CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 marzo 2013, n. 6501
Lavoro – Lavoro subordinato – Estinzione del rapporto – Licenziamento – Uso di documenti riservati dell’azienda per esposto – Non sussiste.
Svolgimento del processo
Con sentenza depositata il 29.12.08 la Corte d’appello di Napoli rigettava il gravame contro la pronuncia con cui il Tribunale della stessa sede aveva respinto la domanda di E.R. intesa ad ottenere la reintegra nel proprio posto di lavoro presso la S.S. S.r.l. previa dichiarazione di nullità del licenziamento disciplinare intimatogli il 28.5.03 in quanto discriminatorio e ritorsivo e comunque privo di giusta causa o giustificato motivo.
L’addebito riguardava l’avere il lavoratore diffamato la società presentando, insieme con altri cinque dipendenti della stessa, un esposto alla Procura della Repubblica di Napoli – corredato da documenti aziendali – per irregolarità che sarebbero state commesse dalla S.S. S.r.l. in relazione all’appalto per la manutenzione dei semafori cittadini, per altro senza averle previamente segnalate ai superiori gerarchici.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre il R. affidandosi a cinque motivi.
La S.S. S.r.l. resiste con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1.1. – Preliminarmente va disattesa l’eccezione, sollevata dalla S.S. S.r.l, di inammissibilità del ricorso perché non rispettoso del requisito di cui all’art. 366 bis c.p.c. (applicabile ratione temporis al caso di specie) e contenente mere censure in punto di fatto, in quanto tali estranee alla presente sede.
Al contrario, da un lato i quesiti risultano correttamente formulati, dall’altro il ricorrente sollecita un consentito sindacato sulla ripartizione dell’onere probatorio in caso di licenziamento e sull’interpretazione di norme cd. elastiche come quelle in tema di giusta causa o giustificato motivo.
È noto che, a differenza delle norme a contenuto certo o definitorio, ovvero a “struttura rigida”, quelle cd. elastiche sono norme a variabile contenuto assiologico, che richiedono all’interprete giudizi di valore su regole o criteri etici o di costume o proprie di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici.
Gli esempi sono innumerevoli: oltre ai concetti di giusta causa o di giustificato motivo si pensi, ad esempio, a quelli di buona fede nelle trattative, interesse del minore, concorrenza sleale, vincolo pertinenziale, carattere creativo dell’opera dell’ingegno, importanza dell’inadempimento, danno ingiusto, stato di bisogno etc.
Mentre l’interpretazione delle norme a struttura rigida o definitoria non pone seri problemi di delimitazione del sindacato di legittimità, ben più difficoltoso è il distinguere giudizio di fatto e giudizio di diritto quando si passi ad interpretare norme elastiche o clausole generali (entrambe le locuzioni possono adoperarsi fungibilmente, come altre di analoga valenza).
La soluzione implica una brevissima digressione (senza alcuna pretesa di esaustività) sulla natura dell’interpretazione nomofilattica, muovendo dalla giurisprudenza di questa S.C. proprio in tema di giusta causa di licenziamento e proporzionalità tra infrazione disciplinare e sanzione.
Come altre volte statuito (v., solo fra le più recenti, Cass. 26.4.2012 n. 6498; Cass. 2.3.2011 n. 5095; Cass. 13.12.2010 n. 25144), si tratta di nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo, configura attraverso disposizioni, di minimo contenuto definitorio, che delineano un modulo generico che ha bisogno di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro violazione o mancata applicazione è, quindi, denunciabile in sede di legittimità, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza e ricostruzione dei fatti che specificano il parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di merito, incensurabile innanzi alla Corte Suprema se privo di errori logici o giuridici.
Pertanto, l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare norme elastiche come quelle in discorso non sfugge alla verifica in sede di legittimità, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento (soprattutto, ma non solo, dai principi costituzionali).
