Corte di Cassazione sentenza n. 6560 del 27 aprile 2012
RAPPORTO DI LAVORO – IMPIEGO PUBBLICO – INCARICHI – INCOMPATIBILITA’ – CUMULO DI IMPIEGHI E INCARICHI
massima
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È legittimo il licenziamento di un lavoratore che svolge attività lavorativa incompatibile con lo status di pubblico dipendente.
In generale, per il pubblico impiego, il tema del “cumulo di impieghi e incarichi” è regolato dall’art. 53 del D.Lgs. n. 165/2001 che prevede che le pubbliche amministrazioni non possano conferire ai dipendenti incarichi, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, che non siano espressamente previsti o disciplinati da legge o da altre fonti normative, o che – Cons. Stato, Sez. IV, 22/06/2011, n. 3795 – non siano espressamente autorizzati (comma 2); è previsto sia il conferimento operato direttamente dall’amministrazione che l’autorizzazione all’esercizio di incarichi che provengano da amministrazione diversa, come anche da società o persone fisiche (comma 5).
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza di prime cure che aveva rigettato la domanda, proposta da G. T. nei confronti dell’Agenzia del Territorio Regionale del Lazio, avente ad oggetto la declaratoria di legittimità del licenziamento intimatogli dall’Agenzia suddetta.
La corte territoriale premetteva in fatto che il lavoratore, dipendente a tempo determinato dell’Agenzia, era stato licenziato in relazione alle seguenti contestazioni: l’aver consegnato ad una persona estranea all’ufficio la copia di una visura estratta per uso ufficio omettendo di incamerare, a favore dell’amministrazione, i diritti concernenti la suddetta attività e l’aver richiesto alla persona stessa il pagamento a suo favore della somma di € 20; l’aver utilizzato e portato fuori dall’ufficio, per fini privati, la pratica relativa alla voltura di un immobile; l’aver violato il divieto di svolgere attività di lavoro autonomo o subordinato, divieto previsto per i dipendenti pubblici dall’art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001. Ciò premesso la Corte riteneva provate, sulla base delle deposizioni testimoniali acquisite, le circostanze oggetto della contestazione. Riteneva inoltre infondata la censura concernente l’escussione del teste M. su circostanze non specificamente dedotte nel capitolo di prova richiamando i poteri del giudice di cui all’art. 421 c.p.c. Sotto altro profilo considerava priva di pregio giuridico la censura sulla modifica della contestazione osservando che la contestazione originaria conteneva elementi sufficienti a giustificare Il licenziamento. Quanto alla disciplina degli artt. 25 e 23 del contratto collettivo, che prevedono le ipotesi di recesso del datore di lavoro, osservava che le citate disposizioni contrattuali non potevano ritenersi esaustive dei comportamenti suscettibili di licenziamento.
Per la cassazione dalla sentenza propone ricorso il T. affidato a tre motivi Illustrati da memoria. L’Agenzia del Territorio resiste con controncorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Col primo motivo il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 421, 253 e 257 c.p.c., dell’art. 2697 c.c., del principio dell’immutabilità della contestazione degli addebiti, dell’art. l, comma 60, della legge n. 662 del 1996, come modificato dall’art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001. Ribadisce gli argomenti, già esposti in sede di appello, concernenti la violazione, da parte del primo giudice, delle norme in materia di prova, con particolare riferimento all’escussione di un teste M. su circostanze diverse da quelle per cui era stato chiamato a deporre; sottolinea altresì che non era stata adeguatamente valutata la circostanza che il suddetto teste aveva dichiarato di avere un contenzioso penale nei confronti del lavoratore e che comunque lo stesso teste aveva riferito su circostanze apprese da terzi. Sotto altro profilo, con riferimento alla contestazione dell’addebito, il ricorrente contesta la decisione impugnata in relazione all’omessa valutazione della differente formulazione della lettera di licenziamento rispetto alla lettera di contestazione degli addebiti. Infine, con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 53 D.Lgs. n. 165 del 2001, il ricorrente sostiene che non era stata provate la violazione del comma 60 della legge n. 662 del 1996 richiamato dal successivo comma 61; mancavano infatti gli accertamenti ispettivi e la prova dell’abitualità dell’ attività.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro con particolare riferimento agli artt. 25 e 23. In particolare la Corte territoriale avrebbe disatteso la disposizione contenuta nel citato art. 25 che impone il rispetto dei principi di gradualità e proporzionalità della sanzione in relazione alla gravità della mancanza.
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio e travisamento della prova. Il motivo è centrato, in particolare, sull’attendibilità del teste menzionato nel primo motivo.
Tutti i suddetti motivi, che devono essere esaminati congiuntamente in quanto logicamente connessi, sono infondati.
Deve premettersi che, secondo un principio costantemente enunciato da questa Suprema Corte (cfr., ex plurimis, Cass.21 luglio 2010 n. 17097; Cass. 7 gennaio 2009 n. 42) l’esame e la valutazione delle risultanze delle deposizioni dei testimoni, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata. Ne consegue che il controllo di legittimità da parte della Corte di cassazione non può riguardare il convincimento del giudice di merito sulla rilevanza probatoria degli elementi considerati, ma solo la sua congruenza dal punto di vista dei principi di diritto che regolano la prova (Cass. 1 settembre 2003 n. 12747). Sotto altro profilo è stato osservato (Cass. 15 aprile 2011 n. 8767) che, al fine di adempiere all’obbligo della motivazione, il giudice del merito non è tenuto a valutare singolarmente tutte le risultanze processuali ed a confutare tutte le argomentazioni prospettate dalle parti, essendo invece sufficiente che egli, dopo aver vagliato le une e le altre nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare Il proprio convincimento, dovendosi ritenere disattesi, per implicito, tutti gli altri rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata.
