, peraltro, la notifica del decreto sarebbe irritualmente avvenuta nelle mani del difensore, posto che non sussistevano i presupposti di irreperibilità di T. G. e atteso che il difensore aveva preventivamente rifiutato l’incarico di domiciliatario ex lege. Ciò avrebbe comportato la nullità dell’intero processo di secondo grado non solo nei confronti di T. G. ma anche di T. M. e degli altri imputati, attesa la unitarietà delle posizioni processuali.
Con un secondo motivo lamenta la nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia sui motivi aggiunti dell’appellante T. G.. In particolare la Corte avrebbe omesso di pronunciarsi sui medesimi senza fornire alcuna motivazione dando atto unicamente del deposito dei motivi nuovi nell’interesse di T. F., con conseguente omessa pronuncia riverberatasi anche in ordine al profilo della responsabilità dell’appellante T. M. e del regime sanzionatone inflitto.
Con un terzo motivo lamenta il vizio di cui all’art. 606 lettera d) c.p.p in conseguenza della omessa disamina dei motivi nuovi presentati da T. G., nei quali erano formulate importanti richieste istruttorie in ordine a prove decisive, essendo state le intercettazioni considerate centrali quanto alla dimostrazione della responsabilità degli imputati.
Con un quarto motivo lamenta, sempre con riguardo a detti motivi nuovi, l’inosservanza degli articoli 603, comma 2 e 3, c.p.p., 220 e 224 c.p.p., avendo la Corte comunque omesso di disporre d’ufficio, anche nell’ipotesi di tardività dei suddetti motivi, la richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
Con un quinto motivo lamenta la nullità della sentenza impugnata per inosservanza dell’articolo 585 comma 4 c.p.p. e per contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione posto che I motivi nuovi depositati in data 12/05/2012
da T. G., comunque non considerati, non avrebbero potuto essere considerati tardivi atteso che l’udienza utile cui fare riferimento per il calcolo del termine relativo non poteva essere quella del 19/03/2012, in relazione alla quale il decreto di citazione non era stato ritualmente notificato, bensì quella del 29/05/2012.
Con un sesto motivo lamenta la nullità della sentenza per inosservanza della legge processuale in relazione alle argomentazioni fornite quanto alla invocata in utilizzabilità, nei motivi nuovi di cui sopra, di tutte le intercettazioni ambientali operate in quanto né richieste, né autorizzate, insistendo per la inutilizzabilltà e distruzione delle stesse. In particolare contesta l’affermazione illogica della Corte secondo cui il colloquio intervenuto tra due uomini, identificati in T. M. e F., durante la conversazione del 04/05/2006 non sarebbe stato il risultato di una intercettazione ambientale non autorizzata dal Gip, bensì una breve conversazione intercorsa tra due persone, risolvendosi in realtà tale precisazione nell’affermare ciò che si è voluto negare. Lo stesso perito avrebbe del resto confermato la natura della intercettazione ambientale operata, rispetto alla quale si insiste nel rilevare l’assenza in atti di ogni richiesta od autorizzazione. La Corte avrebbe poi illogicamente e contraddittoriamente motivato quanto all’attribuibilità, sulla base delle dichiarazioni del teste M. C., ai fratelli T. F. e M. delle voci della conversazione; lamenta poi l’omessa motivazione con riguardo all’indebito utilizzo, per l’intercettazione, di impianti appartenenti a privati. Insiste in ogni caso nel chiedere la inutilizzabilità e distruzione di tutte le intercettazioni ambientali in quanto non richieste né autorizzate nonché di ogni intercettazione telefonica, eseguita in violazione di legge perché realizzata con software che ne ha consentito unicamente l’ascolto e dunque con pregiudizio del diritto di difesa e della garanzia di genuinità e conformità del giusto processo.
Con un settimo motivo lamenta l’erronea applicazione dell’art. 416 c.p. e la mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione. Si duole in particolare del fatto che, mentre la sentenza di primo grado aveva affermato l’insussistenza del reato associativo per la mancanza di elementi sintomatici del vincolo e l’impossibilità di valorizzare la struttura organizzativa utilizzata per fini leciti di impresa, la sentenza impugnata, per addivenire a diversa conclusione, si è limitata a richiamare la giurisprudenza di legittimità affermativa della sussistenza del reato anche laddove gli associati si servano di una struttura preesistente senza tuttavia spiegare in alcun modo, anche con riguardo alla consapevolezza della partecipazione ad un sodalizio criminoso, come la società per azioni facente capo agli imputati si sia inserita nello schema del reato associativo in maniera
tale da integrare un valore aggiunto che consenta di ricondurre il fatto nella fattispecie illecita contestata. Deduce inoltre come sia completamente mancante la motivazione in ordine alla singola posizione di ciascun imputato sia con riguardo al ruolo ricoperto sia con riguardo alla commissione dei reati fine, non essendo sufficiente a tal proposito la partecipazione alla struttura organizzativa criminosa né il riferimento a risultanze istruttorie (specie testimoniali) viziate da travisamento. La sentenza impugnata avrebbe dovuto offrire elementi idonei a distinguere un’operazione commerciale lecita da una illecita ed in tale secondo caso a dimostrare che addirittura fosse stata organizzata una struttura criminosa.
Con un ottavo motivo lamenta la nullità della sentenza per erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 110 c.p, e la mancanza di motivazione avendo la Corte non solo omesso ogni valutazione circa il contributo di ogni fratello nell’ambito del preteso consorzio illecito ma omesso anche ogni valutazione circa il contributo causale ai fini del ritenuto concorso nel reato di cui all’art. 2 del d. Igs. n. 74 del 2000.
Con un nono motivo denuncia la nullità della sentenza impugnata per erronea applicazione dell’art. 2 del d. Igs. n. 74 del 2000 e mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione in particolare quanto agli elementi del reato dell’inserimento nelle dichiarazioni annuali delle contestate 38 fatture e della presentazione delle dichiarazioni annuali stesse, essendosi la Corte limitata a richiamare generiche ed atemporali osservazioni di carattere empirico quali l’indagine dell’agenzia delle entrate, la domanda di rimborso ed il sequestro intervenuto.