L’opinione contraria non solo sottrarrebbe all’opera di nomofilachia proprio le norme (quelle cd. elastiche) che più esprimono l’assetto valoriale d’un dato ordinamento giuridico e che, proprio per la loro marcata variabilità assiologica, più di altre necessitano di un’unificazione interpretativa, ma ridurrebbe l’attività della Corte Suprema alla mera individuazione, a livello generale, del significato da assegnare al testo normativo, al punto che la soluzione nel caso concreto sottopostole sarebbe solo un effetto secondario della prima operazione, quasi un non voluto sottoprodotto.
Addirittura, estremizzando, si è sostenuto da parte di certa dottrina che la nomofilachia sarebbe una funzione a sé, esterna all’area giurisdizionale propriamente detta ed analoga all’attività dottrinale, perché l’analisi del caso singolo sarebbe utile al solo fine di mettere alla prova l’interpretazione, fermo restando – però – che l’opera di nomofilachia consisterebbe pur sempre nella formulazione in termini generali del significato della norma.
È chiara l’opzione culturale di tale affermazione, che privilegia il profilo meramente cognitivo: ma essa coglie solo una parte del vero, nel senso che l’interpretazione meramente descrittiva di significato è attività ermeneutica monca se non completata dalla verifica della correttezza dell’operazione di sussunzione effettuata dal giudice di merito.
Per meglio dire, quella puramente e semplicemente descrittiva di significato non è un’attività di interpretazione propria del diritto, ma è comune a qualsivoglia branca del sapere.
Solo l’interpretazione mediante opera di sussunzione del caso concreto nella portata regolatrice della norma è attività prettamente giurisdizionale. L’analisi del fatto non è un mero strumento di verifica della tenuta dell’interpretazione descrittiva, ma funge da completamento e definizione (nel senso di una sorta di regolamento “dei confini”) dell’interpretazione conoscitiva e decisoria accolta.
Invero, a differenza dell’interpretazione dottrinale, quella giurisprudenziale non si riduce mai ad un’interpretazione meramente descrittiva di significato e ciò perché il giudice – anche a livello di Corte Suprema – non può limitarsi a prendere atto dei possibili molteplici significati della norma, dovendo pur sempre preferirne uno in base alla sua idoneità a risolvere la controversia, secondo una scelta di valore determinata non da mere convinzioni personali, ma dalla coerenza con gli altri valori presenti nell’ordinamento.
A sua volta l’interpretazione decisoria – e quella dei giudici è sempre tale – si svolge in due passaggi: il primo consiste nel riformulare un enunciato e, perciò, tale interpretazione viene concettualmente equiparata alla traduzione, nel senso che stabilisce una relazione sinonimica tra un enunciato del linguaggio legislativo e uno del linguaggio dottrinale o giurisprudenziale.
Il passaggio ulteriore, quello di sussunzione, consiste nell’applicare ad un singolo caso controverso la norma previamente individuata in sede di interpretazione in astratto.
In termini sostanzialmente analoghi si esprimono sia la teoria analitica sia quella ermeneutica dell’interpretazione: interpretare un testo normativo non vuol dire descrivere ciò che esso rivela, ma ascrivere ad esso un contenuto semantico, che non si trova già preconfezionato nella norma, ma ha bisogno dell’opera dell’interprete che lo sceglie – appunto – tra i molteplici significati possibili attraverso un procedimento dialettico in cui norma, fattispecie astratta e fatto interagiscono.
In sintesi, quella nomofilattica della S.C. è un’interpretazione giurisprudenziale (anche) decisoria, inizialmente non dissimile da quella del giudice di merito.
Ciò che la rende peculiare rispetto all’interpretazione svolta a livello di merito è -invece – la ricerca di un’armonizzazione tra diversi enunciati affinché nel loro insieme “facciano sistema”, ossia stabiliscano le condizioni di base di una uniforme interpretazione giurisprudenziale, valore servente rispetto a quello, primario, dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (o, rectius, di fronte al diritto).
Tale premessa è sicuramente più coerente con l’opinione tradizionale (che risale ai più autorevoli studi che siano stati compiuti sulla funzione delle Corti Supreme) secondo cui spetta al giudice di legittimità verificare se il fatto ricostruito in sede di merito sia stato correttamente ricondotto alla norma poi applicata. Non a caso, tanto l’art. 360 c.p.c. quanto l’art. 606 c.p.p. rendono denunciabile per cassazione non solo la violazione o l’inosservanza di norme di diritto, ma anche la loro falsa applicazione.
