Corte di Cassazione sentenza n. 5404 del 5 marzo 2013
LAVORO SUBORDINATO – LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA – NULLITA’ DEL PATTO DI PROVA – RISARCIMENTO DEL DANNO – CASSAZIONE CIVILE – RICORSO – MOTIVI: DIFETTO DI MOTIVAZIONE
massima
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Il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poiché, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse. Infatti, la Corte di merito si è pronunziata sul licenziamento che era stato adottato dalla datrice di lavoro esclusivamente sulla base del mancato superamento della prova, per cui era solo questa l’accertata causa del recesso ritenuto illegittimo.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 5/3 – 2/4/09 la Corte d’appello degli Abruzzi – L’Aquila ha parzialmente accolto l’impugnazione proposta da P. M. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Chieti, che le aveva respinto la domanda diretta alla declaratoria di illegittimità del patto di prova contenuto nella lettera di assunzione del 18/3/02 e dell’illegittimità del licenziamento comunicatole il 13/6/02, e conseguentemente ha condannato la società S.p.a. S., nella sua accertata qualità di unica datrice di lavoro, alla riassunzione dell’appellante entro tre giorni o al risarcimento del danno nella misura di n. 2,5 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori di legge, detratto quanto percepito in forza dell’ordinanza cautelare dell’1/8/2003.
La Corte ha spiegato che la nullità del patto di prova discendeva dalla mancata specificazione delle mansioni che avrebbe dovuto svolgere l’appellante, per cui operava la conversione in via definitiva dell’assunzione fin dal suo inizio. Ne conseguiva che l’impugnato licenziamento, comminato nell’ambito della recedibilità ad nutum e basato esclusivamente sul mancato superamento del periodo di prova, doveva considerarsi illegittimo per mancanza di giusta causa o giustificato motivo.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso la P., la quale affida l’impugnazione a quattro motivi di censura.
Resistono con controricorso la F. s.p.a (già S. s.p.a), la C. della Provincia di Chieti s.p.a. e la F. S.p.A., mentre rimangono intimati il rag. P. V. C. e la società R. s.r.l. La ricorrente deposita memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Col primo motivo la ricorrente, denunziando la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., si duole del fatto che la Corte d’appello avrebbe omesso di pronunziarsi sul quarto motivo del gravame attraverso il quale aveva invocato il più favorevole regime sanzionatolo che la legge prevede nel caso di violazione del divieto di licenziamento della lavoratrice madre. Assume, quindi, la P. che aveva chiesto la tutela ripristinatoria del rapporto di lavoro col risarcimento del danno commisurato a tutte le retribuzioni dal giorno del licenziamento a quello di ripresa del servizio o, in alternativa, la tutela risarcitoria di diritto comune.
Viene posto, pertanto, il seguente quesito: “Ove una lavoratrice abbia chiesto, in via prioritaria, l’accertamento della nullità del licenziamento in quanto intimato nel corso di gravidanza, incorre nella violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e giudicato il giudice d’appello che ometta di pronunciare su un motivo diretto a censurare la sentenza di primo grado che tale nullità aveva escluso e di pronunciare sulle consequenziali domande di ripristino del rapporto e di danno, ovvero di danno secondo il diritto comune, proposte sempre in via prioritaria, rispetto alla declaratoria di illegittimità del licenziamento per ingiustificatezza? Osserva la Corte che il motivo è infondato, in quanto non è ravvisabile nella decisione impugnata la lamentata omissione di pronunzia sulla domanda di nullità del licenziamento intimato nel periodo di gravidanza.
Invero, la Corte di merito si è pronunziata a tal riguardo affermando che l’impugnato licenziamento del 13/6/2002 era stato adottato dalla datrice di lavoro esclusivamente sulla base del mancato superamento della prova, per cui era solo questa l’accertata causa del recesso ritenuto illegittimo. Ne conseguiva, secondo i giudici d’appello, che, una volta accertata l’illegittimità di tale tipo di recesso in ragione della rilevata nullità del patto di prova ed una volta riscontrata la mancanza di giusta causa o di giustificato motivo alla base dello stesso provvedimento espulsivo, poteva ritenersi assorbito ogni ulteriore rilievo in ordine al fatto che tale provvedimento risolutorio, intimato per la dedotta causa del mancato superamento della prova, fosse stato adottato nel periodo di gravidanza della lavoratrice.
2. Col secondo motivo la ricorrente denunzia il vizio di omessa motivazione su fatti controversi e decisivi per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., assumendo che, essendo controverso che l’istituto di credito avesse frazionato l’attività produttiva al fine di eludere il divieto di intermediazione di mano d’opera, la Corte di merito avrebbe dovuto esaminare la circolare n. 25/02, emessa il 20/3/2002 dalla C. s.p.a., che attestava come le attività concernenti l’erogazione del servizio di finanziamento alla propria clientela verso cessioni di 1/5 dello stipendio erano svolte dallo stesso istituto bancario in collaborazione con la società finanziaria controllata S. s.p.a. di Bologna.