Con un decimo motivo lamenta la nullità della sentenza impugnata per erronea applicazione dell’art. 2 citato quanto alla insussistenza del reato di utilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti; rileva sul punto che il fatto non sussisterebbe anche qualora le fatture fossero oggettivamente esistenti ma soggettivamente inesistenti, alla luce dell’art. 8 del d.l. 2 marzo 2012 n. 16 di modifica dell’articolo 14, comma 4 bis, della legge numero 537 del 1993, secondo cui non sono ammessi in deduzione i costi delle spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo, dovendo la novella applicarsi anche in relazione a fatti, atti o attività poste in essere prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni. Infatti la indeducibilità non dovrebbe più valere, a seguito di tali modifiche, per !e fatture relative ad operazioni soggettivamente inesistenti giacché, in tal caso, il costo esisterebbe nella realtà e non sarebbe in rapporto diretto con il reato. E tale modifica avrebbe inciso anche sull’estensione dell’operatività dell’art.2 del decreto legislativo citato.
Con un undicesimo motivo lamenta la nullità della sentenza impugnata in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche, non concesse in base al marcato disvalore sociale delle condotte, alla turbativa del mercato così realizzata e alla pervicacia della condotta tenuta; in particolare, mentre il disvalore sociale non sarebbe sufficiente ad escludere l’operatività delle attenuanti, gli ulteriori elementi consisterebbero in mere illazioni smentite dagli stessi riscontri processuali; in particolare le modalità operative contestate si sarebbero limitate ad un arco temporale neppure coincidente con il periodo di vita dell’associazione criminosa sicché, nella sostanza, la sentenza avrebbe operato un generico, non sufficiente, riferimento alla gravità dei reati contestati. Con un dodicesimo motivo lamenta la nullità della sentenza impugnata per l’errata applicazione degli artt. 2, 240 e 322 ter c.p,. In particolare la sentenza, dopo aver correttamente escluso l’applicabilità della confisca per equivalente al reato tributario contestato sia in virtù del principio di retroattività sia per il riconoscimento della specialità del reato di cui all’art. 2 cit. rispetto al delitto di truffa, ha però erroneamente applicato la confisca obbligatoria ex art. 240 c.p., da un lato violando il divieto di reformatio in peius laddove ha applicato una disposizione più sfavorevole al reo in assenza di impugnazione da parte del pm, e dall’altro non motivando in alcun modo circa la natura di profitto, prodotto o prezzo del reato del denaro confiscato.
4. Ha proposto ricorso anche il difensore di T.
Con un primo motivo lamenta l’erronea applicazione dell’art. 2 del d. lgs. n. 74 del 2000 nonché la contraddittorietà di motivazione evidenziando in particolare come la prova in ordine alla falsità delle operazioni sia stata desunta non dall’analisi delle stesse ma dalla struttura societaria ed organizzativa dei partner commerciali degli imputati senza che, peraltro, sia stata esposta alcuna prova, necessaria per la dimostrazione del reato in oggetto, in ordine ad un accordo intervenuto con i medesimi. Sul punto aggiunge come la giurisprudenza comunitaria abbia statuito che la deducibilità dell’imposta può essere negata solo laddove l’imprenditore sia consapevole di partecipare ad un’operazione fraudolenta sul piano dell’imposizione, non potendo il partecipante inconsapevole ad un illecito carosello subirne le conseguenze. Nella specie, invece, la Corte territoriale ha ricondotto la prova della consapevolezza degli imputati al mancato controllo circa l’effettiva attività prestata dalle società a monte e ha del tutto genericamente motivato, quanto al mancato pagamento dell’Iva, con riferimento non allo specifico caso ma ad astratti principi. Si deduce poi come del tutto apparente e contraddittoria la motivazione data in ordine alla effettiva utilizzazione delle fatture nelle dichiarazioni presentate.
Con un secondo motivo lamenta la mancata motivazione in ordine alla rilevanza penale della soggettiva inesistenza delle operazioni atteso che l’utilizzazione di fatture anche emesse da soggetto diverso da quello che realmente abbia eseguito la prestazione non comporta l’esposizione di alcun elemento passivo fittizio bensì di un costo effettivamente sostenuto, a tal proposito richiamandosi la sentenza n. 45056 del 2010 della Corte di cassazione, a ciò conseguendo anche il difetto dell’elemento soggettivo del reato, limitato al fine di evasione in capo al soggetto agente e non anche al fine di consentire a terzi l’evasione; lamenta inoltre che la Corte territoriale sì sia limitata a rinviare alla sentenza di primo grado quanto alla prova della fittizietà delle operazioni.
Con un terzo motivo lamenta la non configurabilità astratta del reato di associazione a delinquere nonché il difetto di motivazione essendosi i giudici limitati a descrivere in termini del tutto generici la fisionomia del sodalizio non essendo stato analizzato e motivato nessuno degli elementi distintivi della fattispecie rispetto a quella del concorso di persone; né è stato dimostrato quel quid pluris che consentisse con certezza di ricostruire le posizioni dei singoli associati, essendo un evidente salto logico sostenere che fosse membro di un sodalizio durevole soltanto perché in qualità di proprietario della società N. era coinvolto nelle vicende della stessa.
Con un quarto motivo lamenta la violazione dell’articolo 597 c.p.p. e il difetto di motivazione in relazione alla confisca disposta ex art. 240 c.p.; in particolare, i giudici d’appello hanno sostituito la confisca per equivalente, connotata da natura sanzionatoria, con la confisca di cui all’art. 240 c.p. qualificabile quale misura di sicurezza in assenza di alcuna richiesta del P.M. nei motivi di gravame e senza motivazione alcuna in ordine alla pericolosità sociale, quale requisito necessario versandosi in ipotesi di confisca facoltativa. Né è stato dimostrato, quanto al necessario nesso di pertinenzialità, che le fatture ritenute inesistenti fossero le medesime poi confluite nella dichiarazione e da cui sarebbe scaturito il profitto ingiusto per tale ragione confiscabile; né può procedersi alla confisca a norma dell’articolo 240 c.p. ove non sia possibile individuare i beni in cui si è materializzato il profitto del reato, e ciò, in particolare con riguardo all’ipotesi in cui il profitto stesso venga conseguito attraverso la riscossione di somme di denaro, potendo solo queste ultime essere oggetto della confisca diretta. A maggior ragione non è possibile procedere alla confisca laddove il profitto non derivi dal conseguimento di un bene economico ma da un risparmio, ovvero dal mancato sostenimento di costi che, in assenza della condotta illecita, si sarebbero dovuti sostenere.
