Corte di Cassazione a Sezioni Unite Sentenza n. 7506 del 15 maggio 2012
massima della sentenza
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E’ stata impartita la sanzione dell’avvertimento nei confronti di due avvocati che hanno usato espressioni sconvenienti nei confronti di una collega.
Posto che le previsioni del codice deontologico forense hanno la natura di fonte meramente integrativa dei precetti normativi e possono ispirarsi legittimamente a concetti diffusi e generalmente compresi dalla collettività, al fine di garantire l’esercizio del diritto di difesa all’interno del procedimento disciplinare che venga intrapreso a carico di un iscritto al relativo albo forense è necessario che all’incolpato venga contestato il comportamento ascritto – Cass. civ., Sez. Unite, 07/07/2009, n. 15852 – come integrante la violazione deontologica e non già il “nomen juris” o la rubrica della ritenuta infrazione, essendo libero il giudice disciplinare di individuare l’esatta configurazione della violazione tanto in clausole generali richiamanti il dovere di astensione da contegni lesivi del decoro e della dignità professionale, quanto in diverse norme deontologiche o anche di ravvisare un fatto disciplinarmente rilevante in condotte atipiche non previste da dette norme.
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RAPPORTO DI LAVORO – AVVOCATI – SANZIONE – PROCEDIMENTO E SANZIONI DISCIPLINARI
Svolgimento del processo
In data 16.3.2009 il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Padova infliggeva agli avv. E.P. e G.S. , difensori di E.M. nel giudizio instaurato davanti al Tribunale di Padova dall’avv. An.Sa. per la modifica delle condizioni di separazione personale nei confronti dalla moglie, la sanzione disciplinare dell’avvertimento, per violazione dei doveri di lealtà e correttezza nonché di quello relativo al divieto di espressioni sconvenienti ed offensive contro un collega, espressioni indirizzate all’avv. Si.Sc. che non era parte in causa nel procedimento.
La decisione, impugnata dai due interessati, veniva confermata dal Consiglio Nazionale Forense, che segnatamente rilevava come, pur essendo condivisibili le rappresentate esigenze difensive degli incolpati – consistenti nella necessità di resistere alle richieste di riduzione dell’assegno e di modificazione delle modalità di visita del figlio da parte della loro assistita -, le stesse non avrebbero dovuto indurre a fare ricorso ad espressioni e qualifiche “soggettivamente sgradevoli” (come ebbe a definirle il Tribunale) nei confronti del ricorrente e dell’avv. Sc. , estranea al giudizio, con ciò violando i principi della lealtà e della correttezza, oltre quello del rispetto nei confronti della controparte, del suo legale e dei terzi.
In particolare il Collegio rilevava come nell’ambito della strategia difensiva adottata sarebbero state superflue due notazioni, vale a dire la qualifica di amante dell’avv. Sa. attribuita all’avv. Sc. ed il richiamo alla posizione professionale rivestita da quest’ultima nella fase di avvio delle trattative per la separazione consensuale dei coniugi Sa. – M. (l’avv. Sc. avrebbe in un primo momento curato gli interessi della moglie), mentre le giustificazioni adottate al riguardo (contenuto del ricorso del Sa. , significato da attribuire alla parola “amante”, tradimento subito dalla M. ad opera dell’avv. Sc. ) non sarebbero state meritevoli di apprezzamento.
Avverso la detta decisione P. e S. proponevano ricorso per cassazione affidato ad un motivo, cui non resistevano gli intimati.
La controversia veniva quindi decisa all’esito dell’udienza pubblica del 3.4.2012.
Motivi della decisione
Con il motivo di impugnazione i ricorrenti hanno sollecitato la cassazione del provvedimento impugnato sulla base delle seguenti considerazioni: 1) le espressioni contestate sarebbero state forse poco felici, ma non offensive o denigratorie, ed il difforme giudizio manifestato sul punto sarebbe stato riconducibile alla qualità di legale del soggetto cui le frasi oggetto di incolpazione sono riferite;
2) la parola “amante” sarebbe stata utilizzata come aggettivo e non come sostantivo, in un contesto che, contrariamente a quanto ritenuto, non avrebbe avuto carattere denigratorio. D’altra parte il detto termine, ampiamente utilizzato nella pratica giudiziaria, avrebbe perso da tempo l’originario significato dispregiativo, circostanza da cui discenderebbe l’impossibilità di configurare, sia pure in via astratta ed ipotetica, l’illecito contestato;
3) la pregressa attività dell’avv. Sc. era stata evidenziata per rappresentare la tensione che avrebbe accompagnato la M. nello spiegare le proprie difese contro le iniziative giudiziarie del marito, sicché il relativo richiamo avrebbe dovuto essere considerato privo di ogni connotazione dispregiativa o offensiva.
Il ricorso è infondato.
Osserva al riguardo il Collegio che le violazioni addebitate agli odierni ricorrenti sono due, vale a dire quella concernente l’inosservanza dei doveri di lealtà e correttezza e quella consistente nell’utilizzazione di espressioni sconvenienti contro un collega estraneo al giudizio. In particolare gli elementi posti a base del giudizio di responsabilità sarebbero individuabili nell’aver i ricorrenti qualificato l’avv. Sc. come “amante” del Sa. e nell’aver gli stessi fatto espresso riferimento ai pregressi rapporti della prima con la moglie del Sa. , di cui era stata difensore nella prima fase della crisi coniugale, profili la cui fondatezza è stata censurata con i rilievi sopra riferiti. Si tratta tuttavia di doglianze attinenti esclusivamente alle valutazioni di merito effettuate dal Consiglio Nazionale Forense nella decisione contestata, valutazioni che risultano motivate e rispetto alle quali non emergono – e per vero non sono neppure direttamente prospettate violazioni della normativa vigente.
Il ricorso deve essere dunque rigettato, mentre nulla va disposto in ordine alle spese processuali poiché gli intimati non hanno svolto attività difensiva.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
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