3. Col terzo motivo è dedotta l’omessa e/o insufficiente motivazione su fatti controversi e decisivi (art. 360 n. 5 c.p.c.), sostenendosi che il giudizio espresso dalla Corte territoriale in ordine alla ritenuta inidoneità dei capitoli di prova puntualmente articolati era illogico, in quanto una tale decisione impediva di provare proprio i fatti controversi inerenti al lamentato frazionamento dell’attività produttiva dell’istituto di credito al fine di dimostrare che le suddette attività erano, in realtà, strettamente connesse ed erano svolte in collaborazione tra i dipendenti dello stesso istituto e la società finanziaria controllata.
Osserva la Corte che il secondo ed il terzo motivo possono essere trattati congiuntamente in quanto comportano l’esame della stessa questione del dedotto frazionamento dell’attività produttiva e della prospettata collaborazione tra le citate società, questione relativamente alla quale la ricorrente si duole del mancato esame di un documento e della mancata ammissione delle prove orali. Orbene, entrambi i motivi sono infondati.
Si rileva, infatti, che a fronte degli accertamenti di merito, adeguatamente svolti dalla Corte territoriale in ordine alla verificata esistenza di una diversità ed autonomia delle predette imprese e riguardo ai documenti nei quali erano stati trasfusi gli accordi tra le stesse compagini societarie, accertamenti che l’hanno indotta a ritenere inidonea la prova testimoniale invocata dalla ricorrente per dimostrare la supposta intercambiabilità delle mansioni dei dipendenti delle suddette società ai fini della prospettata possibilità di una interposizione di mano d’opera vietata dalla legge, si rivela per nulla decisivo il documento cui fa riferimento la P., vale a dire la circolare ad uso interno diramata dalla C. s.p.a.
Egualmente, per gli stesi motivi, si rivela inammissibile il tentativo di rivisitazione del merito probatorio adeguatamente valutato nella sentenza impugnata sulla scorta di argomentazioni esenti da vizi di carattere logico-giuridico, come tali incensurabili nella presente sede di legittimità.
Invero, come è stato già statuito da questa Corte (Cass, sez. lav. n. 2272 del 2/2/2007), “il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c., è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poiché, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse”.
4. Con l’ultimo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 n. 4 c.p.c.), in quanto sostiene che la Corte territoriale ha omesso di pronunziarsi sul sesto motivo del gravame attraverso il quale aveva eccepito che la datrice di lavoro non avrebbe avuto diritto a ripetere, anche dopo la rimozione da parte del primo giudice dell’iniziale ordine di reintegra, quanto corrispostole nel periodo successivo alla stessa reintegrazione. La denunziata omissione risalta, secondo la ricorrente, in maniera evidente allorquando la Corte d’appello, nel ritenere di accordarle la sola tutela risarcitoria nella misura di n. 2,5 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, ha deciso di detrarle quanto percepito in forza dell’ordinanza cautelare successivamente rimossa. Il motivo è infondato.
Invero, non è ravvisabile la denunziata omissione di pronunzia sulla questione della eccepita irripetibilità delle retribuzioni ottenute dalla lavoratrice per effetto dell’iniziale ordinanza che disponeva la sua reintegra, in quanto nel momento in cui la Corte di merito ha ritenuto sussistere la diversa ipotesi della tutela obbligatoria, provvedendo a quantificare il risarcimento del danno, in alternativa alla riassunzione, e stabilendo, altresì, la detrazione di quanto già percepito dalla lavoratrice, ha lasciato intendere di voler comprendere nell’ammontare complessivo del risarcimento gli importi che non potevano più ritenersi legittimati da un titolo giudiziale ormai rimosso, per cui la suddetta eccezione è da ritenere implicitamente rigettata.
Si è, infatti, affermato (Cass. Sez. 3, n. 19131 del 23/9/2004) che “non è configurabile il vizio di omessa pronuncia (art. 112, c.p.c.) quando una domanda non espressamente esaminata debba ritenersi rigettata – sia pure con pronuncia implicita – in quanto indissolubilmente avvinta ad altra domanda che ne costituisce il presupposto e il necessario antecedente logico – giuridico, che sia stata decisa e rigettata dal giudice”. In definitiva il ricorso va rigettato.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate in favore di ognuna delle due parti costituite, vale a dire la F. s.p.a e la C. della Provincia di Chieti, nella misura indicata in dispositivo.
Considerato, invece, che il rapporto processuale tra la ricorrente e la Fondiaria – S. s.p.a non risulta investito dalla domanda della lavoratrice, si reputa equo compensare tra le stesse parti le spese del presente giudizio. Nessuna statuizione in ordine alle spese va, infine, adottata nei confronti delle altre parti rimaste solo intimate.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento nei confronti della F. s.p.a e della C. della Provincia di Chieti dei compensi professionali del presente giudizio in euro 2600,00 ciascuna e degli esborsi in euro 40,00, oltre l.V.A e C.P.A ai sensi di legge. Compensa le spese nei confronti della Fondiaria – S. s.p.a. Nulla per le spese nei confronti delle altre parti.
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