In ultimo rileva come il credito sequestrato appartenga alla società N..it benché alla stessa non sia stato mosso alcun rilievo di responsabilità a norma del decreto legislativo n. 231 del 2001, dovendo il principio affermato dalla corte di legittimità con riguardo alla inapplicabilità in tali casi della confisca per equivalente, valere anche con riguardo alla confisca ex art. 240 c.p.
5. In data 02/04/2013 il Difensore di T. M. ha depositato motivi aggiunti con cui ha ribadito l’intervenuta erronea applicazione dell’art. 2 cit. per insussistenza del reato contestato quanto all’utilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti evidenziando in particolare l’intervenuta modifica dell’articolo 14, comma 4 bis, della legge numero 537 del 1993 ad opera dell’art. 8 del d.l. n.16 del 2012; osserva che, mentre sulla base della formulazione previgente della norma, potevano escludersi, dall’ambito della previsione di indeducibilltà dei costi, le sole violazioni costituenti illeciti civili o amministrativi e non le violazioni di carattere penale, sia dolose che colpose, la nuova formulazione circoscrive l’indeducibilità ai soli componenti negativi di reddito relativi a beni o prestazioni direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per i quali sia stata esercitata l’azione penale; di qui, dunque, la necessità di un collegamento diretto del costo con la realizzazione dell’atto o dell’attività costituente reato; richiamandosi la relazione illustrativa del citato decreto legge si deduce dunque l’impossibilità, per l’amministrazione finanziaria, di richiamare tale disposizione per contrastare la deducibilità dei costi esposti in fatture soggettivamente inesistenti; infatti, in tal caso, il costo esiste in quanto l’acquisto è avvenuto realmente, ma da un soggetto diverso rispetto a quello emittente. La intervenuta modifica, relativa a legge extrapenale nella specie rilevante in quanto indispensabile presupposto del contenuto della norma penale, comporta dunque la configurabilità di un’ipotesi di reato impossibile ex art. 49 c.p.
Sotto un secondo profilo, ribadisce che non è sufficiente l’inserimento del soggetto in un sistema di frode carosello per desumere implicitamente la responsabilità del medesimo, essendo invece necessario dimostrare la consapevolezza di questi di far parte di tale meccanismo e insiste nel lamentare l’assoluta mancanza di argomentazione sul punto nella sentenza impugnata.
6. In data 17/08/2013 il Difensore di G. e F. T., Avv. De S., ha presentato tre motivi nuovi di ricorso.
Con il primo motivo deduce la nullità della sentenza e delle ordinanze del 19/10/2011, 17/2/2012 e 19/3/2012 per omessa citazione dell’imputato.
In particolare, dopo avere rilevato che l’udienza del 19/10/2011 venne rinviata senza dichiarazione di contumacia degli imputati (dichiarazione annotata infatti nel verbale dopo la chiusura dello stesso), a quella del 17/2/2012 per concomitante impegno professionale dell’avv. L. e che questa ultima udienza venne a sua volta rinviata a quella del 19/3/2012 per mancato perfezionamento della notifica con riguardo a T. F. e G., deduce che entrambi i provvedimenti di rinvio avrebbero dovuto essere notificati ad ogni imputato non comparso (in quanto non rappresentato dal difensore), essendo derivata dunque, dall’omissione di tale adempimento, la nullità assoluta delle ordinanze suddette e, finalmente, della sentenza.
Con il secondo motivo si lamenta nuovamente la nullità della sentenza e delle ordinanze del 19/10/2011, 17/2/2012 e 19/3/2012 per omessa citazione degli imputati, in particolare rilevandosi che la contumacia di T. M., B. M. e M. G. sarebbe stata dichiarata irritualmente senza che le parti siano state sentite.
Con il terzo motivo, richiamando quanto eccepito con il primo motivo di ricorso, ribadisce l’erroneità del giudizio della Corte secondo cui la nullità derivante dall’omesso rispetto del termine a comparire sarebbe stata sanata sia in ragione della impossibilità per il difensore astenutosi dì svolgere attività processuale sia per l’intervenuta eccezione all’udienza del 29/5/2012, ovvero nel rispetto del termine di cui all’art. 491, comma 1, c.p.p.
7. In data 01/10/2013 il Difensore di T. F. e G., Avv, De S., ha depositato ulteriori tre nuovi motivi di ricorso.
Segnatamente, con il quarto motivo nuovo, ha lamentato la nullità della sentenza, dell’ordinanza e dei verbali impugnati ex art. 606 lett, b) e c) c.p.p. con riferimento agli artt. 525, comma 2, 179 nonché 601 e 602 e ss. c.p.p. In particolare evidenzia che : 1) dal verbale dell’udienza del 19/03/2012 risulta che, nonostante l’intervenuta adesione dei difensori all’astensione dalle udienze il dibattimento, fu chiuso e fu data lettura del dispositivo d’udienza; 2) che a tale udienza il collegio era composto diversamente rispetto all’udienza del 29/05/2013; 3) che analogamente risulta dal verbale che all’udienza del 19/10/2011 venne effettuata la relazione del consigliere relatore cui seguì la discussione e la chiusura del dibattimento.
Con il quinto motivo nuovo, formalmente nuovo ma nella sostanza ancora una volta ripropositivo del primo motivo originario di ricorso, evidenzia, invocando la nullità della sentenza e di ordinanza per errata applicazione della legge penale, che all’udienza del 29/05/2012 la contumacia di T. G. avrebbe dovuto essere revocata a seguito della tempestivamente eccepita nullità del decreto di citazione per mancato rispetto del termine a comparire. Ribadisce che all’udienza del 19/03/2012 si sarebbe dovuta menzionare dapprima l’assenza e l’impedimento del difensore di fiducia, quindi la nomina del sostituto con la relativa dichiarazione di astensione, successivamente la dichiarazione di contumacia degli imputati ed infine la decisione sulla legittimità dell’impedimento dei difensori. Ribadisce inoltre ancora una volta che nessuna sanatoria può individuarsi nella mancata attivazione ad eccepire del difensore d’ufficio in quanto anch’egli partecipante alla astensione dalle udienze.