Nel caso in esame la Corte territoriale ha motivato in modo adeguato e privo di vizi logici sulle ragioni che l’hanno indotta a ritenere provate le circostanze poste a fondamento del provvedimento espulsivo. Ha in particolare esaminato criticamente l’esito delle prove testimoniali dando conto delle ragioni per cui ha ritenuto di attribuire particolare valore probatorio alla deposizione dei testi N. e M. In questo contesto le censure di parte ricorrente concernenti l’erronea valutazione delle risultanze istruttorie (parte del primo motivo) ed il vizio di motivazione (terzo motivo), lungi dal dimostrare l’incongruenza di tale valutazione, ripropongono sostanzialmente a questa Corte di legittimità una nuova e diversa valutazione delle prove, il che è inammissibile atteso che nel procedimento civile il controllo di legittimità sulle pronunzie dei giudici di merito demandato alla Corte Suprema di Cassazione non è configurato come terzo grado di giudizio, nel quale possano essere ulteriormente valutate le emergenze istruttorie acquisite nella fase di merito (cfr., ad esempio, Cass. 26 gennaio 2004 n. 1317). Ed infatti il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360, comma primo, n. 5) c.p.c., non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che deve escludersi ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (cfr., fra le tante, Cass. 6 marzo 2006 n. 4766).
Per quanto concerne poi la censura basata sulla circostanza che il teste M. sarebbe stato escusso anche su circostanze non specificamente indicate nei capitoli di prova dedotti, la Corte di merito ha correttamente invocato i principi di cui all’art. 421 c.p.c. che attribuisce al giudice del lavoro poteri istruttori esercitabili d’ufficio. In particolare la sentenza impugnata costituisce coerente applicazione dell’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte di legittimità (Cass. S.U. 17 giugno 2004 n. 11353) secondo cui con la norma di cui all’art. 421, secondo comma c.p.c. si è inteso affermare che è caratteristica precipua del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma ha il potere dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione. Sul punto cfr., altresì, Cass. 24 ottobre 2007 n. 22305.
Anche la censura fondata sull’assunto di una presunta diversità fra a lettera di contestazione e la motivazione posta a base del provvedimento di recesso è priva di fondamento. La Corte di merito ha infatti sottolineato che il licenziamento era stato intimato in relazione allo svolgimento, da parte del T. , di attività lavorativa incompatibile con lo status di pubblico dipendente e che a tale comportamento aveva fatto esplicito riferimento anche la lettera di contestazione. Il fatto che nella lettera di licenziamento non si trova alcun riferimento ad uno specifico episodio (cd. P. ), menzionato, invece, nella lettera di contestazione non costituisce un mutamento della contestazione atteso che, come correttamente rilevato dalla Corte territoriale, tale episodio rientrava nel più generate motivo (sopra riferito) posto a base della lettera di recesso.
Analogamente è priva di pregio le censura fondata sul fatto che il giudice di prima istanza aveva attribuito rilievo all’abitualità del comportamento, abitualità che non era stata oggetto di contestazione. Ed infatti la Corte territoriale ha specificamente motivato sul punto osservando che il singolo episodio accertato, avendo integrato l’ipotesi di svolgimento di attività lavorativa incompatibile con lo status di pubblico dipendente, era tale da giustificare il recesso a prescindere dal requisito dell’abitualità.
Non sussiste, infine, alcuna violazione dell’art. 53 della legge n. 165 del 2001 atteso che l’accertamento della giusta causa può ben prescindere dall’effettuazione di accertamenti ispettivi e che il divieto di svolgere qualsiasi attività di lavoro subordinato o autonomo non implica necessariamente il carattere abituale della suddetta attività.
È infine inammissibile per assoluta genericità la censura di cui al secondo motivo Ed infatti, premesso che la Corte territoriale ha interpretato la disciplina collettiva di cui all’art. 25 nel senso che le ipotesi di comportamenti disciplinarmente rilevanti ivi previste non sono esaustive di tutti i comportamenti suscettibili di licenziamento, in quanto la norma stessa rinvia ai generali doveri del pubblico dipendente di cui all’art. 23, la censura non spiega le ragioni per cui tale interpretazione sarebbe erronea ed in particolare quale canone interpretativo sarebbe stato violato. Posto che, come è stato ripetutamente precisato dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità (cfr. ad esempio, Cass. 17 marzo 2005 n. 5892; Cass. 23 ottobre 2007 n. 22234), nelle controversie di lavoro concernenti i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ove sia proposto ricorso per cassazione per violazione e falsa applicazione dei contratti e degli accordi collettivi nazionali di cui all’art. 40 del D.Lgs. n. 165 del 2001 ai sensi dell’art. 63 comma quinto del medesimo decreto, la Corte di cassazione può procedere alla diretta interpretazione di tali contratti secondo i criteri di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., il motivo di ricorso, anziché limitarsi a proporre una autonoma interpretazione delle norme citate, avrebbe dovuto indicare il criterio interpretativo violato e spiegare il fondamento della ritenuta violazione.
Il ricorso deve essere in definitiva rigettato.
In applicazione del criterio della soccombenza il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 4000 per onorari, oltre spese prenotate a debito.
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