Corte di Cassazione sentenza n. 5809 del 8 marzo 2013
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – ESTINZIONE DEL RAPPORTO – LICENZIAMENTO INDIVIDUALE – PER GIUSTA CAUSA – SVOLGIMENTO DI ALTRA ATTIVITÀ LAVORATIVA DA PARTE DEL DIPENDENTE ASSENTE PER MALATTIA – GIUSTA CAUSA – CONFIGURABILITÀ – CONDIZIONI
massima
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Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio “ex ante” in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione ed il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al Tribunale di Savona in funzione di Giudice del lavoro C.S. chiedeva che venisse riconosciuta nei confronti della sua datrice di lavoro A. s.p.a., l’illegittimità del licenziamento intimatole il 6-7-2004 e che la società venisse condannata a reintegrarla nel posto di lavoro di addetta al bar presso l’A. denominato “C. Sud” e a corrisponderle la retribuzione dal licenziamento alla reintegra.
La ricorrente riferiva che con comunicazione del 19-6-2004 la società le aveva contestato il fatto di essere stata notata a prestare attività lavorativa presso un bar in Albenga durante l’assenza dal lavoro per infortunio e che, a tale contestazione, aveva ribattuto che si trattava di un bar appartenente ad una società di cui era socia, limitandosi a fare gli scontrini alla cassa con impegno modesto, anche per il modesto afflusso di clienti, senza alcun pregiudizio per la sua guarigione.
La C.S. in primo luogo sosteneva che il licenziamento era inefficace ex art. 2 comma 3 legge 604/1966 perché la datrice nonostante la sua espressa richiesta non le aveva comunicato per iscritto i motivi del licenziamento, non potendo considerarsi sufficiente il riferimento al comportamento addebitato che poteva dar luogo a diverse violazioni non tutte equivalenti quanto alle conseguenze.
La società si costituiva contestando la fondatezza della domanda.
Il Giudice del Tribunale di Savona con sentenza n. 304 del 2006, respingeva il ricorso.
La lavoratrice proponeva appello ribadendo che per assolvere l’onere di motivazione del licenziamento il datore avrebbe dovuto indicare le norme legali o contrattuali violate e non limitarsi ad enunciare il fatto. Nel merito sosteneva che il Giudice aveva male interpretato le risultanze istruttorie dalle quali era a suo dire possibile evincere che l’attività da lei prestata presso il bar di Albenga non era assolutamente tale da mettere in pericolo la sua pronta guarigione e quindi la ripresa della attività lavorativa presso l’A.C. Sud.
La società appellata si costituiva resistendo al gravame.
La Corte d’Appello di Genova, con sentenza depositata il 7-9-2009, in accoglimento dell’appello, dichiarava illegittimo il licenziamento, ordinava alla A. s.p.a. di reintegrare C.S. nel suo posto di lavoro e di corrisponderle le retribuzioni dal giorno del licenziamento alla reintegra, con gli accessori, oltre alla rifusione della spese del doppio grado.
In sintesi la Corte territoriale rilevava, da un lato, che il mero fatto addebitato, senza alcuna altra specificazione riguardante l’eventuale compromissione o ritardo della guarigione della infermità, non costituiva di per sé violazione di un qualche obbligo gravante sulla lavoratrice e, dall’altro, che nella fattispecie la valutazione ex ante portava comunque ad escludere che l’attività prestata dalla C.S. nel bar di Albenga potesse pregiudicare o ritardare la sua guarigione, in considerazione della natura dell’infermità (trauma alla caviglia), della attività svolta e del dato temporale (ultimi tre giorni prima della prevista ripresa del lavoro).
Per la cassazione di tale sentenza la A. s.p.a. ha proposto ricorso con sei motivi.
La C.S. ha resistito con controricorso.
La società ha depositato “memoria di nomina di nuovo difensore”.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, va rilevata la nullità della procura apposta a margine della memoria, depositata dalla controricorrente, con la quale in particolare, dandosi atto dell’avvenuto decesso dell’avv. G.D.M., si nomina difensore, “anche disgiuntamente all’avv. M.P.C.”, l’avv. D.J.L., presso lo studio della quale in Roma, piazza D.P. si elegge domicilio, mentre resta ferma la validità della costituzione dell’avv. P.C. (in virtù della procura a margine del controricorso) e della mera nuova elezione di domicilio effettuata dalla C.S. presso lo studio dell’avv. J.L..
Nel giudizio di cassazione, infatti, come ripetutamente è stato affermato da questa Corte (nel regime anteriore alla legge n. 69 del 2009), “la procura speciale non può essere rilasciata a margine o in calce ad atti diversi dal ricorso o dal controricorso, poiché l’art. 83, terzo comma, c.p.c., nell’elencare gli atti in margine o in calce ai quali può essere apposta la procura speciale, indica con riferimento al giudizio di cassazione soltanto quelli sopra individuati; ne consegue che se la procura non è rilasciata in occasione di tali atti, è necessario il suo conferimento nella forma prevista dal secondo comma del cit. art. 83, cioè con atto pubblico o con scrittura privata autenticata, facenti riferimento agli elementi essenziali del giudizio, quali l’indicazione delle parti e della sentenza impugnata” (v. fra le altre Cass. 9-4-2009 n. 8708, Cass. 20-8-2009 n. 18528).