Prova ne sia che – come osservato in dottrina – non di rado la legge (quindi una fonte del diritto) sostituisce le clausole generali contenute in un dato testo normativo con più precisi enunciati che riproducono proprio quelli giurisprudenziali sedimentatisi nell’interpretarle.
Sempre nella medesima prospettiva il discrimine tra giudizio di fatto e giudizio di diritto è stato individuato nella distinzione tra ricostruzione storica (assoggettata ad un mero giudizio di fatto) e giudizi di valore, sicché – sia detto in breve – ogni qual volta un giudizio apparentemente di fatto si risolva, in realtà, in un giudizio di valore, come nel caso in esame, si è in presenza d’una interpretazione di diritto, in quanto tale attratta nella sfera d’azione della Corte Suprema.
Sempre nella vicenda in oggetto si perviene a conclusioni analoghe anche alla luce della teoria teleologica (di origine tedesca), secondo la quale il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato nei casi in cui i giudizi sussuntivi gli consentano di formulare principi generali suscettibili, in futuro, di essere utilizzati come precedenti, vale a dire quando il caso concreto presenti caratteri sufficientemente tipici e, quindi, ripetibili.
Ed è innegabile, come meglio sarà evidenziato nel prosieguo di motivazione, che i contorni della presente controversia si prestano a tale operazione.
2.1. – Con il primo motivo di ricorso si lamenta omessa valutazione della violazione dei principi generali di correttezza e buona fede commessa dalla S.S. S.r.l., per aver attivato l’iniziativa disciplinare sulla base di un documento (munito del timbro di deposito in Procura) che afferma esserle pervenuto in via anonima.
Con il secondo motivo si deduce violazione degli artt. 2697 c.c. e 5 legge n. 604/66, nonché vizio di motivazione, per avere l’impugnata sentenza rigettato il gravame del R. sul rilievo che questi non avrebbe provato il carattere ritorsivo del licenziamento; si lamenta altresì l’affermazione della Corte territoriale secondo cui il ricorrente avrebbe, invece, voluto gettare discredito sull’azienda, intento – quest’ultimo – su cui il R. deduce non essere stata svolta alcuna attività istruttoria e la cui prova negativa gli è stata illegittimamente addossata; né – si afferma in ricorso – la sentenza ha motivato sulla prova dell’asserita responsabilità del R. per l’appropriazione di documentali aziendali e per la mancata segnalazione ai superiori dei fatti poi oggetto di esposto in sede penale.
Con il terzo motivo si denuncia violazione dell’art. 7 legge n. 300/70 in ordine alla mancata affissione in azienda del cd. codice disciplinare, mancata affissione che pur era stata provata, come riconosciuto dalla stessa sentenza di primo grado.
Con il quarto motivo si deduce violazione dei principi generali in materia di legittimo esercizio dei propri diritti, avendo la Corte territoriale disatteso la costante giurisprudenza di questa S.C. secondo cui nell’esercizio del proprio diritto di difesa il lavoratore può riprodurre documenti aziendali, anche riservati; e – prosegue il ricorrente – se ciò è consentito in un giudizio civile, a maggiore ragione deve esserlo in uno penale, considerato che il R., proprio per la posizione lavorativa ricoperta, avrebbe potuto essere incolpato delle irregolarità denunciate.
Con il quinto motivo ci si duole di violazione dell’art. 2106 c.c. per avere la Corte territoriale ritenuto che già soltanto la sottrazione di documenti aziendali e la mancata comunicazione ai superiori interrompesse in modo irreparabile il rapporto fiduciario tra le parti.
3.1. – Il primo motivo – al di là dell’essere basato su un elemento fattuale nuovo, secondo quel che lamenta la difesa della società controricorrente – è ad ogni modo infondato.
