Corte di Cassazione sentenza n. 4808 del 26 marzo 2012
SICUREZZA SUL LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – DPI – INFORMAZIONE E FORMAZIONE – FERITA PERFORANTE DEL BULBO OCULARE E MEZZI DI PROTEZIONE
massima
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Vi è la responsabilità del titolare della ditta per l’infortunio al dipendente che, mentre era intento alla rottura dei dadi di alcuni bulloni utilizzando martello e scalpello, riportò un infortunio sul lavoro consistito nella ferita perforante del bulbo oculare destro con ritenzione di un corpo estraneo di natura metallica, evento che determinò la perdita completa del visus dell’occhio lesionato.
Sul datore di lavoro gravano sia il generale obbligo di “neminem laedere” espresso dall’art. 2043 c.c. (la cui violazione è fonte di responsabilità extracontrattuale), sia il più specifico obbligo di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore sancito dall’art. 2087 c.c. ad integrazione “ex lege” delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro (la cui violazione determina l’insorgenza di una responsabilità contrattuale). Conseguentemente, il danno biologico – inteso come danno all’integrità psico-fisica della persona in sè considerata, a prescindere da ogni possibile rilevanza o conseguenza patrimoniale della lesione – può in astratto conseguire sia all’una che all’altra responsabilità (Cass. civ., Sez. lavoro, 24/02/2006, n. 4184). Qualora la responsabilità fatta valere sia quella contrattuale, dalla natura dell’illecito (consistente nel lamentato inadempimento dell’obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore) non deriva affatto che si versi in fattispecie di responsabilità oggettiva (fondata sul mero riscontro del danno biologico quale evento legato con nesso di causalità all’espletamento della prestazione lavorativa), ma occorre pur sempre l’elemento della colpa ossia la violazione di una disposizione di legge o di un contratto o di una regola di esperienza (Cass. civ., Sez. lavoro, 27/07/2011, n. 16444). La necessità della colpa – che accomuna la responsabilità contrattuale a quella aquiliana – va poi coordinata con il particolare regime probatorio della responsabilità contrattuale che è quello previsto dall’art. 1218 c.c. (diverso da quello di cui all’art. 2043 c.c.), cosicchè grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver ottemperato all’obbligo di protezione, mentre il lavoratore deve provare sia la lesione all’integrità psico-fisica, sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa.
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FATTO
Bu. To. Do., dipendente della T. Costruzioni srl (oggi Im. sa. di. Do. Sa. &. C. – qui di seguito per brevità indicata anche come Im.), in data 22.8.2001, mentre era intento alla rottura dei dadi di alcuni bulloni utilizzando martello e scalpello, riportò un infortunio sul lavoro consistito nella ferita perforante del bulbo oculare destro con ritenzione di un corpo estraneo di natura metallica, evento che determinò la perdita completa del visus dell’occhio lesionato.
Con distinti ricorsi, il Bu. e l’Inail convennero in giudizio avanti al Tribunale di Pescara la parte datoriale e il suo legale rappresentante, Sa. Pi., per ottenere, rispettivamente, il risarcimento dei danni e il rimborso delle prestazioni previdenziali nel frattempo erogate all’infortunato; i convenuti chiamarono in garanzia la Co. It. di. As. spa.
Il Giudice adito, riuniti i procedimenti, condannò entrambi i convenuti al risarcimento del danno a favore del Bu. e la Im. al pagamento in favore dell’Inail della somma dovuta, dichiarando che la Compagnia assicuratrice doveva tenere indenni i convenuti da ogni conseguenza patrimoniale pregiudizievole.
Con sentenza del 17-24.9.2009, la Corte d’Appello dell’Aquila accolse gli appelli proposti dalla Co. It. di. As. spa, da Sa. Pi. e dalla Im., respingendo le domande svolte dal Bu. e dall’Inail.