D’altra parte nella fattispecie, ratione temporis, neppure potrebbe invocarsi il nuovo testo dell’art. 83 c.p.c., secondo il quale la procura speciale può essere apposta a margine o in calce anche di atti diversi dal ricorso o dal controricorso (come la “memoria di nomina di nuovo difensore, in aggiunta o in sostituzione del difensore originariamente designato”), in quanto lo stesso “si applica esclusivamente ai giudizi instaurati in primo grado dopo la data di entrata in vigore dell’art. 45 della l. n. 69 del 2009 (4 luglio 2009), mentre per i procedimenti instaurati anteriormente a tale data, se la procura non viene rilasciata a margine od in calce al ricorso e al controricorso, si deve provvedere al suo conferimento mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata, come previsto dall’art. 83, secondo comma” (v. Cass. 26-3-2010 n. 7241, Cass. 28-7-2010 n. 17604).
Peraltro la nullità della procura non è di ostacolo alla validità del distinto atto di nuova elezione di domicilio effettuato dalla controricorrente (firmataria dell’atto stesso con l’avv. P.C.) (cfr. Cass. 7-11-2003 n. 16707, Cass. 5-2-1998 n. 1162).
Con il primo motivo, denunciando violazione degli artt. 7 l. 300/1970 e 112 c.p.c., la società ricorrente deduce che la Corte di merito, oltre ad avere violato il principio d’identità tra chiesto e pronunciato, non essendo controversa la specificità della contestazione d’addebito, ma la comunicazione dei motivi del licenziamento, non ha considerato che con la lettera del 19 giugno 2004 (riportata in ricorso) erano state fornite alla lavoratrice tutte le indicazioni necessarie ad individuare nella sua materialità i fatti nei quali essa società aveva ravvisato la sussistenza di infrazioni disciplinari, per cui la contestazione soddisfaceva il requisito della specificità.
Con il secondo motivo, denunciando violazione degli artt. 7 l. n. 300/1970 e 2, comma 3, l1. n. 604/1966, la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata “è inoltre viziata nella parte in cui accerta l’illegittimità (rectius: inefficacia) del licenziamento in conseguenza dell’omessa comunicazione dei (richiesti) motivi di recesso”, considerato all’uopo sufficiente il richiamo, nella lettera di licenziamento, dei fatti specifici già oggetto della contestazione d’addebito.
I detti primi due motivi risultano inammissibili.
La sentenza impugnata, infatti, non si fonda propriamente sulla mancanza di specificità della contestazione e neppure sulla mancata comunicazione dei motivi del recesso.
A ben vedere le argomentazioni al riguardo, inizialmente svolte nella motivazione della sentenza, non confluiscono in una declaratoria di inefficacia o di illegittimità del licenziamento per tali motivi e non costituiscono una vera e propria autonoma ratio deciderteli, risultando piuttosto come premesse argomentative per la successiva affermazione decisiva della illegittimità del licenziamento stesso in quanto “nella fattispecie, il giudizio ex ante porta ad escludere che l’attività prestata dalla C.S. nel bar di Albenga potesse pregiudicare o ritardare la sua guarigione”.
Peraltro, non può ignorarsi che l’esame dei detti motivi sarebbe in ogni caso superfluo, considerato che la sentenza impugnata rimarrebbe comunque ferma sulla base di tale ultima decisiva affermazione (v. fra le altre Cass. 18-5-2005 n. 10420, Cass. 20-1-2006 n. 1101), per il rigetto dei restanti motivi, come appresso.
Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando vizio di motivazione, lamenta che, nonostante l’accertamento dello svolgimento (per tre giorni) di una attività lavorativa analoga a quella presso l’A., ha ritenuto la stessa non idonea a pregiudicare o ritardare la guarigione.
In particolare la ricorrente deduce che dalle risultanze della prova testimoniale (riportate in ricorso) non sarebbero emerse circostanze atte ad escludere la potenzialità dannosa della condotta della C.S. a ritardare il rientro in servizio della stessa presso la A. s.p.a..
Con il quarto motivo, denunciando violazione degli artt. 2110 e 2697 c.c., la ricorrente deduce che a fronte di una accertata prestazione lavorativa a favore di terzi da parte del dipendente assente per malattia, grava sul lavoratore (e non sul datore di lavoro) l’onere di dimostrare la compatibilità della suddetta attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa, di guisa che, nel caso di specie, in mancanza di elementi rilevanti al riguardo, la Corte d’Appello avrebbe dovuto confermare la pronuncia di primo grado.