Nessuna norma di legge vieta che l’esercizio del potere disciplinare possa essere sollecitato (non anche provato, ovviamente) a seguito di scritti anonimi; il divieto di utilizzo di denunce anonime è disciplinato solo dagli artt. 240 e 333 c.p.p., in un’ottica – per altro – strettamente funzionale agli obiettivi e alle regole del processo penale, ma si tratta pur sempre d’un divieto di utilizzabilità a fini probatori, che non esclude l’avvio di successive indagini di polizia giudiziaria (cfr. Cass. pen. n. 28909 del 19.4.2011, dep. 20.7.2011).
Inoltre, poiché le clausole generali di correttezza e buona fede costituiscono un metro di valutazione dell’adempimento degli obblighi contrattuali e non anche una loro autonoma fonte, il loro rispetto da parte del datore di lavoro non viene in rilievo quando, come nel caso di specie, la materia del contendere verta (come nel caso di specie) sull’adempimento o meno degli obblighi del dipendente.
1.2. – Il secondo e il quarto motivo di ricorso – da trattarsi congiuntamente perché connessi – sono fondati.
Il carattere ritorsivo d’un licenziamento costituisce eccezione da sollevarsi da parte del lavoratore, trattandosi di fatto impeditivo del diritto del datore di lavoro di avvalersi di una giusta causa o d’un giustificato motivo di recesso pur formalmente apparenti.
Ciò spiega la giurisprudenza di questa S.C. sull’onere del lavoratore, ex art. 2697 cpv. c.c., di provare il carattere ritorsivo del licenziamento.
Pertanto, proprio perché integra un’eccezione, l’eventuale mancanza di prova del carattere ritorsivo del recesso in tanto rileva in quanto risulti, invece, dimostrata la giusta causa o il giustificato motivo di cui agli artt. 1 e 3 legge n. 604/66.
In altre parole, l’asserito carattere ritorsivo o discriminatorio del licenziamento non vale ad esonerare il datore di lavoro dall’onere della prova a suo carico stabilito dall’art. 5 stessa legge n. 604.
Nel caso di specie, le sentenze di primo e secondo grado non menzionano prova alcuna della falsità delle accuse contenute nell’esposto presentato alla Procura della Repubblica da alcuni dipendenti della S.S. S.r.l. tra cui il R.; anzi, nell’affermare che incombe al lavoratore la prova del carattere ritorsivo del licenziamento, finiscono con il considerare di per sé lesiva, per la società, la presentazione dell’esposto, il che è avvalorato dall’ulteriore affermazione dei giudici del gravame secondo cui l’onere probatorio del datore di lavoro non può estendersi alla negazione delle accuse rivoltegli.
Si tratta di una falsa prospettiva: in tema di licenziamento l’oggetto della controversia risiede nell’accertare se il lavoratore si sia reso gravemente inadempiente rispetto ai propri doveri di subordinazione, diligenza e fedeltà e/o abbia posto in essere condotte extralavorative comunque tali da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario con il datore di lavoro.
Pertanto, se l’azienda non ha elementi che smentiscano il lavoratore e/o che ne dimostrino un intento calunnioso nel presentare una denuncia od un esposto all’A.G., deve astenersi dal licenziarlo, non potendosi configurare come giusta causa la mera denuncia di fatti illeciti commessi in azienda ancor prima che essi siano oggetto di delibazione in sede giurisdizionale.
Diversamente, si correrebbe il rischio di scivolare verso – non voluti, ma impliciti – riconoscimenti di una sorta di “dovere di omertà” (ben diverso da quello di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento.
In altre parole, non può nemmeno lontanamente ipotizzarsi che rientri fra i doveri del prestatore di lavoro il tacere anche fatti illeciti (da un punto di vista penale, civile od amministrativo) che egli veda accadere intorno a sé in azienda.
Ne deriva che il mero presentare un esposto o una denuncia all’A.G. non viola i doveri di diligenza, di subordinazione o di fedeltà (artt. 2104 e 2105 c.c.); quest’ultimo, in particolare, deve intendersi come divieto di abuso di posizione mediante condotte concorrenziali e/o violazioni di segreti produttivi (non già di segreti tout court, non meglio specificati).
Cosa diversa, invece, è una precipua volontà di danneggiare il proprio datore di lavoro mediante false accuse (è questo il senso della contestazione disciplinare mossa al ricorrente, per come riportata dalla stessa difesa della società controricorrente).