Con il sesto motivo nuovo lamenta la nullità dei provvedimenti impugnati ex art. 606, lett. b) in ordine all’art. 603, commi 2 e 3, e 220 e 224 c.p.p. nonché ex art. 606 lett. e) c.p.p. evidenziando che il potere di rinnovazione istruttoria si sottrae, per la sua natura discrezionale, allo scrutinio di legittimità nel limiti in cui la decisione del giudice di appello presenti una struttura argomentativa evidenziale l’esistenza di fonti sufficienti per una compiuta e logica valutazione in punto di responsabilità; ciò che, nella specie, non è posto che in particolare l’elemento soggettivo dei reati è stato fondato esclusivamente sul contenuto delle intercettazioni e sugli accertamenti fonico – trascrittivi, di per sé inidonei stante l’attestata impossibilità di attribuire le voci di cui al progr. 2126 a M. e F. T., voci non riconosciute neppure dal teste M. C.; sicché il residuo compendio probatorio non potrebbe in alcun modo suffragare autonomamente la responsabilità degli imputati.
Considerato in diritto
8. Vanno anzitutto presi in esame i motivi di natura processuale di cui al ricorso presentato da T. G. e F. nei motivi originariamente proposti e in quelli nuovi successivamente proposti in due distinti momenti.
Il primo motivo (ribadito dal terzo e dal quinto motivo “nuovo” di ricorso, in realtà, appunto, aventi natura meramente ripropositiva di quello) con cui si lamenta la nullità della notifica del decreto di citazione per il grado di appello nei confronti di T. G., è manifestamente infondato quanto al primo e inammissibile quanto al secondo dei ricorrenti.
Come emergente dagli atti (consultabili da questa Corte in ragione della natura processuale dell’eccezione), la notifica del decreto di citazione in grado di appello per l’udienza del 19/03/2012 venne effettuata a mani di T. G. in data 02/03/2012 (essendo stata dunque la notifica successivamente effettuata a mani dell’Avv. De S. ex art. 161, comma 4, c.p.p., lamentata come illegittima, meramente reiterativa di quella), essendone quindi effettivamente conseguito il mancato rispetto del termine di legge a comparire.
Ciò posto, come ripetutamente affermato da questa Corte, l’inosservanza del termine minimo di venti giorni, stabilito dall’art. 601, comma 5, c. p. p., per la notifica dell’avviso al difensore in relazione al giudizio di appello, non integra una nullità assoluta ed insanabile, ma una nullità che, la si voglia definire relativa (tra le altre, Sez. 5, n. 35883 del 17/07/2009, Santagata, Rv. 245101; Sez.3, n. 6339 del 19/12/2001, Altieri, Rv. 221581) oppure a regime intermedio (in tal senso, nonostante la massima non corretta, Sez. 6, n. 24253 del 10/03/2009, B.ni, Rv. 244174 nonché Sez. 5, n. 2954 del 10/11/2009,. Maggiolini, Rv. 245844), resta comunque sanata se non eccepita entro Il termine di cui all’art. 491 c. p. p.. Ne consegue che correttamente, in applicazione di detto principio, la Corte abruzzese ha ritenuto che la nullità della notifica del decreto di citazione fosse stata sanata per non avere, il difensore di ufficio, nominato all’udienza del 19/03/2012 in sostituzione del difensore di fiducia non comparso per adesione all’astensione dalle udienze proclamata dall’Oua, eccepito alcunché una volta procedutosi all’accertamento della costituzione delle parti tanto da dichiarare la contumacia dello stesso T. G..
Né può ritenersi che il difensore di ufficio fosse impedito dal sollevare eccezioni di sorta a causa della intervenuta adesione, anche da parte del medesimo, all’astensione dalle udienze; invero, premesso che, come da verbale di udienza, tale adesione venne manifestata solo successivamente alla declaratoria di contumacia, va rammentato che, secondo quanto statuito da questa Corte a Sezioni Unite, sono legittimi tanto la prioritaria dichiarazione di contumacia dell’imputato in presenza del difensore designato ai sensi dell’art. 97, comma 4, c.p. p. in sostituzione del difensore di fiducia che abbia richiesto il rinvio della udienza per impedimento a comparire, quanto, in accoglimento di tale richiesta, il successivo rinvio del processo ad altra udienza (Sez. U., n. 8285 del 28/02/2006, Grassia, Rv. 232905).
Ne consegue la manifesta infondatezza del motivo di ricorso con riferimento alla posizione del ricorrente T. G., essendo invece, come già anticipato, lo stesso inammissibile con riferimento alla posizione del ricorrente T. F., stante la natura del tutto personale, e preclusiva, come tale, di una sua trasferibilità in capo ai coimputati, di un motivo attinente, nella stessa prospettazione di T. F., alla nullità della notifica riguardante il solo G..
9. E’ manifestamente infondato anche il primo motivo nuovo di ricorso presentato sempre da T. F. e G. volto a dedurre la necessità, a pena di nullità, che i rinvii operati alle udienze del 19/10/2011 e del 17/2/2012 andassero notificati agli imputati in quanto non ancora dichiarati contumaci e dunque non rappresentati dal proprio difensore; infatti in particolare, come risultante dai verbali in atti, l’avviso di rinvio effettuato all’udienza del 17/2/2012 in vista di quella del 19/3/2012 venne ritualmente notificato ad entrambi gli imputati : a T. G., come già specificato sopra, in data 02/03/2012 a mani dello stesso, e a T. F., sempre a mani dello stesso, In data 23/2/2012. Conseguentemente, nessuna nullità, se non quella già rilevata sopra e sanata per effetto della mancata eccezione di cui si è detto, è mai venuta a coinvolgere la prima udienza “utile”, ovvero quella del 19/03/2012 (restando irrilevante qualunque eventuale nullità che abbia riguardato la notifica dell’avviso di rinvio effettuato all’udienza del 19/10/2011, nella quale nessuna attività venne svolta).
10. Il secondo dei nuovi motivi di ricorso è poi inammissibile mancando T. G. di alcun interesse ad eccepire eventuali nullità afferenti le posizioni dei coimputati T. M., Di B. M. e Mauloni G., giacché destinate a restare circoscritte agli stessi.
