CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 aprile 2013, n. 8693
Società di capitali – Società per azioni – In genere (nozione, caratteri, distinzioni) -Azioni – Dividendo – Esercizio del diritto – Modalità – Trasferimento delle azioni – Dividendo maturato ed esigibile anteriormente – Spettanza – All’acquirente dei titoli
Svolgimento del processo
Il Presidente del Tribunale di Ascoli Piceno, su istanza della s.p.a. S., ingiungeva alla s.p.a. A.I. il pagamento della somma di lire 52.360.000=, quale corrispettivo residuo di una fornitura di materiale elettronico avvenuta il 4 maggio 1992, con scadenza del pagamento al 3 luglio 1992. La società ingiunta proponeva opposizione, eccependo la compensazione del proprio debito con il maggior credito di lire 70.000.000 vantato a titolo di dividendo in virtù della deliberazione in data 27 aprile 1989 dell’assemblea della s.p.a. S., della quale essa opponente aveva detenuto una partecipazione azionaria sino al 2 luglio 1992. In via riconvenzionale la s.p.a. A. chiedeva la condanna della s.p.a. S. al pagamento della differenza tra gli importi dei crediti. Con sentenza del 17 novembre 2004 il Tribunale di Ascoli Piceno revocava il decreto ingiuntivo e condannava la s.p.a. S. al pagamento della somma di lire 17.640.000=.
La s.p.a. S. proponeva appello che la Corte di Ancona rigettava con sentenza del 15 aprile 2006, osservando, per quanto ancora interessa, che: 1) la disposizione (art. 4, comma secondo, della legge n. 1745/1962) che prevede l’esibizione dei titoli perché l’azionista, ancorché già iscritto nel libro soci, possa esigere il pagamento del dividendo è strumentale al procedimento di imposizione tributaria e non stabilisce una regola di incorporazione del diritto agli utili nel titolo azionario. Pertanto, la perdita del possesso delle azioni, per effetto della cessione della partecipazione azionaria, non influisce sulla titolarità del diritto agli utili già attribuiti; tale diritto, infatti, una volta entrato nel patrimonio dell’azionista rimane del tutto svincolato dall’ulteriore possesso del titolo; 2) il credito della s.p.a. A. non era inesigibile, come sostenuto dalla s.p.a. S., poiché il dividendo relativo all’esercizio 1988 non era oggetto dell’impegno – assunto dalla s.p.a. S. e dai suoi soci, tra i quali la s.p.a. T., poi divenuta s.p.a. A., in occasione di un finanziamento concesso dall’Istituto Mobiliare Italiano e in adesione alla richiesta deliberata dallo stesso Istituto in data 8 settembre 1989 – «a non effettuare distribuzioni né a valere sul capitale netto rilevato al 31 dicembre 1988, né sugli utili 1989-1990-1991».
In particolare, secondo la Corte di appello l’impegno faceva riferimento alla distribuzione di utili e non al pagamento di utili già distribuiti, regolando attività sociali future e non anche passate. Il termine “capitale netto” non poteva essere interpretato secondo precostituiti criteri giuridici e, ai sensi dell’art. 1369 c.c., doveva ritenersi come comprensivo delle sole riserve disponibili. In senso contrario non rilevava il fatto che la s.p.a. A. avesse richiesto il pagamento solo nel dicembre 1992, considerato che non risultava la durata dell’impegno a non distribuire e che probabilmente lo stesso aveva una durata decennale pari a quella del finanziamento; 3) non era incompatibile con la volontà di avvalersi della compensazione e non integravano, per difetto di univocità, gli estremi di una rinunzia tacita alla compensazione né il fatto che l’A. a fronte di una fornitura di merce pari a lire 274.890.000 avesse corrisposto un pagamento di lire 222.530.000 superiore alla somma risultante dalla differenza tra il debito ed il credito per dividendo né il fatto che in data 2 dicembre 1992 la s.p.a. A. avesse richiesto il pagamento dell’intero suo credito di lire 70.000.000 e non soltanto il pagamento della differenza con il residuo debito relativo alla fornitura ricevuta. Inoltre, trattandosi di comportamenti successivi all’epoca di consumazione della compensazione, si doveva escludere che ricorresse una ipotesi di rinunzia preventiva ex art. 1246 n. 4 c.c..
La s.p.a. S. propone ricorso per cassazione, deducendo nove motivi.
La s.p.a. A.l resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 4, comma 2, della legge n. 1745/1962 lamentando che la Corte di appello aveva erroneamente ritenuto che la cessione della proprietà e del possesso delle azioni non comportasse anche la cessione del diritto al pagamento del dividendo relativo alle azioni trasferite, anche se deliberato prima della cessione delle azioni.
Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 4, comma 2, della legge n. 1745/1962 lamentando che, indipendentemente dal trasferimento all’acquirente del relativo diritto, la Corte di appello aveva ritenuto possibile il pagamento del dividendo senza l’esibizione delle azioni alle quali lo stesso si riferisce.
Con il terzo motivo la ricorrente deduce il vizio della motivazione laddove la Corte di appello ha ritenuto che la s.p.a. T. aveva esibito i titoli al momento della partecipazione all’assemblea del 27 aprile 1989 che aveva deliberato la distribuzione degli utili; infatti, secondo la ricorrente dal relativo verbale risultava soltanto l’avvenuto deposito di azioni pari al 65% del capitale della S. e, quindi, tenuto conto che la partecipazione della T. era del 35%, le azioni non depositate erano proprio di quest’ultima, dato che gli altri cinque soci detenevano percentuali del capitale sociale (11,4% ovvero il 19,4%) la cui somma parziale in nessun caso poteva condurre ad una percentuale del 65%.
Con il quarto motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 4, comma 2, della legge n. 1745/1962 lamentando che la Corte di appello aveva erroneamente ritenuto che l’esibizione delle azioni non era necessaria ai fini del pagamento del dividendo se il richiedente aveva partecipato, previo deposito dei titoli, all’assemblea che aveva deliberato la distribuzione degli utili.
Subordinatamente al rigetto dei primi quattro motivi, la ricorrente formula le seguenti ulteriori doglianze. Con il quinto motivo deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. lamentando che la sentenza impugnata aveva omesso di pronunciare sulla eccezione di illiquidità, in quanto contestato, del credito portato in compensazione dalla s.p.a. A..
Con il sesto e con il settimo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’artt. 1362, commi 1 e 2, per avere interpretato come non esteso ai dividendi al 31 dicembre 1988 l’impegno «a non effettuare distribuzioni né a valere sul capitale netto rilevato al 31 dicembre 1988, né sugli utili 1989-1990-1991», malgrado il significato tecnico delle espressioni usate, malgrado il comportamento successivamente tenuto dalla s.p.a. A. che aveva richiesto il pagamento soltanto nel dicembre 1992 e malgrado la congruenza dell’impegno a non distribuire gli utili dell’esercizio 1988 con l’intento dell’IMI di assicurarsi a fini di garanzia l’integrità del patrimonio della s.p.a. S..
Con l’ottavo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 1369 c.c. lamentando che la sentenza impugnata aveva fatto ricorso al relativo criterio interpretativo in una situazione nella quale le espressioni usate avevano un significato univoco.
Con il nono motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 1367 c.c. lamentando che, ove la sentenza impugnata avesse inteso riferirsi a tale disposizione anziché a quella dettata dall’art. 1369 c.c., la Corte di appello erroneamente aveva trascurato la coerenza dell’estensione dell’impegno alla delibera di distribuzione degli utili.
2. Il primo, il secondo ed il quarto motivo possono essere esaminati congiuntamente, in quanto strettamente connessi, e sono fondati. Anzitutto, non si può condividere l’assunto della sentenza impugnata, secondo cui la legge n. 1745/1962 «nel suo complesso e le prescrizioni del suo art. 4 in particolare hanno esclusivamente contenuti e finalità di natura tributaria, e non già regolano neppure in via indiretta o strumentale, i rapporti patrimoniali tra società e socio». È vero, invece, che, sia pure per finalità tributarie, la legge in questione ha disciplinato incisivamente le modalità di esercizio del principale diritto patrimoniale, e cioè del diritto agli utili spettanti all’azionista dopo la delibera assembleare che ne ha deciso la distribuzione. Infatti, il secondo comma dell’art. 4 della legge n. 1745/1962 prevede che «l’azionista, ancorché iscritto già nel registro dei soci, non può esigere gli utili senza esibire i titoli …». È evidente, pertanto, che il solo fatto di essere titolare dell’azione per effetto di un trasferimento opponibile alla società perché iscritto nel registro dei soci non consente, secondo la menzionata disciplina, di riscuotere gli utili. La conferma può trarsi dal primo comma dello stesso art. 4, secondo cui, quando il titolo azionario è stato trasferito per girata, ha diritto al pagamento degli utili il giratario che se ne dimostra possessore in base ad una serie continua di girate.