Ma è pur sempre necessario, ai sensi dell’art. 5 legge n. 604/66, che risulti dimostrata la mala fede del lavoratore, cosa che nella vicenda in esame non può ritenersi insita neppure nell’eventuale archiviazione del suo esposto.
In primo luogo, di tale archiviazione non v’è traccia nella motivazione delle sentenze di primo e secondo grado, ma solo nelle difese della S.S. S.r.l.; in secondo, le ragioni d’una archiviazione possono essere innumerevoli e non necessariamente implicanti dolo da parte del denunciante (difetto di una condizione di procedibilità; intervenuta prescrizione del reato; sopravvenuta abolitio criminis; sussistenza storica dei fatti e loro illiceità, civile od amministrativa, ma non anche penale perché non coincidono esattamente con il paradigma di una delle fattispecie incriminatici previste dalla legge; mera mancanza di prova dell’elemento soggettivo del reato denunciato; esistenza di una causa di giustificazione o di una causa di non punibilità; inimputabilità del reo età).
Nel caso di specie, giova ribadire, le sentenze di primo e secondo grado non hanno affermato l’esistenza di prove d’una qualche mala fede del R. nel presentare denuncia all’A.G., ma si sono limitate a ritenere non dimostrato il carattere ritorsivo del licenziamento (del che si è già detto).
Va poi escluso in punto di diritto che il denunciare od esporre all’A.G. fatti potenzialmente rilevanti in sede penale sia contegno extralavorativo comunque idoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro, vuoi perché si tratta di condotta lecita e certamente non contraria ai doveri civili (è addirittura penalmente doverosa nelle ipotesi di obbligo di denuncia o di referto: cfr. artt. 361 e ss. c.p.), vuoi perché il rapporto fiduciario in questione concerne l’affidamento del datore di lavoro sulle capacità del dipendente di adempiere l’obbligazione lavorativa e non già sulla sua capacità di condividere segreti non funzionali alle esigenze produttive e/o commerciali dell’impresa.
Residuano gli altri due addebiti mossi al R., ossia il non aver comunicato ai superiori gerarchici le anomalie rilevate nonché l’essersi impossessato di documenti aziendali per depositarli presso la Procura della Repubblica a corredo dell’esposto.
Orbene, quanto al primo addebito, si noti che, nel momento in cui afferma che il ricorrente avrebbe avuto la possibilità di informare per iscritto i propri superiori e non soltanto oralmente (come il R. sostiene di aver fatto), l’impugnata sentenza ancora erroneamente addossa al lavoratore l’onere di provare l’insussistenza dell’addebito disciplinare (il che contrasta con il cit. art. 5 legge n. 604/66).
Ma – e ciò è dirimente – la Corte territoriale non ha neppure chiarito donde possa ricavarsi, nelle fonti contrattuali della disciplina del rapporto lavorativo de quo, un generale dovere, in capo al lavoratore, di non denunciare alcunché (di quanto avvenuto in azienda) senza prima informarne per iscritto od oralmente i propri superiori.
Né esso si rinviene nelle fonti legislative del rapporto di lavoro, neppure sotto forma di leale collaborazione e/o di fedeltà, pur sempre funzionali (come s’è detto) all’utile risultato produttivo o comunque a legittimi interessi aziendali e non certo a coprire ipotetici illeciti.
Ed infatti, in un caso analogo a quello in oggetto, questa Corte Suprema ha statuito (v. Cass. 16.1.2001 n. 519) che l’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. permane esclusivamente rispetto ad attività lecite dell’imprenditore (in quel caso la sentenza di merito, confermata in sede di legittimità, ha escluso che costituisca inadempimento del suddetto obbligo l’avere il dipendente fotocopiato la distinta di una spedizione di merce venduta a terzi dalla società datrice di lavoro senza la relativa documentazione fiscale e l’aver poi trasmesso la suddetta fotocopia alla Guardia di finanza).
