Corte di Cassazione sentenza n. 631 del 18 gennaio 2012
ACCERTAMENTO – ACCESSI – VIZI DEL PROCEDIMENTO AUTORIZZATIVO – INVALIDITA’ DERIVATA ATTO TERMINALE DEL PROCEDIMENTO
massima
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Il vizio di invalidità del provvedimento autorizzativo, emesso dal PM ai sensi dell’art. 52 comma 2 del D.P.R. 633/1972 in difetto di gravi indizi di violazione di norme tributarie, inficia l’atto presupposto della verifica, interrompe il necessario collegamento funzionale con l’atto terminale del procedimento impositivo e si configura come vizio di invalidità del procedimento amministrativo idoneo a determinare l’annullamento per illegittimità derivata dell’atto consequenziale impugnato. Il difetto della possibilità di riscontro dell’esistenza di siffatti presupposti di legittimità del provvedimento autorizzatorio ridonda in difetto del requisito motivazionale del provvedimento impositivo indipendente dall’assolvimento dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Gli atti del giudizio di legittimità.
L’8.5.2007 è stato notificato alla “Euro T. sas” un ricorso dell’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza descritta in epigrafe (depositata il 23.3.2006), che ha accolto l’appello della società predetta contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Verona n. 117/09/2002, che aveva integralmente disatteso i ricorsi (poi riuniti in primo grado) della stessa società avverso avvisi di accertamento per IRPEF-ILOR-IVA relative agli anni 1995-1996.
La società contribuente si è difesa con controricorso.
La controversia è stata discussa alla pubblica udienza del 23.11.2011, in cui il PG ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
2. I fatti di causa.
Con avvisi di accertamento per imposte relative agli anni 1995-1996 l’Agenzia ha recuperato, in capo alla società qui intimata, ulteriore base imponibile determinata in ragione degli elementi indiziari desunti dal ritrovamento di documentazione extracontabile da parte della GdF presso l’abitazione dell’amministratore della ricorrente società, B.A.
Gli avvisi in questione sono stati impugnati dalla Euro T. sas avanti alla CTP di Verona che ha rigettato i ricorsi, con unica sentenza, dopo averli riuniti.
L’appello interposto dalla società contribuente (fondato in principalità sull’assunto dell’inesistenza dei gravi indizi richiesti dall’art. 52 del DPR n.633/1972 ai fini dell’autorizzazione all’accesso in locali diversi da quelli destinati all’esercizio delle attività commerciali nonché sull’illiceità dell’accesso domiciliare per la parte in cui si era svolta in altri locali del medesimo fabbricato, diversi dall’abitazione del B. e concessi in comodato a tale signora S., nonna del B. medesima) è stato accolto dalla CTR Veneto, che ha perciò dichiarato insussistente la pretesa tributaria.
3. La motivazione della sentenza impugnata.
La sentenza della CTR, oggetto del ricorso per cassazione, è motivata nel senso che la previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica – condizionata all’esistenza di indizi gravi di violazioni tributarie – è soggetta a sindacato da parte del giudice tributario in ordine alla effettiva esistenza degli indizi stessi. Non essendo negli atti di causa la copia della nota con cui la GdF aveva chiesto al locale Procuratore della Repubblica l’autorizzazione all’accesso presso l’abitazione privata, non appariva possibile stabilire se i predetti indizi sussistessero effettivamente. Perciò, il giudicante ha ritenuto che l’accesso sia stato illegittimamente effettuato, con la conseguente inutilizzabilità di tutta la documentazione in tale sede reperita, siccome dotata di valenza determinante ai fini della fondatezza della pretesa impositiva.
D’altronde, l’acceso doveva essere ulteriormente ritenuto illegittimo per il fatto che aveva interessato anche locali per i quali non esisteva l’autorizzazione, e cioè l’abitazione della S., persona estranea alla società ed anche all’amministratore di quella.
4. Il ricorso per cassazione.
Il ricorso per cassazione è sostenuto con tre distinti motivi d’impugnazione e (previa indicazione del valore della lite in Euro 277.455,63) si conclude con la richiesta che sia cassata la sentenza impugnata, e con la richiesta di condanna di parte avversaria al pagamento delle spese di lite.
MOTIVI DELLA DECISIONE
5. Il primo motivo d’impugnazione.
Il primo motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 cpc”.