A sostegno del decisum la Corte territoriale ritenne quanto segue:
– l’accertamento di una responsabilità penale non poteva fondarsi sull’intervenuta sentenza di condanna penale nei confronti dell’appellante Sa. Pi., trattandosi di applicazione di pena su richiesta, ai sensi dell’art. 444 cpp, che, a norma del comma 1 bis dell’art. 445 c.p.p., “non ha efficacia nei giudizi civili”, né dall’intervenuto accordo tra le parti del processo penale poteva desumersi qualche argomento sfavorevole al condannato, per avere questi accettato comunque una condanna, “non apparendo questa per nulla affatto pregiudizievole, se soltanto si considera che è stata pattuita un pena di minimo importo, per 420 euro di multa, a fronte di un valore di centinaia di migliaia di euro per la controversia civile, sicchè la decisione di accedere al patteggiamento appare perfettamente ragionevole, e conveniente, e quindi non può essere interpretata come una sostanziale ammissione di colpevolezza”.
– era stato accertato che il lavoratore aveva a disposizione occhiali protettivi, consegnatigli, a fini di prevenzione degli infortuni dai datore di lavoro;
– a quanto riferito dall’infortunato, il responsabile della società “qualche volta” veniva in cantiere, per raccomandare l’uso dei mezzi di protezione, tra i quali “gli occhiali di cui ho detto sopra”, cosicché si poteva “tranquillamente escludere un disinteresse del datore di lavoro in merito alla osservanza delle misure di prevenzione” e si poteva “ritenere che, un lavoratore specializzato ed esperto, come l’infortunato, non potesse ignorare la necessità di inforcare gli occhiali nello svolgimento di attività che poteva sprigionare schegge di metallo”, non era pertanto ravvisabile “un nesso di causalità tra la assenza di una specifica informazione e formazione e l’infortunio sul lavoro”;
– d’altronde lo stesso lavoratore infortunato aveva affermato che, al momento dell’infortunio, inforcava gli occhiali di protezione;
– quanto alla eventuale inidoneità degli occhiali in questione, era stata espletata consulenza tecnica d’ufficio, il consulente aveva affermato che gli occhiali erano idonei e tale giudizio tecnico non era stato “smentito”;
– né portava a superarlo la circostanza che il sinistro si fosse comunque verificato, poiché tale circostanza non valeva, da sola, a fondare una penale responsabilità del datore di lavoro, sul quale incombe soltanto l’obbligo di fornire un mezzo di protezione idoneo”, secondo “un giudizio preventivo, ipotetico ed astratto”;
– la sentenza impugnata aveva escluso “la spiegazione più semplice dell’accaduto, e cioè l’ipotesi che il lavoratore non inforcasse gli occhiali” e che avesse “dichiarato di averli inforcati per non perdere l’auspicato risarcimento”, ipotizzando però che gli occhiali, non aderendo perfettamente al viso, avessero potuto consentire il passaggio della scheggia lesiva e che ciò fosse stato propiziato da una posizione incongrua degli occhiali, cagionata dalla posizione del lavoratore, costretto ad assumere una postura obbligata, scomoda, e pericolosa;
– si trattava però di una mera ipotesi, priva di riscontro e, comunque, non idonea a costituire addebito a carico del datore, il quale “poteva ragionevolmente presumere la sufficienza di una protezione frontale, dovendosi ritenere che l’operatore assuma una posizione frontale nello svolgimento della sua attività, se non altro per l’esigenza di controllare il lavoro durante la sua esecuzione, con visione frontale, e non sbieca”; gli occhiali in questione erano anche dotati di protezione laterale e non si vedeva “perché mai il datore di lavoro avrebbe dovuto ritenere la insufficienza di tale protezione laterale” e come gli si potesse imputare “di non aver previsto, e prevenuto, un uso incongruo di un mezzo di protezione, conseguente a circostanze non prevedibili, quali la torsione del lavoratore nella esecuzione del lavoro, e la possibilità del superamento del mezzo di protezione a cagione della posizione incongrua del lavoratore”;
– nè valeva argomentare che esistono occhiali i quali assicurano una protezione laterale totale ed assoluta, “poiché di tali occhiali non è previsto, e meno che mai imposto l’uso se non per condizioni speciali, che non ricorrevano, per quanto poteva ragionevolmente ritenere il datore di lavoro, alla stregua di una valutazione della natura dell’opera, dei rischi che essa presentava, e delle normali, ragionevoli misure di prevenzione”.
Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale Bu. To. Do. ha proposto ricorso per cassazione fondato su tre motivi.
L’Inail ha depositato controricorso, proponendo ricorso incidentale fondato su due motivi, e ha depositato memoria. Sa. Pi. e la Im. sa. di. Do. Sa. & C. hanno resistito con controricorso ad entrambe le impugnazioni.
L’intimata Co. It. di. As. spa non ha svolto attività difensiva.
DIRITTO
1. Con il primo motivo il ricorrente principale denuncia violazione di plurime norme di diritto, nonché vizio di motivazione, censurando l’impugnata sentenza per avere escluso la responsabilità datoriale in relazione all’osservanza degli obblighi di istruzione e preparazione per la prevenzione, di controllo e intervento, e di fornitura di idonei mezzi di prevenzione, rilevando la contrarietà delle argomentazioni svolte al riguardo con i principi dettati in tema di responsabilità datoriale ai sensi degli artt. 2087 e 1218 c.c.
Con il secondo motivo il ricorrente principale denuncia violazione di plurime norme di diritto, nonché vizio di motivazione, censurando l’impugnata sentenza per avere ritenuto l’idoneità del mezzo di protezione fornito e l’assenza di addebito a carico del datore di lavoro, non tenendo in alcun conto le emergenze processuali acquisite e senza indicare gli elementi posti a fondamento della decisione.
Con il terzo motivo il ricorrente principale denuncia violazione di plurime norme di diritto, nonché vizio di motivazione, censurando l’impugnata sentenza per avere negato valore, anche soltanto indiziario, alla sentenza penale di condanna emessa a seguito di patteggiamento a carico di Sa. Pi., tralasciando di spiegare perché il Giudice penale avrebbe prestato fede all’ammissione di colpevolezza.
Con il primo motivo il ricorrente incidentale denuncia violazione di plurime norme di diritto, nonché vizio di motivazione, censurando l’impugnata sentenza per non avere tenuto conto, quali fatti decisivi, della mancata valutazione del rischio da proiezioni di schegge derivante dall’uso di martello e scalpello; della consegna di un dispositivo di protezione individuale (occhiali a stanghetta) non idoneo per la lavorazione ordinata al lavoratore in quanto effettuata in luogo angusto, con necessità di reclinare il capo; della mancata informazione e formazione sui rischi relativi alla proiezioni di schegge; della presenza di una sentenza di patteggiamento che avrebbe dovuto essere letta unitamente agli altri elementi di prova raccolti; della lacunosità della conclusioni della CTU, che non aveva tenuto conto della posizione in cui il lavoratore era stato chiamato ad operare.
Con il secondo motivo il ricorrente incidentale denuncia violazione di plurime norme di diritto, deducendo che le parti convenute non avevano offerto la prova di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno e che, al contrario, era emersa la prova della mancata consegna di occhiali a maschera, gli unici idonei a tutelare il lavoratore in modo assoluto per quel tipo di lavoro.
2. Tutti i motivi di ricorso, sia principale che incidentale, vanno esaminati congiuntamente siccome fra loro connessi.
2.1 Secondo la giurisprudenza di questa Corte il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sussiste se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, non potendo invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte (cfr, ex plurimis, Cass., SU, nn. 13045/1997; 5802/1998).
Deve inoltre ritenersi che l’omesso esame di un fatto decisivo, previsto dal suddetto art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è costituito da quel difetto di attività del giudice del merito che si verifica tutte le volte in cui egli abbia trascurato, non la deduzione o l’argomentazione che la parte ritiene rilevante per la sua tesi, ma una circostanza obiettiva acquisita alla causa tramite prova scritta od orale, idonea di per sé, qualora fosse stata presa in considerazione, a condurre con certezza ad una decisione diversa da quella adottata (cfr., ex plurimis, Cass., nn. 7000/1993; 914/1996; 2601/1998; 1203/2000; 13981/2004).