11. Quanto infine al quarto motivo nuovo di ricorso, a nell’esso di natura processuale, le doglianze ivi contenute appaiono fondarsi su una inesatta lettura dei verbali delle udienze del 19/10/2011 e 19/03/2012 posto che si assume che nelle stesse il Collegio avrebbe proceduto addirittura, sulla base di quanto in detti verbali apparentemente riportato, a dichiarare chiuso il dibattimento e a dare lettura della decisione. In realtà, come facilmente evincibile dall’attività svolta nell’udienza del 23/05/2012 e come emergente, del resto, dalle stesse argomentazioni dei ricorrenti contenute nel primo motivo e nel terzo e quinto motivo “nuovo” di ricorso, nei verbali delle predette udienze, rappresentati da moduli prestampati, si è semplicemente omesso, dopo la corretta indicazione del rinvio effettuato ad altra udienza, di interlineare le parti in cui, del tutto incompatibilmente, si dava atto di attività successive in realtà mai poste in essere.
Di qui, dunque, in particolare, da un lato, l’assenza di qualsivoglia nullità e dall’altro, in particolare, la manifesta infondatezza della doglianza inerente la violazione dell’art. 525 c.p.p. per diversa composizione dei collegi delle due udienze suddette rispetto a quella del 23/05/2012 in cui venne pronunciato il dispositivo. Va infatti ricordato che il principio di immutabilità del giudice, sancito dall’art. 525, comma 2, c.p.p., riguarda l’effettivo svolgimento dell’intera attività dibattimentale, ed in particolare le acquisizioni probatorie, la risoluzione di questioni Incidentali, le decisioni interinali inerenti l’oggetto del giudizio e simili, restandone invece esclusa l’attività relativa a provvedimenti ordinatori miranti solo all’ordinato svolgimento del processo, senza avere valenza sul giudizio, come ad esempio i provvedimenti di sospensione o rinvio del dibattimento (tra le altre, Sez. 1, n. 35669 del 17/01/2003, Prinzivaili, Rv. 226066; Sez. 6, n. 543 del 04/11/1997, P.G. e Carelia, Rv.209238). Nella specie, come già detto, alle udienze predette non venne svolta alcuna attività dibattimentale nel senso appena visto, posto che in entrambe le occasioni si procedette ad effettuare rinvio ad altra udienza.
12. Venendo quindi alle doglianze non aventi natura processuale e ricomprese nei motivi originari dal secondo al sesto del ricorso presentato da T. G. e F. e del ricorso presentato dal solo T. G. (trattabili unitariamente giacché afferenti l’omessa motivazione in ordine alle doglianze sollevate con i motivi nuovi di appello presentati il 12/05/2012 dal Difensore di F. e G. T.), non è anzitutto fondato il rilievo circa il fatto che la Corte avrebbe valutato unicamente i motivi aggiunti presentati da T. F. e non anche quelli presentati da T. G.; infatti, a prescindere dall’espresso riferimento, effettuato a pag. 18, al solo ricorrente F., il fatto che il contenuto di detti motivi aggiunti fosse assolutamente analogo per entrambi i ricorrenti conduce di fatto a ritenere comunque riferibili ad entrambi le valutazioni effettuate dalla Corte abruzzese.
Ciò posto, va osservato che è corretta la valutazione di tardività di detti motivi nuovi di appello formulata dalla Corte territoriale, legittimamente preclusiva dell’esame nel merito degli stessi; Invero, premesso che il termine per la presentazione dei motivi nuovi deve essere calcolato avendo riguardo alla prima udienza per la quale l’imputato venga ritualmente citato (in tal senso, Sez. 6, n. 42627 del 29/09/2009, Olivieri, Rv. 245165), poiché la prima udienza in relazione alla quale avvenne la rituale citazione deve essere individuata in quella del 19/03/2012 (giacché, come osservato sopra sub 8, la nullità prodotta dal mancato rispetto del termine a comparire è stata sanata), il termine per la presentazione dei motivi avrebbe dovuto decorrere a ritroso da tale ultima data; di qui, come correttamente rilevato dai giudici di appello, la tardività di un deposito effettuato invece addirittura oltre la data della udienza in questione. A ciò va aggiunto, peraltro, che tali motivi sarebbero comunque inammissibili anche per una ulteriore ragione, pienamente rilevabile anche da questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 10156 del 01/02/2002, p , Rv. 221114), e da individuare nella non riconducibilità dei medesimi ai capi o punti della decisione già enunciati negli originari atti di gravame presentati dall’Avv. Tonetti e nei quali nessuna doglianza era stata sollevata con riguardo al “tema” delle intercettazioni. Infatti, i motivi nuovi di impugnazione debbono essere inerenti ai temi specificati nei capi e punti della decisione investiti dall’impugnazione principale già presentata essendo necessaria la sussistenza di una connessione funzionale tra i motivi nuovi e quelli originari (da ultimo, in tal senso, Sez. 1, n. 5182 del 15/01/2013, Vatavu Ionut, Rv. 254485).
Ne consegue la manifesta infondatezza delle doglianze sollevate dai ricorrenti e volte ad invocare, al contrario, l’ammissibilità dei motivi nuovi di appello a suo tempo presentati.