La parte ricorrente si duole (per come si desume chiaramente dal quesito di diritto) della violazione dell’art. 2697 c.c. nell’ottica della regola di ripartizione dell’onere probatorio, avendo il giudicante fatto onere all’Agenzia dell’omessa acquisizione agli atti di causa della richiesta di autorizzazione avanzata dalla Guardia di Finanza alla autorità giudiziaria ed avendo perciò dichiarato illegittimi gli avvisi impugnati, attesa l’impossibilità di verificare (a causa del difetto di detta richiesta di autorizzazione) l’esistenza di gravi indizi di violazione di norme tributarie, richiesti dall’art. 52 comma 2 D.P.R. 633/1972 ai fini della legittimità dell’autorizzazione.
Il motivo di impugnazione è inammissibile, per difetto di correlazione con la ratio decidendi della sentenza impugnata.
Ed invero, la Commissione del grado di appello non ne ha fatto menzione e neppure appare avere fatto concreto utilizzo del criterio di riparto dell’onere probatorio, ai fini della decisione della lite.
Dopo avere dato atto che la parte appellante si era doluta di carenza di motivazione del decreto della Procura della Repubblica recante la ridetta autorizzazione e dopo avere considerato che la previa esistenza degli indizi di cui al menzionato art. 52 è requisito sostanziale di validità del provvedimento di autorizzazione (sicché essi devono risultare già menzionati nell’istanza di rilascio dell’autorizzazione se a detta istanza il provvedimento di autorizzazione si richiama per relationem), nonché dopo avere dato atto che entrambe le parti avevano inutilmente esperito gli opportuni tentativi finalizzati ad ottenere l’acquisizione della istanza di rilascio dell’autorizzazione, il giudicante ha concluso per l’illegittimità dell’accesso, siccome effettuato in virtù di un’autorizzazione all’apparenza monca del menzionato presupposto.
Non è chi non veda, perciò, che la rado decidendi su cui fonda la sentenza impugnata non ha collegamento alcuno con l’onere della prova e con le regole sul riparto di detto onere, nel mentre ciò che ha orientato il giudicante è la verifica dei presupposti dell’elemento procedimentale indispensabile, che poi si traduce in imprescindibile supporto motivazionale del provvedimento impositivo in ordine all’esistenza dei presupposti medesimi.
A questo proposito occorre preliminarmente evidenziare che secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Corte cass. SU 13.7.2005 n. 14692; id. SU 16.3.2009 n. 6315 id. SU 7.5.2010 n. 1082), il principio della sindacabilità degli atti indicati nell’art. 19 co. 1 D.Lgs. n. 546/1992, anche per difetto o vizi di legittimità degli atti prodromici e strumentali del procedimento ovvero degli atti cd. presupposti che realizzino un collegamento funzionale con l’atto impugnabile avanti il Giudice tributario (per es. atti autorizzativi al compimento delle operazioni di verifica, ed atto di accertamento: in questi casi non si è in presenza di un’unica sequenza procedimentale ma di autonomi procedimenti definiti con distinti provvedimenti collegati funzionalmente tra loro da un nesso di derivazione necessaria: Corte cass. SU 21.11.2002 n. 16424; Corte cass. 5 sez. 1.10.2004 n. 19689; id. 23.4.2007 n. 9568; id. 16.10.2009 n. 21974; id. SU 16.3.2009 n. 6315 e SU 7.5.2010 n. 11082), giustifica l’attrazione alla giurisdizione tributaria anche della verifica della invalidità del provvedimento autorizzativo all’accesso nei luoghi di pertinenza del contribuente emesso dal PM ai sensi dell’art. 52 comma 1 e 2 D.P.R. n. 633/1972.
E ciò perché “la giurisdizione (piena ed esclusiva) del giudice tributario fissata dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, poi, non ha ad “oggetto” solo gli atti per così dire “finali” del procedimento amministrativo di imposizione tributaria (ovverosia gli atti definiti, propriamente, come “impugnabili” dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19) ma investe – nei limiti, ovviamente, dei “motivi” sottoposti dal contribuente all’esame di quel giudice ai sensi dell’art. 18, comma 2, lett. e), stesso D.Lgs. – tutte le fasi del procedimento che hanno portato alla adozione ed alla formazione di quell’atto tanto che l’eventuale giudizio negativo in ordine alla legittimità e/o alla regolarità (formale e/o sostanziale) su un qualche atto “istruttorio” prodromico può determinare la caducazione, per illegittimità derivata, dell’atto “finale impugnato” (cfr. SU n. 6315/2009 cit; conf. SU n. 11082/2010 cit.), risultando conseguentemente incompatibile con il riconoscimento della “esclusività” della giurisdizione in materia tributaria, affermato dall’art. 12 co. 2 legge 28.2.2001 n. 448, la devoluzione di tali “atti istruttori” (ed in particolare degli atti presupposti) alla cognizione del Giudice amministrativo secondo gli ordinari criteri di riparto fondati sulla natura della situazione giuridica sostanziale asseritamente violata.