Il vizio di omessa motivazione ricorre invece, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il giudice del merito omette di indicare, nel contenuto della sentenza, gli elementi da cui ha desunto il proprio convincimento ovvero, pur individuando questi elementi, non procede ad una loro approfondita disamina logico-giuridica, tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito (cfr., ex plurimis, Cass., nn. 2114/1995; 16762/2006).
2.2 In ordine alla responsabilità datoriale in tema di infortuni sul lavoro, è stato osservato che le norme dettate in tema di prevenzione di tali infortuni, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l’imprenditore, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare, invece, l’esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, necessariamente riferiti al procedimento lavorativo “tipico” ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento, essendo necessaria, a tal fine, una rigorosa dimostrazione dell’indipendenza del comportamento del lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro, e, con essa, dell’estraneità del rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere (cfr., Cass., nn. 19559/2006; 24435/2009; 4656/2011).
Inoltre, poiché la responsabilità ex art. 2087 c.c. è di carattere contrattuale, in quanto il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge (ai sensi dell’art. 1374 c.c.) dalla disposizione che impone l’obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale, il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini che nell’art. 1218 c.c., sull’inadempimento delle obbligazioni; conseguentemente il lavoratore deve allegare e provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa e del danno, nonché il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che gli esiti dannosi sono stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile, come tale a lui non imputabile, restando a suo carico il fatto ignoto, e di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza apprestando tutte le misure per evitare il danno, in relazione alle specificità del caso, ossia al tipo di operazione effettuata ed ai rischi intrinseci alla stessa, potendo al riguardo non risultare sufficiente la mera osservanza delle misure di protezione individuale imposte dalla legge (cfr., ex plurimis, Cass., nn. 9817/2008; 16003/2007; 12445/2006; 4184/2006).
2.3 In ordine alla prova, incombente sulla parte datoriale, di avere adempiuto ai propri obblighi di istruzione e formazione in materia di sicurezza, la sentenza impugnata si limita a rilevare che il lavoratore danneggiato era specializzato ed esperto (traendone la conclusione che non potesse ignorare la necessità di inforcare gli occhiali), ma omette del tutto di prendere in esame le risultanze, di per sé idonee a condurre a diverse conclusioni sul punto, contenute nel rapporto, confermato in corso di causa, redatto dagli ufficiali di polizia giudiziaria, secondo cui:
– nel documento di valutazione mancava qualsiasi accenno al rischio da proiezione di frammenti metallici in generale e, tantomeno, a quello generato dalle operazioni di scalpellatura;
– nella scheda individuale di rischio del Bu. non era previsto il rischio da proiezione di frammenti, benché martello e scalpello fossero elencati tra gli strumenti di lavoro; e ciò nonostante che, solo nel 2001, si fossero verificati quattro infortuni da proiezione di schegge su un totale di undici;
– mancava qualsiasi documentazione di avvenuta formazione dei lavoratori in materia di sicurezza e di salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro e alle proprie mansioni.
2.4 In ordine alla prova relativa all’esercizio del controllo sulle misure di sicurezza impartite, la sentenza impugnata esclude un disinteresse della parte datoriale al riguardo sul rilievo che il responsabile societario “qualche volta” si recava nel cantiere per raccomandare l’uso degli occhiali, ma omette qualsivoglia motivazione in ordine alla prova dei mezzi e dei modi con cui la parte datoriale avrebbe adempiuto al proprio obbligo di vigilanza ai di fuori degli sporadici (“qualche volta”) accessi del responsabile.
2.5 In ordine all’idoneità degli occhiali (“a stanghetta”) forniti al lavoratore, la sentenza impugnata assume che il giudizio positivo formulato al riguardo dal CTU non era stato “smentito”, senza considerare che proprio la sentenza di primo grado era addivenuta a conclusioni inconciliabili con tale giudizio, implicitamente (ma inequivocabilmente) disattendendolo.