Ciò posto, va anche osservato, tuttavia, che con tali motivi nuovi era stata lamentata in particolare la inutilizzabilità, oltre che di ogni altra intercettazione ambientale, della intercettazione pretesamente ambientale segnatamente avvenuta con riguardo alla conversazione del 04/05/2006 attribuita a T. F. e T. M., in quanto non preceduta da autorizzazione, in tal modo essendosi sollevata una questione rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento (Sez. 4, n. 2068 del 28/01/2000, Maniscalco e altri, Rv. 215956) e, dunque, anche nella presente sede di legittimità pur a fronte della già constatata inammissibilità dei motivi nuovi di appello (non implicando invece, le altre doglianze sollevate, alcuna questione rilevabile d’ufficio, in particolare neppure quelle intese a dolersi della mancata motivazione in ordine all’utilizzazione di impianti “privati” : cfr. Sez. 2, n. 2539 del 05/05/2000, Papa, Rv. 216296). Tale doglianza, che va ulteriormente apprezzata in ragione della avvenuta indubbia valorizzazione del contenuto di tale specifica conversazione da parte della sentenza impugnata ai fini dell’affermazione di responsabilità pronunciata (mentre così non è con riguardo alle doglianze, che restano pertanto inammissibili, investenti tutte le altre intercettazioni genericamente definite “ambientali”, e di cui non risulta l’utilizzazione ai fini della conferma della sentenza di condanna) è però manifestamente infondata, posto che, con riguardo specificamente a tale conversazione, risulta agli atti, come del resto già sottolineato dalla Corte territoriale, che il colloquio avvenne mentre i partecipanti erano in attesa della risposta ad una chiamata telefonica da loro effettuata, venendo dunque appreso il contenuto per effetto del decreto di autorizzazione, regolarmente in atti, di intercettazione telefonica con riguardo a detta utenza. Infatti, nel caso di intercettazione telefonica “a cornetta sollevata”, e dunque tanto più nel caso in cui si sia in attesa di risposta ad una chiamata effettuata, la registrazione dei colloqui fra presenti non dipende da un’indebita violazione della “privacy” ma dal comportamento degli interlocutori, i quali, lasciando il ricevitore alzato, fanno sì che la loro conversazione – altrimenti percettibile solo tramite un’intercettazione ambientale – viaggi liberamente lungo la rete telefonica, rimanendo “scoperta” dal punto di vista della segretezza. Ne consegue la utilizzabilità del casuale ascolto dì tale conversazione nel corso di un’intercettazione telefonica ritualmente autorizzata {tra le tante, da ultimo, Sez. 4, n. 7677 del 13/01/2010, Rungi e altri, Rv. 246849; Sez. 2, n. 4442 del 16/12/2008, Celmeta e altri, Rv. 244044).
13. Venendo dunque ai motivi con cui si contesta la sentenza impugnata in punto di affermazione di responsabilità dei ricorrenti, sono anzitutto fondati quelli (segnatamente il settimo motivo del ricorso presentato da T. G. e F., riproposto dal ricorso presentato dal solo T. G., il settimo motivo del ricorso presentato da T. M. personalmente e il terzo motivo del ricorso presentato dal difensore di T. M.) con cui si contesta la erronea applicazione dell’articolo 416 c.p. e la mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine alla configurabilità del reato associativo.
13.1. Va premesso che il Tribunale era pervenuto, sul punto, a ritenere mancante, nella specie, la predisposizione di una struttura organizzativa e di mezzi strutturali funzionali alla commissione dei reati quali elementi costitutivi necessari per la sussistenza del sodalizio criminoso stante la non valorizzabilità, a tal fine, della struttura rappresentata dalla società N..it in quanto di per sé volta, sin dalla sua costituzione, a realizzare leciti fini d’impresa (vedi pagg. 73 – 75 della sentenza di primo grado).
La Corte territoriale, non condividendo tale impostazione, è invece giunta ad affermare la responsabilità per il reato associativo in particolare mutuando la necessaria esistenza del vincolo proprio dalla struttura societaria della N..it nella quale i tre imputati sono stati inseriti nelle rispettive vesti loro attribuite in imputazione.
Tale ragionamento è, in via di principio, corretto.
Va infatti ricordato che questa Corte ha, in più di una occasione, affermato che ai fini della configurabilità di una associazione a delinquere non si richiede l’apposita creazione di una organizzazione, sia pure rudimentale, ma è sufficiente una struttura che può anche essere preesistente alla ideazione criminosa e già dedita a finalità lecita (Sez.6, n, 9117/12 del 16/12/2011, Tedesco, Rv. 252387; vedi anche Sez. 5, n. 31149 del 05/05/2009, Occioni e altro, Rv. 244486; Sez.l, n, 134 del 03/10/1989, Pintacruda, Rv. 182998); sicché, in altri termini, non essendovi ragione per differenziare tra una condotta che ponga in essere appositamente a fini illeciti una struttura dotata di requisiti di tendenziale stabilità ed una condotta che, invece, pieghi a fini illeciti una struttura lecita e già esistente, ben può, anche In tale secondo caso, individuarsi l’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 416 c.p.
Ciò posto, è anche vero però che il reato de quo sì caratterizza, oltre che per gli elementi del vincolo associativo tendenzialmente permanente, o comunque stabile, destinato a durare anche oltre la realizzazione dei delitti concretamente programmati, e dell’esistenza di una struttura organizzativa, sia pur minima, idonea e soprattutto adeguata a realizzare gli obiettivi criminosi presi dì mira, anche per l’elemento ulteriore dell’indeterminatezza del programma criminoso, elemento che infatti serve a differenziare il reato associativo dall’accordo che sorregge il concorso di persone nel reato (Sez. 1, n, 10107 del 14/07/1998, Rv. 211403)
Ora, la motivazione offerta dalla Corte a pagg. 20 -21 della sentenza impugnata per “ribaltare”, in accoglimento dell’appello del P.M., la pronuncia assolutoria di primo grado, e per condurre a far ritenere perfezionata la fattispecie del reato associativo, si è unicamente soffermata, come appena visto, sull’aspetto strutturale (il solo, del resto, derivabile dalla consentita valorizzazione della struttura societaria lecita) e sulla “piena ed attiva partecipazione” degli imputati alle vicende societarie e alle varie operazioni, mentre, con riguardo all’ulteriore aspetto della programmazione indeterminata di reati di natura fiscale, nessuna ulteriore argomentazione appare essere stata esposta; sennonché la considerazione di tale aspetto, già di per sé necessaria in via “ordinaria”, a maggior ragione avrebbe dovuto esserlo ove si tenga conto, come già detto, del fatto che in tanto anche una struttura lecita preesistente può essere ritenuta integrare l’elemento costitutivo-organizzativo del reato associativo in quanto ricorra l’aspetto, imprescindibile proprio perché la struttura è, nel suo impianto originario, lecita, della utilizzazione o strumentalizzazione a fini illeciti della società.
Né le conclusioni muterebbero quand’anche si ritenesse che la Corte, con riguardo a tale specifico aspetto, abbia implicitamente “rimandato”, nella specie, agli elementi dimostrativi dei reati di cui all’art.2 per i quali la pronuncia di condanna di primo grado è stata confermata.