Con il quinto motivo, denunciando violazione degli artt. 1175, 1375, 2104, 2119 c.c., la ricorrente ribadisce che lo svolgimento della medesima attività per ben tre giorni consecutivi, durante la malattia, integrava senz’altro una grave violazione dei doveri di diligenza, correttezza e buona fede, così legittimando il licenziamento per giusta causa.
I detti motivi dal terzo al quinto, che in quanto strettamente connessi ed anche parzialmente ripetitivi, possono essere trattati congiuntamente, risultano in parte infondati ed in parte inammissibili.
Come è stato più volte affermato da questa Corte e va qui ribadito, “lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione (ipotesi neppure ipotizzata nella fattispecie in esame), anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio “ex ante” in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia.” (v. Cass. 1-7-2005 n. 14046, Cass. 3-12-2002 n. 17128).
Peraltro, come pure è stato precisato, “nell’ipotesi in cui il dipendente assente per malattia venga sorpreso a svolgere attività lavorativa presso terzi, grava su di lui l’onere di provare la compatibilità dell’attività svolta con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa, e perciò l’inidoneità di tale attività a pregiudicare il recupero delle normali energie lavorative” (v. Cass. 13-4-1999 n. 3647, Cass. 21-10-1991 n. 11142).
In ogni caso, come per qualsiasi accertamento di fatto, “la valutazione degli elementi probatori è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento” (v. fra le altre Cass. 13-1-2003 n. 322, Cass. 17-11-2005 n. 23286, Cass. 18-5-2006 n. 11670) e, d’altra parte, tale controllo, “consentito dall’art. 360 n. 5 c.p.c., non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità”, con la conseguenza che “risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa”, (v., fra le altre, da ultimo Cass. 7-6-2005 n. 11789, Cass. 6-3-2006 n. 4766).
Orbene, nel caso di specie, la Corte d’Appello, alla luce delle risultanze istruttorie, ha semplicemente escluso che “l’attività prestata dalla C.S. nel bar di Albenga potesse pregiudicare o ritardare la sua guarigione”, rilevando in particolare:
che “la C.S. era assente per un infortunio ad una caviglia con prognosi giustificata dal 11-6-2004 al 20-6-2004 e che la sua attività lavorativa presso il bar di Albenga ha avuto luogo…negli ultimi tre giorni di malattia e dunque in prossimità della scadenza della data prevista per la ripresa dell’attività lavorativa presso l’A.”;
che “la stessa tipologia della malattia, derivata da un trauma alla caviglia, era dunque tale da escludere che l’allontanamento da casa potesse di per sé aggravarla ed è anzi ragionevole ritenere che un certo esercizio, negli ultimi giorni, potesse favorire la piena ripresa della funzionalità dell’arto;”
che “occorre poi considerare il fatto che il bar di Albenga fosse di dimensioni molto ridotte e che il prevedibile afflusso di clienti fosse limitato e di gran lunga inferiore rispetto a quello di un A. sulla A. dei F. (in periodo estivo) dove la C.S. di lì a poco avrebbe ripreso l’attività”.
Tale accertamento di fatto, oltre che conforme al principio di diritto sopra ribadito, risulta congruamente motivato e resiste alle censure della società ricorrente.
In particolare, mentre sul quarto motivo va rilevato che la sentenza impugnata non ha affatto addossato l’onere della prova sul datore di lavoro, avendo semplicemente accertato, in base alle risultanze istruttorie, che era stata raggiunta la prova che l’attività svolta era inidonea “a pregiudicare o ritardare la guarigione”, sul terzo e sul quinto motivo è sufficiente rilevare da un lato la mancanza di vizi logici nella motivazione e dall’altro la riproposizione, da parte della società ricorrente, di una diversa valutazione delle risultanze istruttorie, che si risolve in sostanza in una richiesta di revisione del “ragionamento decisorio” inammissibile in questa sede.
Infine parimenti non merita accoglimento il sesto motivo, con il quale la società, denunciando un vizio di omessa motivazione, in sostanza lamenta che la Corte d’Appello non si sarebbe “pronunciata” sulla idoneità della condotta della C.S. a costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento (eccepita in via subordinata davanti ai giudici di merito).
In primo luogo, osserva il Collegio che il vizio denunciato, così come formulato, comporta di per sé la inammissibilità del motivo (v. Cass. 11-5-2012 n. 7268, Cass. 4-6-2007 n. 12952, Cass. 11-1-2005 n. 375, Cass. 7-4-2004 n. 6858).
Peraltro, nel caso di specie è anche evidente che la Corte di merito, escludendo che la C.S. abbia in qualche modo violato i propri obblighi di correttezza e buona fede, ha in sostanza escluso la legittimità del licenziamento anche sotto il profilo del giustificato motivo soggettivo.
Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente, in ragione della soccombenza va condannata al pagamento, in favore della C.S., delle spese, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della C.S. delle spese liquidate in euro 50,00 per esborsi e euro 2.500,00 per compensi, oltre accessori di legge.
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