Corte di Cassazione sentenza n. 5822 del 13 aprile 2012
IVA – RIMBORSO – TIPO DI ATTIVITÀ SVOLTA DAL CONTRIBUENTE – PUBBLICITÀ SI INTERNET – RILEVANZA
massima
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L’Amministrazione finanziaria può utilizzate le notizie acquisite dal web a fini accertativi e per verificare se il campo d’azione di un’azienda sia tra quelli imponibili. Se la pubblicità svolta dalla stampa, dalla televisione e da altri mezzi di comunicazione di massa, è finalizzata a far conoscere i prodotti e i servizi offerti al pubblico dall’impresa, allora giustamente ai fini dell’accertamento Iva, anche “internet” costituisce prova idonea a qualificare l’attività svolta dall’azienda, che può essere utilizzata dall’Amministrazione finanziaria ai fini della qualificazione proprio dell’oggetto sociale. Inoltre, a fronte della prova offerta dall’Amministrazione finanziaria circa la sussistenza delle circostanze che giustificano le proprie determinazioni, il contribuente non ha dimostrato la fondatezza della pretesa creditoria anche in base a criteri non utilizzati dall’ufficio.
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Svolgimento del processo La società in epigrafe indicata, impugnava in sede giurisdizionale il provvedimento con cui il competente Ufficio Finanziario negava il rimborso dell’IVA per l’anno 2006.
Deduceva violazione dell’art. 7 comma 1° legge n. 212/2000 ed assenza di motivazione, nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 19 del dpr n. 633/72.
L’adita CTP accoglieva il ricorso, mentre la CTR, pronunciando sull’appello dell’Agenzia delle Entrate, riformava la decisione di primo grado, ritenendo legittimo il diniego di rimborso.
Con atto notificato il 29 settembre/04 ottobre/2011, la società ha impugnato la decisione di appello, sulla base di tre mezzi.
L’Agenzia, giusto controricorso notificato il 14-15 novembre 2011, ha chiesto che il ricorso venga dichiarato inammissibile e, comunque, rigettato per infondatezza.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la decisione di appello viene censurata per violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della Legge n. 212 del 27.07.2000.
Si deduce che i Giudici di appello non hanno considerato che l’atto impugnato era nullo per inesistenza dei suoi indefettibili presupposti e, quindi, per non avere assolto all’obbligo motivazionale, non avendo esplicitato “sulla base di quali passi del provvedimento amministrativo sia possibile individuare gli aspetti materiali e giuridici della pretesa fiscale operata dall’Ufficio”.
Il mezzo è da ritenersi inammissibile ed infondato, alla stregua del consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui – dato il carattere di “provocatio ad opponendum” dell’avviso di accertamento il – requisito motivazionale esige “oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi ed oggettivi della posizione creditoria dedotta, soltanto l’indicazione di fatti astrattamente giustificativi di essa, che consentano di delimitare l’ambito delle ragioni adducibili dall’Ufficio nell’eventuale successiva fase contenziosa, restando poi affidate al giudizio d’impugnazione dell’atto le questioni riguardanti l’effettivo verificarsi dei fatti stessi e la loro idoneità a dare sostegno alla pretesa impositiva” (Cass. n. 27653/2005, n. 14700/2001, n. 14566/2001, n. 11608/2001, cfr SS.UU. n.8351/1990).
Nel caso, tutti i predetti elementi sono stati ritenuti sussistenti dal Giudice di appello, con argomentazione sotto il profilo logico formale corretta e coerente al trascritto principio, essendo stato rilevato che l’esplicitazione che il diniego di rimborso era connesso all’esenzione dell’operazione dal regime dall’IVA ai sensi dell’art.10 del dpr n.633/1972, era idonea a far conoscere alla contribuente le ragioni della pretesa fiscale ed a porla nelle condizioni di esercitare il diritto di difesa, come peraltro in concreto avvenuto.
Il mezzo, oltretutto, risulta formulato in modo generico, e non offre elementi per valutare con immediatezza la rilevanza e la decisività delle censure, giacché non vengono indicati gli elementi fattuali pretermessi e le ragioni giuridiche che, ove presi in considerazione avrebbero indotto a diversa decisione(Cass. n.15672/05, n.20454/2005, n.19756/05, n.3089/2004, n.10324/2004, n.849/2002, n.2613/2001).