Pur essendo infatti consentito al giudice, pur nell’autonomia del reato – mezzo rispetto ai reati – fine, dedurre la prova dell’esistenza del sodalizio criminoso dalla commissione dei delitti rientranti nel programma comune e dalle loro modalità esecutive, posto che è proprio attraverso di essi che si manifesta in concreto l’operatività dell’associazione medesima (Sez.2, n, 2740 del 19/12/2012, P.G. in proc. Di Sarti, Rv. 254233; Sez. U., n, 10 del 28/03/2001, Cinalli e altri, Rv. 218376), la mancanza di idonea motivazione in punto di consumazione di questi stessi reati, per come emergente da quanto si dirà oltre, finirebbe comunque per comportare, alla luce del collegamento probatorio che si volesse ritenere operato dalla Corte territoriale, una altrettanto carente motivazione in punto di sussistenza del reato associativo.
Se infatti non vi è dubbio che tra reato – mezzo e reati – fine ricorre piena autonomia derivante dal fatto che il primo prescinde dalla commissione degli illeciti oggetto del programma criminoso, tanto che al fini, ad esempio, della prova della partecipazione al reato associativo non è necessaria la condanna per alcuno dei reati fine {Sez. 2, n. 24194 del 16/03/2010, Bilancia e altri, Rv,247660; Sez. 1, n.33033 del 11/07/2003, Vitello, Rv. 225977), è anche vero però che, una volta desunto appunto l’elemento probatorio della programmazione indeterminata di delitti dalla stessa sussistenza dei reati fine, il mancato accertamento di questi non può non riflettersi inevitabilmente anche, in termini fattuali, sulla sussistenza del reato associativo.
14. Quanto ai motivi concernenti l’affermazione di responsabilità per il reato continuato di cui al capo C), non è anzitutto fondata la doglianza, di cui al nono motivo del ricorso presentato da T. G. e F. (replicato da analogo motivo presente nel ricorso presentato dal solo T. G.) e al secondo motivo del ricorso presentato dal difensore di T. M., con cui si deduce sostanzialmente la non configurabilità del reato di dichiarazione fraudolenta nel caso in cui la falsa indicazione riguardi il solo emittente la fattura, atteso che l’utilizzatore di fatture emesse da un soggetto diverso da quello che ha realmente eseguito la prestazione non esporrebbe: alcun elemento passivo fittizio.
Un tale assunto è già stato, invero, confutato da questa Corte allorquando si è affermato che anche l’inesistenza soggettiva delle operazioni è condotta che ben può rientrare tra quelle considerate dalla norma quanto meno ai fini Iva (come nella specie).
Va anzitutto ribadito che la falsità ben può essere riferita anche all’indicazione dei soggetti con cui è intercorsa l’operazione, intendendosi per “soggetti diversi da quelli effettivi”, ai sensi dell’art. 1 lett. a), del d. lgs. n. 74 del 2000, coloro che, pur avendo apparentemente emesso il documento, non hanno effettuato la prestazione, sono irreali, come nel caso di nomi di fantasia, o non hanno avuto alcun rapporto con il contribuente finale (tra le altre, da ultimo, in tal senso, Sez. 3, n. 27392 deI 27/04/2012, Bosco, Rv. 253055).
Ciò posto, si è rilevato che il reato di utilizzazione fraudolenta in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti è integrato, con riguardo alle imposte dirette, dalla sola inesistenza oggettiva, ovvero quella relativa alla diversità, totale o parziale, tra costi indicati e costi sostenuti, mentre, con riguardo all’iva, esso comprende anche la inesistenza soggettiva, ovvero quella relativa alla diversità tra soggetto che ha effettuato la prestazione e quello indicato in fattura (Sez. 3, n. 10394 del 14/01/2010, Gerotto, Rv. 246327); mentre infatti, con riguardo alle imposte dirette, l’effettiva esistenza dell’operazione e del conseguente esborso economico, corrispondente a quanto dichiarato, esclude il carattere fittizio degli elementi passivi indicati nella dichiarazione, a nulla rilevando in linea dì massima che il destinatario degli stessi sia un soggetto diverso da quello reale, con riguardo invece all’Iva la detrazione è ammessa solo in presenza di fatture provenienti dal soggetto che ha effettuato la prestazione, giacché tutto il sistema del pagamento e del recupero della imposta (artt. 17 e 18 del d.P.R. n. 633 del 1972) si basa sul presupposto che la stessa sia versata a chi ha effettuato prestazioni imponibili mentre il versamento dell’imposta ad un soggetto non operativo o diverso da quello effettivo consentirebbe un recupero indebito dell’lva stessa (cfr., da ultimo, Sez.3, n. 37562 del 04/07/2013, Paregiani e altri, non massimata; Sez.3, n. 17452 del 04/04/2012, Bonetti, non massi mata ; Sez. 3, n. 10394 del 14/01/2010, Gerotto, cit.). Di qui, dunque, la conseguenza che l’evasione Iva può essere configurata anche in presenza di costi effettivamente sostenuti.
14.1. E’ infondata anche l’ulteriore censura diretta, con il decimo motivo del ricorso presentato da T. M. personalmente e con i motivi aggiunti presentati dal difensore dello stesso, nonché con motivo di ricorso presentato dal solo T. G., a lamentare la violazione dell’art. 8 del d.l. 2 marzo 2012 n. 16 conv, in l. 26 aprile 2012, n. 44, di modifica dell’art. 14, comma 4 bis, della l. n, 537 del 1993, secondo cui “non sono ammessi in deduzione i costi delle spese del beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo” in relazione al quale delitto “il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, (…) il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 c.p.p. ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 c.p. (…)”; da tale disposizione infatti deriverebbe, secondo i ricorrenti, che l’indeducibilità non dovrebbe trovare applicazione per i costi e spese esposti in fatture riferite a soggetti diversi da quelli effettivi.
Tuttavia, va in primo luogo osservato che il testo della nuova disposizione, mediante l’espresso riferimento alla “determinazione dei redditi di cui all’art.6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi di cui a decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917” non dovrebbe lasciare dubbi circa l’applicabilità del nuovo regime, volto in sostanza a consentire, in deroga al regime ordinario, la deducibilità del costi, alle sole imposte dirette (si vedano in particolare Sez. 3, n. 25792 del 27/02/2013, Giansante, non massimata; Sez. 3, n. 28145 del 07/03/2013, Papini e altri, non massimata sul punto) e non anche alle imposte indirette.