Nella disciplina dettata dall’art. 3 del r.d.l. n. 1148/1941 era addirittura prevista la possibilità di una autonoma circolazione delle cedole azionarie, cioè dei documenti accessori numerati progressivamente e di volta in volta rappresentativi, tra l’altro, di diritti al dividendo o di diritti di opzione. In particolare, secondo l’opinione prevalente, le cedole di dividendo avevano natura giuridica di titoli di credito, anche se il contenuto del diritto al dividendo incorporato dalla singola cedola numerata non era predeterminato nella tipologia e, in caso di dividendo, nel suo ammontare ed era condizionato sospensivamente alla deliberazione di distribuzione degli utili. Vigendo tale regime, pertanto, la riscossione del dividendo era certamente subordinata al possesso della cedola e se questa non era separata (“staccata”) dal titolo il trasferimento di questo comportava il trasferimento del diritto al dividendo.
L’art. 3 citato è stato, tuttavia, abrogato dall’art. 20 della legge n. 1745/1962; conseguentemente le cedole non possono più circolare separatamente dal titolo ed i dividendi non possono essere esatti indipendentemente dal titolo stesso. Le cedole, pertanto, hanno assunto rilievo soltanto come documento che prova la non avvenuta riscossione del dividendo.
Sotto altro profilo si può osservare che dalla disciplina dettata dall’art. 1531 c.c. per i contratti a termine si ricava che quando le azioni vengono trasferite i dividendi maturati ma non ancora esigibili passano al compratore. È questa la ragione per cui il valore del dividendo distribuito, ma non ancora esigibile, è inglobato nella quotazione del titolo (cd. quotazione tel quel) mentre dopo la scadenza dalla quotazione del titolo è sottratta la somma corrispondente al dividendo scaduto (quotazione ex cedola). Si tratta, tuttavia, di una disciplina meramente dispositiva e le parti ben possono convenire di negoziare i titoli a condizioni diverse prevedendo in alternativa sia lo scorporo a favore del venditore dei dividendi non ancora distribuiti ovvero non ancora esigibili, sia la cessione al compratore anche dei dividendi scaduti e non riscossi.
Tali pattuizioni, tuttavia, sono destinate ad operare solo nei rapporti tra venditore ed acquirente dei titoli mentre nei rapporti con la società il diritto alla riscossione dei dividendi compete, indipendentemente dal momento in cui sono maturati, soltanto al giratario che se ne dimostra possessore in base ad una serie continua di girate ovvero al possessore del titolo che ne sia anche l’intestatario a seguito di una procedura di transfert (cioè la doppia annotazione del trasferimento sul titolo e sul libro soci), ai sensi dell’art. 2022 cod. civ.
La disciplina descritta è tuttora vigente e la sua applicazione è esclusa soltanto, ma l’ipotesi non ricorre nella specie, per i titoli ammessi alla gestione accentrata, per i quali è stata prima prevista la gestione dematerializzata (legge n. 289/1986) e poi direttamente la dematerializzazione del titolo (d. lgs. n. 213/1998). Significativamente, l’art. 2355 cod. civ., nel testo successivo alla riforma del 2003, continua a prevedere che il possesso dei titoli azionari, quando ne sia prevista l’emissione, conferisce la legittimazione all’esercizio dei diritti sociali al giratario che possa vantare una serie continua di girate.
In conclusione, la disciplina delle modalità di esercizio del diritto al dividendo dettata dall’art. 4 della legge n. 1745/1962, e tuttora applicabile quando si tratta di società non ammesse alla gestione accentrata e quando i titoli siano stati concretamente emessi, non consente a chi ha trasferito le azioni di riscuotere il dividendo maturato e diventato esigibile prima del trasferimento; la riscossione del dividendo, infatti, richiede necessariamente, anche nel caso in cui dal libro soci risulti la qualità di socio al momento della esigibilità del dividendo, il possesso del titolo sulla base di una serie continua di girate o sulla base di un transfert. Il dividendo, pertanto, può essere riscosso soltanto dall’acquirente dei titoli e la società resta estranea agli eventuali accordi tra lo stesso acquirente ed il venditore in ordine alla attribuzione del dividendo.
La sentenza impugnata deve essere, pertanto, cassata in relazione ai motivi accolti. Poiché non sono necessari ulteriori accertamenti questa Corte, decidendo nel merito, rigetta l’opposizione a decreto ingiuntivo e la domanda riconvenzionale proposte dalla s.p.a. A..
Soccorrono giusti motivi, in considerazione della novità della questione, per compensare le spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il primo, il secondo ed il quarto motivo; dichiara assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e, decidendo nel merito, rigetta l’opposizione a decreto ingiuntivo e la domanda riconvenzionale proposte dalla s.p.a. A. Italia; compensa le spese dell’intero giudizio.
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