Quanto ai documenti aziendali allegati alla denuncia, l’impugnata sentenza non chiarisce se si trattava di mere fotocopie e/o di documenti in originale d’un qualche rilievo per l’azienda, mentre il ricorrente ha sostenuto trattarsi di documenti comunque destinati al macero (affermazione che la Corte territoriale riporta, ma non smentisce né conferma).
A questo punto il discorso coinvolge anche le argomentazioni svolte nel quarto motivo di ricorso.
Ora, questa S.C. (cfr. Cass. 8.2.11 n. 3038; Cass. 7.7.04 n. 12528; Cass. 4.5.02 n. 6420) ha avuto modo di statuire che il lavoratore che produca in una controversia di lavoro copia di atti aziendali riguardanti direttamente la propria posizione lavorativa non viene meno ai doveri di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.; infatti, da un lato la corretta applicazione della normativa processuale in materia è idonea a impedire una vera e propria divulgazione della documentazione aziendale, dall’altro, in ogni caso, al diritto di difesa deve riconoscersi prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di riservatezza dell’azienda, che nel caso di specie non risultano neppure allegate.
A maggior ragione, dunque, il lavoratore può produrre tali documenti a corredo d’un esposto o di una denuncia penale, dovendo precostituirsi la dimostrazione di aver agito con cognizione di causa per evitare rischi di incriminazione per calunnia, a tal fine potendo non rivelarsi sufficiente la mera indicazione all’A.G. dell’esistenza dei documenti medesimi affinché provveda ad acquisirli (nel frattempo potrebbero venire distrutti od occultati).
A riguardo si tenga presente che il diritto di difesa costituzionalmente garantito dall’art. 24 Cost. sussiste anche in capo a chi non abbia ancora assunto la qualità di parte in un procedimento penale: basti pensare al diritto alle investigazioni difensive ex artt. 391 bis e ss. c.p.p., alcune delle quali possono esercitarsi anche prima dell’eventuale instaurazione d’un procedimento penale (cfr. art. 391 nonies c.p.p.), oppure ai poteri processuali della persona offesa, che – ancor prima di costituirsi, se del caso, parte civile – ha il diritto, nei termini di cui agli artt. 408 e ss. c.p.p. – di essere informata dell’eventuale richiesta di archiviazione, di proporvi opposizione e, in tal caso, di ricorrere per cassazione contro il provvedimento di archiviazione che sia stato emesso de plano, senza previa fissazione dell’udienza camerale. Nel caso dei documenti allegati a corredo d’una denuncia o d’un esposto all’A.G. sussiste, anzi, un vero e proprio diritto/dovere del denunciante od esponente di confortare (in via documentale o con altri mezzi) le proprie affermazioni.
Dunque, neppure tale addebito può integrare il concetto di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento, rispondendo la condotta in discorso alle necessità conseguenti al legittimo esercizio d’un diritto/dovere e, quindi, essendo coperta dall’efficacia scriminante prevista dall’art. 51 c.p., di portata generale nell’ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico (e su ciò dottrina e giurisprudenza sono, com’è noto, da sempre concordi).
3.2. – L’accoglimento del secondo e del quarto motivo di ricorso assorbe la disamina del terzo e del quinto.
4.1. – In conclusione, deve rigettarsi il primo motivo di ricorso, mentre vanno accolti il secondo e il quarto, con assorbimento del terzo e del quinto; per l’effetto, si cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con rinvio, anche per le spese, alla Corte d’appello di Napoli in diversa composizione, che dovrà attenersi ai principi di diritto qui di seguito enunciati:
“L’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare, ex art. 5 legge n. 604/66, l’esistenza di giusta causa o giustificato motivo del recesso; solo ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’illiceità del motivo unico e determinante (l’intento ritorsivo) che si cela dietro il negozio di recesso”;
“Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l’aver il dipendente reso noto all’A.G. fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l’azienda in cui lavora né l’averlo fatto senza averne previamente informato i superiori gerarchici, sempre che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o dell’esposto”;
“Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l’aver il dipendente allegato alla denuncia o all’esposto documenti aziendali”.
P.Q.M.
Rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo e il quarto, dichiara assorbiti il terzo e il quinto, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Napoli in diversa composizione.
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