In secondo luogo, e ancor più radicalmente, va osservato che la disposizione si è limitata a stabilire una regola per le procedure di accertamento tributario ai fini delle imposte sui redditi, stabilendo che non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione, norma che non ha alcun riflesso sulle disposizioni penali relative all’incriminazione di condotte fraudolente quali quelle contestate ai ricorrenti. Del resto, nessun richiamo il d.l. n. 16 del 2013 ha operato all’art. 1 lett. a) del d.lgs. n. 74 del 2000, il che, si è detto, è quantomeno singolare ove si fosse realmente inteso depenalizzare l’emissione o l’utilizzazione di fatture soggettivamente inesistenti tenuto conto del dibattito alimentato in dottrina sulla rilevanza penale di quest’ultima condotta, da alcuni esclusa sotto il profilo, fatto proprio, come già visto sopra, anche dai ricorrenti, della mancanza di offensività in relazione alla assenza di lesione dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice allorquando i costi siano stati dedotti legittimamente perché inerenti alla produzione del reddito e realmente sostenuti (cfr., sia pure con riferimento al reato ex art. 8 del d.Igs. n. 74 del 2000, Sez. 3, n. 29061 del 27/03/2013, Colucci e altro, Rv.255899; Sez.3, n. 40559 del 04/04/2012, Agenzia delle Entrate e altri, Rv.253665).
14.2. Sono invece fondati i motivi con cui tutti ricorrenti (segnatamente G. e F. T. con il decimo motivo dì ricorso congiunto a firma dei difensori, G. T. con analogo motivo del ricorso da lui presentato personalmente e M. T. con il nono motivo del ricorso da lui presentato personalmente) hanno investito il profilo della conferma della sentenza di primo grado quanto ai reati di cui all’art.2 del d.Igs. n. 74 del 2000 sotto l’aspetto, da ritenere pregiudiziale per quanto oltre si dirà, della motivazione in ordine alla consumazione degli stessi.
Va ribadito anzitutto che l’assetto sanzionatorio della fattispecie di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture introdotto dalla normativa del 2000 ha, rispetto alla disciplina ex lege n. 516 del 1982, focalizzato il momento consumativo del reato sulla stretta condotta della presentazione della dichiarazione stessa con il conseguente abbandono del modello del reato prodromico in precedenza considerato dal legislatore (nel senso che il reato de quo si consuma nel momento di presentazione della dichiarazione, tra le altre, da ultimo, Sez. 3, n. 23229 del 27/04/2012, P.M. in proc. Rigotti, Rv. 252999; Sez. 2, n. 42111 del 17/09/2010, De Seta, Rv, 248499; Sez. 1, n, 25483 del 05/03/2009, Daniotti, Rv. 244155); in tal senso, infatti, depone inequivocabilmente il dato testuale dello stesso art. 2 ove la condotta è espressamente contemplata in quella di “indicare” in una delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto elementi passivi fittizi. In stretta connessione con ciò, il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 6 ha previsto, inoltre, che il delitto in questione non sia comunque punibile a titolo di tentativo, derivandone dunque, da un lato, che solo con la condotta di presentazione della dichiarazione il reato può considerarsi perfezionato e, dall’altro, che, a differenza di quanto, in precedenza, stabiliva appunto l’art. 4, lett. g) della I. n. 516 del 1982, (che puniva ex se anche il semplice inserimento nella contabilità di fatture per operazioni inesistenti indipendentemente dall’allegazione alla dichiarazione), le condotte pregresse ad essa restano, sul piano penale, irrilevanti, neutra essendo, sotto tale profilo, anche la registrazione di detti documenti in contabilità (da ultimo, Sez. 3, n. 14855 del 19/12/2011, Malagò, non massimata; Sez. 3, n. 626 del 21/11/2008, Zipponi, Rv. 242343).
Era dunque necessario, per potere giungere a ritenere consumati i reati, che, come specificamente lamentato da tutti i ricorrenti con apposito motivo degli atti di appello (a fronte della mancanza, nella sentenza di primo grado, di alcuna motivazione sul punto), si accertasse nella specie la effettiva avvenuta utilizzazione delle trentotto fatture ritenute false di cui alle imputazioni nelle dichiarazioni dei redditi Iva relative agli anni d’imposta 2004 e 2005 e che della prova di tale utilizzazione si fornisse, nella sentenza impugnata, adeguata e logica motivazione.
Sennonché, una tale motivazione non è stata data.
La Corte d’Appello, senza spiegare (evidentemente perché ciò non è mai accaduto) se le dichiarazioni predette siano state acquisite nel processo, si è infatti limitata, al fine di dimostrare l’inserimento dei documenti, a porre in rilievo l’intervenuta indicazione, nelle dichiarazioni stesse, di crediti Iva vantati in misura consistente (di cui quello relativo al secondo e terzo trimestre 2005 sottoposto a sequestro), avendo proprio da tale indicazione, tale da porre in allarme l’Agenzia delle Entrate, preso le mosse l’indagine da cui poi è scaturito lo stesso processo. Ma tale affermazione in tanto sarebbe dimostrativa del dato da accertare in quanto si potesse ritenere che la esposizione di tali crediti sia, appunto, discesa dalla indicazione delle trentotto fatture “incriminate” e non di altre; né l’ulteriore considerazione della attivazione di indagini al riguardo, con conseguente sequestro di alcuni dei crediti, appare sul plano logico probante di alcunché, salvo non si voglia affermare, secondo un ragionamento sillogistico nel quale è la stessa premessa maggiore ad essere del tutto deficitaria, che ad ogni indagine (per di più sorta sulla “esigenza dell’Agenzia delle Entrate di verificare le reali ragioni di crediti Iva”) e ad ogni misura “apprensiva” di beni debba necessariamente corrispondere un illecito. La natura semplicistica del ragionamento impiegato appare del resto tale che, se portata agli estremi, condurrebbe a potere ritenere provata qualsivoglia circostanza per la sola ragione che, esattamente al fine di accertare la stessa, e dunque con una evidente inversione logica, siano stati attivati, dagli organi competenti, appositi meccanismi di indagine. Ne consegue, allora, l’annullamento sul punto della sentenza impugnata con rinvio, per un nuovo esame, alla Corte d’Appello di Perugia.
15. Restano assorbiti, stante la pregiudizialità del motivo accolto, i restanti motivi di ricorso attinenti, oltre che, naturalmente, alla denegata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, al contributo individuale prestato da ciascuno degli imputati alla realizzazione degli illeciti di cui all’art.2 cit. e all’elemento soggettivo degli stessi.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Perugia.
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