CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 gennaio 2014, n. 51
Professioni liberali – Avvocato e procuratore – Compenso per prestazioni professionali – Decreto ingiuntivo – Giudizio di opposizione – Domanda riconvenzionale – Invalidità.
Svolgimento del processo
L’Avv., D.G. chiedeva ed otteneva dal Pretore di Messina un decreto ingiuntivo contro A.C. per il pagamento della somma di lire 6.875.000. a titolo di compenso per prestazioni professionali di natura giudiziale. Nel proporre opposizione l’ingiunto contestava i presupposti dell’emissione del decreto e, nel merito, l’entità della pretesa.
Con sentenza del 14.6.2003 il Tribunale revocava il decreto e in parziale accoglimento della domanda condannava A.C. a pagare alla parte opposta, al netto degli acconti versati, la somma di € 1.545,76, oltre accessori.
L’appello dell’avv. G. era accolto solo in parte dalla Corte d’appello di Messina, che aumentava a € 1.695,76 la somma dovuta.
La Corte territoriale riteneva inammissibile la censura mossa dall’appellante alla sentenza di primo grado, nella parte in cui quest’ultima aveva revocato il decreto ingiuntivo per mancanza del prescritto parere di congruità, ancorché – sosteneva l’appellante – acquisito nel corso del giudizio d’opposizione. Tale decisione, infatti, riposava anche su altra – con contestata – ratio decidendi. ossia la mancata sottoscrizione della parcella da parte del ricorrente. Escludeva, ancora, che fosse rilevante l’allegato errore di applicazione di uno scaglione inferiore rispetto a quello corretto, giacché gli importi riconosciuti per ciascuna voce dal Tribunale si collocavano fra il minimo e il massimo previsto per le cause di valore indeterminabile. Invece, era fondata la pretesa avente ad oggetto la remunerazione, non considerata dal giudice di primo grado, per la redazione di un atto di denuncia alla Procura della Repubblica, atto per cui doveva liquidarsi l’importo di € 150,00, sulla base della tariffa anteriore a quella del 1994.
Riteneva, quindi, che rettamente il giudice di prime cure non avesse considerato i diritti spettanti per attività oggetto di richiesta di pagamento formulata per la prima volta con la comparsa di costituzione nel giudizio d’opposizione o nell’ulteriore corso del processo di primo grado, non essendo dato alla parte opposta, sostanzialmente attrice, di formulare domande riconvenzionali.
Infine, rilevava che non vi era traccia agli atti del parere di congruità della notula, redatto dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati, parere che ad ogni modo non solo non era per nulla vincolante nel giudizio d’opposizione, ma che altresì il giudice di merito non era tenuto a prendere in considerazione.
Per la cassazione di tale sentenza l’avv. D.G. propone ricorso, affidato a tre motivi.
Resiste con controricorso A.C..
Motivi della decisione
1. – Col primo motivo d’impugnazione è dedotta la violazione degli artt. 4. 2° comma e 5, 5° comma D.M. n. 585 del 1994.
Il parere di congruità espresso sulla notula dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati in data 29.10.1997, sostiene, è stato prodotto all’udienza dell’11.12.1997, come risulta dal relativo verbale. Ciò posto, anche se non prodotto a corredo del ricorso per decreto ingiuntivo e sebbene non vincolante, tale parere doveva comunque essere valutato dal giudice della causa di opposizione, il quale avrebbe dovuto indicare le voci di esso non riconosciute.
Critica inoltre come apparente la motivazione della Corte d’appello circa l’irrilevanza in concreto dell’applicazione dello scaglione corretto, essendo il campo di variazione considerevole, ad esempio, quanto alla voce “studio della controversia”.
Formula al riguardo il seguente quesito di diritto ex art. 366-bis c.p.c., applicabile alla fattispecie ratione temporis: “l’aver ritenuto irrilevante ed ininfluente il parere di congruità del Consiglio dell’Ordine, versato in atti, da parte del giudice di primo grado e da parte della Corte d’appello di Messina senza neppure averlo esaminato, costituisce di per sé violazione di norme di diritto con riferimento all’art. 4, I e II comma, all’art. 5, II e V comma e all’art. 11 del D.M. 5.10.1994 n. 585 in G.U. 24.10.1994 n. 247”.
2. – Il secondo mezzo espone la violazione e falsa applicazione degli artt. 633, 645, 183, 184 e 121 c.p.c., nonché dell’art. 4 del D.M. 5.10.1994 n. 585.
I diritti di procuratore, sostiene parte ricorrente, costituiscono una parte inscindibile e inderogabile della tariffa forense, per cui la loro obliterazione da parte del giudice di merito viola l’art. 4 del D.M. n. 585/94. Erroneamente, pertanto, la Corte territoriale non ne ha tenuto conto qualificando la relativa richiesta come domanda riconvenzionale non ammissibile. Al contrario, si tratta di un’integrazione della pretesa originaria proposta con il ricorso per decreto ingiuntivo.
Segue il quesito: “dica codesta Suprema Corte di Cassazione tenuto conto di quanto suesposto, se nella specie sussiste in ordine alla lamentata omissione dei diritti di procuratore chiesti con la comparsa di costituzione davanti al giudice di primo grado la violazione degli artt. 633, 645, 183, 184, 121 c.p.c. nonché dell’art. 4 D.M. 5.10.1994 n. 585”.