Afferma inoltre la sentenza che l’obbligo di fornire un mezzo di protezione idoneo incombe sulla parte datoriale secondo “un giudizio preventivo, ipotetico e astratto”, con ciò violando il ricordato principio di diritto secondo cui le misure per evitare il danno devono essere approntate in relazione alle specificità del caso, ossia al tipo di operazione effettuata ed ai rischi intrinseci alla stessa. La Corte territoriale, omettendo peraltro di prendere in esame quanto indicato nel surricordato rapporto (secondo cui, nel caso in esame, la protezione idonea sarebbe conseguita con l’uso di maschera/occhiale a visiera “a scatola”, che assicura l’aderenza del perimetro della montatura alla cute del viso, incapsulando totalmente la cavità orbitaria), esclude che il passaggio della scheggia lesiva sia stato consentito dagli occhiali utilizzati in conseguenza della posizione del lavoratore, costretto ad assumere una postura obbligata, scomoda e pericolosa, con l’affermazione che si tratterebbe di “mera ipotesi, priva di riscontro”, non considerando però affatto le risultanze delle prove testimoniali assunte, in base alle quali il Bu. doveva necessariamente lavorare in posizione non agevole, in uno spazio ristretto e con la testa reclinata e, al contempo, per la ristrettezza dello spazio disponibile per la manovra, non poteva utilizzare lo strumento “spaccadadi”, ma doveva fare uso del martello e dello scalpello.
2.6 L’affermazione della sentenza impugnata secondo cui il datore di lavoro non avrebbe potuto prevedere e prevenire un uso incongruo del mezzo di protezione, conseguente a circostanze non prevedibili, quali la torsione del lavoratore nella esecuzione del lavoro, è apodittica, non spiegando affatto in base a quali risultanze la parte datoriale, che aveva ordinato la lavorazione, non avrebbe potuto accertarsi, anche agli effetti della prevenzione del rischio, delle concrete modalità con cui il lavoratore sarebbe stato costretto ad operare.
2.7 L’ulteriore affermazione, secondo cui la posizione del lavoratore sarebbe stata “incongrua”, non tiene ancora una volta in alcun conto le già ricordate risultanze testimoniali, in base alle quali tale posizione doveva ritenersi, al contrario, necessitata dalla situazione dei luoghi.
Al contempo la Corte territoriale, valorizzando la ritenuta incongruità delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa come elemento conducente alla esclusione della responsabilità datoriale, viola il principio di diritto secondo cui la condotta del prestatore può comportare l’esonero dell’imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, necessariamente riferiti ai procedimento lavorativo “tipico” ed alle direttive ricevute.
2.8 Secondo la giurisprudenza, anche a Sezioni Unite, di questa Corte, la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. costituisce un importante elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione (cfr. Cass., SU, n. 17289/2006; nonché, ex plurimis, Cass., nn. 9358/2005; 20765/2005; 10280/2008).
La Corte territoriale ha escluso la rilevanza ai fini del decidere della sentenza di condanna ex art. 444 c.p.p. inflitta a Sa. Pi., ma ha omesso totalmente di spiegare te ragioni per cui il Giudice penale avrebbe prestato fede alla sua ammissione di responsabilità.
Inoltre le considerazioni svolte per spiegare le ragioni per la quali l’imputato aveva accettato il patteggiamento dimostrano soltanto la ragionevolezza della decisione adottata nella prospettiva di scongiurare una futura più gravosa condanna (penale e, indirettamente, civile), ma di per sé non spiegano affatto perché l’imputato avrebbe riconosciuto una propria responsabilità in tesi insussistente.
3. In definitiva le censure svolte devono ritenersi fondate nei termini anzidetti.
I ricorsi principale e incidentale vanno pertanto accolti e la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio at Giudice designato in dispositivo, che procederà a nuovo esame conformandosi ai principi sopra indicati e provvederà altresì sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie i ricorsi principale e incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello dell’Aquila in diversa composizione.
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