Corte di Cassazione sentenza n. 5020 del 28 marzo 2012
CONTENZIOSO TRIBUTARIO – PRODUZIONE IN GIUDIZIO STRALCIO PV DELLA PT – NULLITA’ ACCERTAMENTO
massima
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L’accertamento fiscale è nullo se l’amministrazione produce in giudizio solo uno stralcio del processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza. Né in tale ipotesi si possono invocare i poteri istruttori della Ctp.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – MOTIVI DELLA DECISIONE
La Corte:
ritenuto che, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:
Il relatore cons. G.C., letti gli atti depositati.
Osserva:
La CTR di Palermo ha respinto l’appello dell’Agenzia, appello proposto contro la sentenza n. 362/07/2006 della CTP di Agrigento che ha accolto il ricorso della “T. srl” avverso avviso di accertamento IVA-IRPEG-IRAP relativo all’anno 2001.
La CTR ha motivato la sua decisione nel senso che – premesso che il PVC della GdF di Sciacca, integralmente richiamato nella motivazione del provvedimento, non era stato depositato da nessuna delle due parti – l’Ufficio aveva mancato all’assolvimento dell’onere di prova posto a suo carico, per non avere messo il giudicante in condizione di conoscere “per intero” tutti gli atti rilevanti ai fini della decisione, ed in particolare quello che più di tutti deve formare oggetto di necessario esame da parte del giudice. Del pari, non poteva raggiungersi alcuna conclusione in merito all’asserita inesistenza di talune operazioni commerciali poste in essere dalla società contribuente, appunto in difetto delle necessarie prove sul punto.
L’Agenzia ha interposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi.
L’intimata si è difeso con controricorso.
Il ricorso – ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., assegnato allo scrivente relatore, componente della sezione di cui all’art. 376 c.p.c. – può essere definito ai sensi dell’art. 375 c.p.c.
Infatti, con il primo motivo di impugnazione (fondato sul vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza) la ricorrente lamenta che il giudicante Abbia erroneamente ritenuto non prodotto il PVC di cui si è detto, per quanto uno “stralcio” di detto PVC risultasse già prodotto sin dal primo grado del processo, come allegato n. 4 dell’atto di controdeduzioni.
La censura è formulata in termini inammissibili, per difetto del requisito di autosufficienza del ricorso per cassazione.
Il giudice del merito ha evidenziato infatti che sarebbe stato onere della parte pubblica mettere il giudicante in condizione di conoscere “per intero” tutti gli atti rilevanti ai fini della decisione e tra questi il menzionato PVC. A questo indiscusso proposito, la parte ricorrente replica evidenziando di avere prodotto uno “stralcio” di cui è rimasto incognito il contenuto, ed in specie se detto stralcio consentisse di apprezzare quali accertamenti la GdF aveva effettuato in merito alla questione delle operazioni inesistenti, siccome precipuo oggetto del thema decidendum.
Non è chi non veda che la parte ricorrente preclude alla Corte, in questi termini, di apprezzare se il fatto asseritamente trascurato dal giudicante fosse dotato del requisito di decisività, ciò che determina l’evidente inammissibilità della censura.
Con il secondo motivo di censura (centrato sulla violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7) la parte ricorrente si duole che il giudicante abbia ritenuto nullo l’avviso di accertamento per effetto della mancata produzione in giudizio del PVC da esso richiamato e si duole ancora del fatto che il giudicante non abbia fatto esercizio dei poteri istruttori officiosi per ordinare alle parti (e ad essa Agenzia in particolare) di produrre nel processo la parte mancante del PVC più volte menzionato.
Il motivo si appalesa infondato.
Sotto il primo profilo perché, come si è detto, il giudice di appello (se pur in precedenza facendo ultroneo riferimento alla nullità del provvedimento in ipotesi di omessa allegazione del richiamato PVC) ha in realtà argomentato principalmente sotto il profilo della mancata integrazione dell’onere di prova incombete sull’Ufficio. Sotto il secondo profilo perché la norma valorizzata dalla parte ricorrente (l’art. 7, comma 3, nella parte in cui consentiva al giudice di ordinare d’ufficio alle parti la produzione dei documenti ritenuti necessari ai fini del decidere) risultava essere già abrogata al momento dell’adozione della sentenza qui impugnata, oltre al fatto che poi è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte (si veda per tutte Cass. 26392/2010) – quand’anche ve ne fossero state le condizioni di tempo e di previa istanza – che “l’istanza con la quale l’Ufficio solleciti l’esercizio dei poteri istruttori di ufficio, di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, al fine di acquisire gli allegati alla dichiarazione dei redditi del contribuente, è inammissibile, sia perché si tratta di documenti già in possesso dell’amministrazione finanziaria che ha formulato la richiesta, ed è, quindi, in contrasto con la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, sia perché manca il presupposto, che consente di derogare al canone ordinario di distribuzione dell’onere della prova e legittima l’esercizio del potere di ufficio, costituito dall’impossibilità di una delle parti di acquisire i documenti in possesso dell’altra, sia, infine, quando, come nella specie, la predetta istanza sia formulata nel giudizio di appello, in ragione della possibilità per le parti di produrre, anche in questa sede, nuovi documenti, nel rispetto del contraddittorio, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 58, comma 2” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 26392 del 30/12/2010).
Quanto poi al terzo motivo (centrato sulla violazione della L. n. 289 del 2002, art. 9), esso appare assorbito dal rigetto di quello che precede, mancando in tal modo il necessario accertamento del fatto presupposto ai fini della legittimità del diniego dell’istanza di definizione automatica ex art. 9 menzionato, e cioè il fatto che oggetto di contestazione fossero operazioni inesistenti, con conseguente venir meno del “presupposto materiale del condono tributario”.
Pertanto, si ritiene
che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio per inammissibilità del primo motivo; manifesta infondatezza del secondo e assorbimento del terzo.
che la relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata agli avvocati delle parti;
che non sono state depositate conclusioni scritte, né memorie;
che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, il ricorso va rigettato;
che le spese di lite vanno regolate secondo la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente a rifondere le spese di lite di questo grado, liquidate in Euro 10.000,00 oltre accessori di legge ed oltre Euro 100,00 per esborsi.
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