Con il secondo mezzo si deduce violazione ed errata applicazione dell’art.10 del dpr n.633/1972.
Si prospetta l’erroneo operato dei Giudici di merito, per avere inquadrato l’attività svolta dalla società tra quelle che danno luogo ad operazioni esenti da IVA, esattamente qualificandola di “gestione di residenza, assistenza e cura per anziani”, mentre, in effetti, l’attività svolta si concretizzava nella gestione di una “casa per ferie”, avente natura essenzialmente imprenditoriale e, quindi, imponibile ai fini IVA.
Nel concreto, si contestano le modalità di utilizzo della documentazione in atti e la relativa valutazione.
Il mezzo, del quale pur si colgono profili di inammissibilità è, comunque, infondato.
Rileva, sotto un primo profilo, il Collegio che le doglianze con lo stesso formulate, risolvendosi nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto esaminati e valutati dal giudice di merito, vanno disattese in base al condiviso e consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui in tema di accertamento dei fatti storici allegati dalle parti a sostegno delle rispettive pretese, i vizi deducibili con il ricorso per cassazione non possono consistere nella circostanza che la determinazione o la valutazione delle prove siano state eseguite dal giudice in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché a norma dell’art.116 cpc rientra nel potere discrezionale – e come tale insindacabile – del giudice di merito apprezzare all’uopo le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le varie risultanze istruttorie, quelle ritenute idonee e rilevanti con l’unico limite di supportare con adeguata e congrua motivazione l’esito del procedimento accertativo e valutativo seguito (Cass. n. 15099/2003, n. 11462/04, n. 2090/04, n. 12446/2006).
I Giudici di appello, peraltro, hanno puntualmente e logicamente motivato, indicando i vari elementi caratterizzanti l’accertata attività, valorizzando oltre alle finalità esternate nell’atto di compravendita dell’immobile, il codice di attività denunciato, le emblematiche indicazioni contenute nel progetto di ristrutturazione presentato al Comune di Altamura, le indicazioni contenute nelle fatture relative ai lavori effettuati nell’immobile, la pubblicità promozionale inserita su Internet, l’inequivoco contenuto della domanda inoltrata il 20.04.2009 per la disapplicazione delle norme antielusive, nonché l’autorizzazione provvisoria, rilasciata dalla Regione Puglia, per la gestione di una casa di riposo.
Un complesso di elementi univoci idonei a dare contezza della decisione, giustificando la cernita degli elementi e la valutazione operata.
Con il terzo motivo, con il quale si lamenta violazione ed errata applicazione degli artt. 2697 e 2909 del Codice Civile, si deduce che la decisione di appello sarebbe affetta dal denunciato vizio, per non avere operato una “più attenta valutazione” ed offerto una “più congrua motivazione degli elementi fattuali già accertati dai Giudici in precedenti giudizi.
La censura risulta, ancora, inammissibile oltre che infondata.
Inammissibile, in quanto non risulta in linea con il condiviso principio secondo cui “Nel giudizio di legittimità, il ricorrente che deduca l’omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata per mancata o erronea valutazione di alcune risultanze probatorie ha l’onere, in virtù del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di specificare, trascrivendole integralmente, le prove non o male valutate, nonché di indicare le ragioni del carattere decisivo delle stesse. Il mancato esame di un’istanza istruttoria può dar luogo al vizio di omessa e insufficiente motivazione solo se le risultanze processuali o mal valutate siano tali da invalidare l’efficacia probatoria delle altre sulle quali il convincimento si è formato, onde la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di base” (Cass. n. 3004/2004, n. 3696/2003, n. 3284/2003). Infondata, in quanto la motivazione al riguardo, adoperata dai Giudici di appello, ancorché sintetica, risulta esaustiva, facendo, fra l’altro, riferimento, sia alla mancanza di definitività dei provvedimenti in argomento, sia pure al fatto che gli stessi afferivano ad altre annualità d’imposta e dovendo essere letta e correlata a tutte le altre argomentazioni svolte dai Giudici di appello per giustificare il decisum. Il ricorso va, conclusivamente, rigettato. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate in complessivi Euro cinquemila, per onorario, oltre spese prenotate a debito.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la società contribuente al pagamento, in favore dell’Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio in ragione di Euro cinquemila, oltre spese prenotate a debito.
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