3. – Col terzo motivo è allegata l’omessa e insufficiente motivazione, in relazione all’art. 360, n. 5 c.p.c., sul parere di congruità.
La motivazione della sentenza impugnata in ordine all’omessa considerazione del parere del Consiglio dell’Ordine, è apparente, poiché il giudice, ancorché non vincolato ad esso, è tenuto a motivare e vagliare le singole voci ivi contenute, esplicitando le ragioni per cui ritenga di discostarsene. Inoltre, tale motivazione è anche contraddittoria, in quanto da un lato afferma di non poter prendere in considerazione il parere, dall’altro ne rileva la tardiva produzione, affermando che sicuramente esso non corredava il ricorso per decreto ingiuntivo.
4. – Il primo motivo è inammissibile.
Giova premettere che secondo il costante indirizzo di questa Corte, il vizio di violazione e falsa applicazione della legge, di cui all’art. 360, primo comma n. 3, c.p.c., giusta il disposto di cui all’art.366, primo comma n. 4, c.p.c., deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. nn. 16132/05, 26048/05, 20145/05, 1108/06, 10043/06, 20100/06, 21245/06,14752/07, 3010/12 e 16038/13).
In altri termini, non è il punto d’arrivo della decisione di fatto che determina l’esistenza del vizio di cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., ma l’impostazione giuridica che, espressamente o implicitamente, abbia seguito il giudice di merito nel selezionare le norme applicabili alla fattispecie e nell’interpretarle.
4.1. – Nella specie, la doglianza non è pertinente alla rado della sentenza impugnata. La censura mossa, infatti, lamenta il malgoverno di norme – l’art. 4, 2° comma della tariffa forense approvata dal D.M. n. 585 del 1994, riguardante i casi in cui può derogarsi ad essa, e l’art. 5, 5° comma stessa tariffa, che concerne la liquidazione degli onorari nel caso in cui la difesa sia svolta in favore di più parti – per nulla considerate nella sentenza impugnata, che non si è pronunciata né sui limiti di derogabilità della tariffa, né sulla tecnica di liquidazione degli onorari nell’ipotesi di pluralità di pani patrocinate, non essendo in causa né l’ima né l’altra questione.
Quanto al problema del parere di congruità, la Corte messinese si è limitata a rilevare l’inammissibilità del primo motivo di gravame, non essendo stato formulato in maniera tale da criticare anche la seconda ratio decidendi della sentenza di primo grado.
5. – Il secondo motivo è infondato.
Nel giudizio di cognizione introdotto dall’opposizione a decreto ingiuntivo solo l’opponente, in virtù della sua posizione sostanziale di convenuto, è legittimato a proporre domande riconvenzionali, e non anche l’opposto, che incorrerebbe, ove le avanzasse, nel divieto (la cui violazione è rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità) di formulazione di domande nuove, salvo il caso in cui, per effetto di una riconvenzionale proposta dall’opponente, la parte opposta venga a trovarsi, a sua volta, nella posizione processuale di convenuta (Cass. nn. 5071/09, 13086/07, 18767/04 e 16331/02).
5.1. – Nello specifico, va osservato che i diritti di procuratore non costituiscono degli accessori del credito relativo agli onorari di avvocato, essendo diritti e onorari, nel sistema tariffario vigente in base al D.M. n. 585/94, corrispettivi di attività diverse e in concreto distinguibili, rispettivamente di rappresentanza e di difesa tecnica nel giudizio. Pertanto, costituisce domanda nuova, per diversità del petitum e della causa petendi, e non mera emendatio libelli, la richiesta di pagamento dei diritti, non contenuta nel ricorso per decreto ingiuntivo proposto dall’avvocato per il pagamento delle sue spettanze, ma avanzata per la prima volta con la comparsa di risposta nel giudizio di opposizione ex art. 645 c.p.c.
6. – Anche il terzo motivo non ha pregio.
Il dedotto vizio di motivazione è riferito al parere di congruità, cioè ad un documento che la Corte territoriale, pur assumendo di non reperire agli atti, in realtà non ha “omesso” di esaminare, perché l’ha ritenuto non rilevante ai fini della decisione, (i) sia per l’inammissibilità del primo motivo di gravame (come si è già detto); (ii) sia in quanto l’acquisizione del parere nel corso del giudizio di opposizione non avrebbe potuto “in alcun modo soddisfare un presupposto del procedimento monitorio, surrogando ex post un requisito che doveva sussistere al momento della richiesta di ingiunzione” (v. pag. 3 sentenza d’appello); (iii) sia, infine, poiché le somme liquidate dal giudice di primo grado, situandosi in posizione mediana tra il minimo ed il massimo, apparivano congrue rispetto alla natura dell’attività espletata e alle questioni affrontate, avendo l’avv. G. assistito il C. innanzi al giudice amministrativo solo per la parte iniziale del procedimento, in una vicenda comune e di modesto (ancorché indeterminato) valore economico, non implicante un impegno di particolare difficoltà nello studio degli atti e nell’elaborazione della linea difensiva (v. pagg. 5 e 6 della sentenza impugnata).
7. – In conclusione il ricorso va respinto.
8. – Seguono le spese, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in € 1.500,00, di cui 200.00 per esborsi, oltre IVA e CPA come per legge.
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