Non è dunque chi non veda che in siffatta materia non può venire in questione la problematica del riparto dell’onere probatorio, vertendosi invece sul piano dei vizi cd. formali dell’atto impugnato, categoria nella quale va ascritto anche il vizio di invalidità del provvedimento autorizzativo, emesso dal PM – ai sensi dell’art. 52 co. 2 D.P.R. n. 633/72 – in difetto di “gravi indizi di violazione di norme tributarie”, in quanto volto ad inficiare l’atto presupposto della verifica e dunque ad interrompere il necessario collegamento funzionale con l’atto terminale del procedimento impositivo, e che viene pertanto a configurarsi come vizio di invalidità del procedimento amministrativo idoneo a determinare l’annullamento per illegittimità derivata (così Corte cass. SU n. 6315/2009 cit.) dell’atto consequenziale impugnato.
Ciò posto, nella specie di causa il difetto della possibilità di riscontro dell’esistenza di siffatti presupposti di legittimità del provvedimento autorizzativo ridonda in difetto del requisito motivazionale del provvedimento impositivo, ciò che risalta oggettivamente e di per sé, indipendentemente dall’assolvimento di un onere di prova, il quale ultimo non può certo riferirsi a ciò che è estraneo all’alveo dei fatti storici che il provvedimento tende ad accertare.
Segue come corollario di ciò che si è detto fin qui che la censura dalla parte ricorrente non ha collegamento alcuno con la fonte normativa che ha orientato la decisione del giudice del merito, sicché essa deve essere giudicata inammissibile.
6. Il secondo motivo d’impugnazione
Il secondo motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Violazione dell’art. 7 comma 3 D.Lgs. 546/1992, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.”.
La parte ricorrente assume che “la situazione descritta appare configurare a pieno titolo la fattispecie in cui assume rilievo l’uso del potere istruttorio (integrativo) d’ufficio, regolato dall’art. 7 D.Lgs. 546/1992”, e ciò sulla premessa che la controversia sia stata trattenuta in decisione (in grado di appello) il 26.10.2005, vale a dire anteriormente all’abrogazione del comma 3 art. 7 a mezzo dell’art. 3 bis comma 5 del D.L. n. 203 del 2005 (in vigore dal 3.12.2005).
Ma la premessa su cui è fondato il motivo di impugnazione non trova conforto nella realtà del processo.
Ed invero già dal frontespizio della sentenza impugnata risulta che la decisione fu pronunciata il 19.1.2006 (senza che nella narrativa dei fatti di causa emerga che il processo si è sviluppato per più di un’udienza), sicché è gioco forza concludere che il comma 3 dell’art. 7 era già stato abrogato al momento in cui la CTR del Veneto ebbe a pronunciare la propria decisione.
Il motivo di impugnazione risulta perciò inammissibile, perché fondato su una norma non più vigente al momento dell’adozione della decisione impugnata.
6. Il terzo motivo d’impugnazione.
Il terzo motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Omessa motivazione su fatti controversi e decisivi, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.”.
Con detto motivo la parte ricorrente censura la seconda delle ratio decidendi, ad abundatiam valorizzata dal giudice del merito, e cioè la nullità del provvedimento impositivo per essere stato fondato su documenti reperiti in locali in relazione ai quali non era estendibile l’autorizzazione rilasciata dall’Autorità Giudiziaria, perché luogo di privata abitazione di soggetto diverso dall’amministratore legale della società.
Si tratta di censura che resta assorbita dal rigetto di quelle relative alla prima delle ratio dicendi, atteso che anche in ipotesi di suo accoglimento la decisione impugnata avrebbe comunque la forza di resistenza idonea ad impedirne la cassazione.
La regolazione delle spese di lite può essere informata al criterio della compensazione tra le parti, attesa la peculiarità delle questioni dedotte in controversia.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso. Compensa integralmente tra le parti le spese di questo grado.
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