Corte di Cassazione sentenza n. 9067 del 15 aprile 2013
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – CESSAZIONE DEL RAPPORTO – TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO – LAVORO PRESTATO ALL’ESTERO – APPLICAZIONE AL RAPPORTO DELLA LEGGE STRANIERA – ESCLUSIONE DEL TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO – CONTRASTO CON L’ORDINE PUBBLICO INTERNAZIONALE – CONFIGURABILITA’ – ESCLUSIONE
massima
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Non contrasta con l’ordine pubblico internazionale un contratto individuale di lavoro che debba essere eseguito all’estero e che – avendo le parti dichiarato applicabile la legge straniera – escluda il trattamento di fine rapporto (Nel caso di specie, la Suprema Corte ha confermato la sentenza impugnata con la quale la corte distrettuale aveva respinto anche in grado di appello la domanda di pagamento del trattamento di fine rapporto avanzata nei confronti del datore di lavoro da un lavoratore italiano per il lavoro prestato negli Stati uniti sul presupposto che tale emolumento non era previsto dalla legislazione statunitense non potendosi configurare detta esclusione contraria a norme di ordine pubblico dell’ordinamento italiano).
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza depositata il 21.9.07 la Corte d’appello di Roma rigettava il gravame interposto da R.P. contro la sentenza del Tribunale capitolino che aveva respinto la sua domanda di pagamento del TFR per il lavoro svolto all’estero (U.S.A.) alle dipendenze di A. – L.A.I. S.p.A.
Statuivano i giudici del merito che il TFR era emolumento non previsto dalla legislazione statunitense cui il rapporto era stato assoggettato e che la sua esclusione non poteva considerarsi contraria a norme di ordine pubblico dell’ordinamento italiano.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre il R.P. affidandosi a due motivi.
L’intimata A. – L.A.I. S.p.A. non ha svolto attività difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1 – Con il primo motivo di ricorso si lamenta vizio di motivazione nella parte in cui l’impugnata sentenza ha ritenuto di ordine pubblico soltanto le norme che assicurano una retribuzione sufficiente a garantire al lavoratore un’esistenza libera e dignitosa in ossequio al dettato dell’art. 36 Cost., trascurando che il TFR, avendo natura di retribuzione differita a scopo previdenziale, doveva considerarsi rientrante in tale nozione.
La stessa doglianza viene fatta sostanzialmente valere con il secondo motivo di ricorso, sotto forma di violazione o falsa applicazione dell’art. 16 legge n. 975/84, tenuto conto, altresì, del carattere retributivo, ai sensi dell’art. 36 Cost., del TFR come desumibile dalla legge 23.8.04 n. 243.
I due motivi – da trattarsi congiuntamente perché connessi – sono infondati, dovendosi dare continuità alla giurisprudenza di questa S.C. (cfr. Cass. 11.11.2000 n. 14662) secondo cui non contrasta con l’ordine pubblico un contratto individuale di lavoro che debba essere eseguito all’estero e che – avendo le parti dichiarato applicabile la legge straniera – escluda il trattamento di fine rapporto.
Sulla nozione di ordine pubblico non sempre si è concordato perché col trascorrere del tempo esso è stato sempre meno inteso con riferimento agli interessi, sia pure di rilevanza superiore, dell’ordinamento nazionale e sempre più è stato legato alle esigenze della comunità internazionale.
In tempi meno recenti si era legata la nozione di ordine pubblico internazionale ai principi dell’ordinamento interno considerati tali da impedire l’applicazione, nel territorio dello Stato, di qualsiasi disposizione del diritto straniero ad essi non conforme. Negli anni trenta del secolo scorso, ad esempio, una dottrina molto seguita assegnava all’ordine pubblico internazionale il compito di salvaguardare determinate concezioni di natura morale e politica, particolarmente affermate nella società statuale e assunte del legislatore quali criteri direttivi e informatori della sua opera. Qualche anno dopo si volle escludere l’applicabilità di norme straniere affidate a principi fondamentali o etici contrastanti con l’ordinamento interno, o più precisamente con quei principi cui lo Stato “non può o non creda di dover rinunziare” ovvero principi da ritenersi alla stregua di “sommi inderogabili canoni del nostro sistema positivo” (così Cass. S.U. 19.5.64 n. 1220).
A tale concezione di ispirazione statualista se ne è opposta più di recente un’altra, di maggiore apertura verso gli ordinamenti esterni e fondata anzitutto sul rilievo che non si può ridurre l’applicazione di norme straniere, pur richiamate dal diritto internazionale privato, a quelle non contrastanti con le norme di ordine pubblico interno. Questo, è, infatti, costituito da regole di contenuto rigido, aderenti alle esigenze peculiari del singolo Stato e, perciò, destinate ad operare solo nel suo ambito.
Tale più aperta concezione si fonda sull’attuale maggiore partecipazione dei singoli stati alla vita della comunità delle genti, sempre più capace di esprimere principi generalmente condivisi.
In tal modo si sottrae la nozione di ordine pubblico sia ad un’eccessiva indeterminatezza sia al legame con singoli ordinamenti.
In altre parole, si riconoscono non soltanto comuni civiltà giuridiche, ma anche principi eventualmente (ma non necessariamente) tradotti in norme interne.
Parametri di conformità all’ordine pubblico internazionale sono, dunque, quei principi corrispondenti ad esigenze comuni ai diversi ordinamenti statali oppure, come avviene specialmente nel diritto del lavoro, rilevabili nell’ambiente sociale in cui il fatto della vita reale, da disciplinare in sede di diritto internazionale privato, sia più strettamente collegato.
A tale concezione questa S.C. ritiene di doversi attenere perché più aderente all’art. 10 Cost. e alla corrispondente attuale posizione dell’ordinamento italiano in ambito internazionale. La genericità della nozione di ordine pubblico internazionale trova la propria riduzione grazie alle diverse forme con cui la cooperazione internazionale oggi si esprime: accordi interstatali o plurinazionali; atti di organizzazioni a carattere universale aventi valore obbligatorio o anche soltanto programmatico ed esortativo; atti del diritto comunitario (comprese le sentenze della Corte di giustizia di Lussemburgo); giurisprudenza internazionale.
Per quanto concerne il lavoro reso all’estero, in passato la giurisprudenza di questa Corte Suprema ha affermato che il principio di favore verso il prestatore di lavoro ha, nell’ordinamento italiano e internazionale, valore fondamentale ed impedisce l’introduzione di una legge straniera – ancorché richiamata in una privata convenzione – che contenga una disciplina del rapporto di lavoro dedotto in giudizio meno favorevole al lavoratore rispetto a quella prevista dalla legge italiana (Cass. 6.9.80 n. 5156; Cass. 25.5.85 n. 3209; Cass. 7.3.86 n. 1530, con riferimento alla corresponsione di rivalutazione e interessi ex art. 429 c.p.c.; Cass. 9.9.93 n. 9435, con riferimento al lavoro a termine; Cass. 9.3.98 n. 2622, in materia di giustificato motivo di licenziamento).
Da ciò si è tratta la conseguenza che la carenza, nell’ordinamento straniero, di norme attinenti al trattamento di fine rapporto ponga la privata convenzione, che quell’ordinamento richiami, in conflitto con l’ordinamento internazionale (Cass. 9.11.1981 n. 5924; Cass. 30.11.1994 n. 10238).
Questo orientamento giurisprudenziale esprime, però, una concezione statalista dell’ordine pubblico internazionale che, come si è detto, non appare più corrispondente alla posizione dell’ordinamento interno nell’ambito di quello internazionale. Esso porta a vanificare la scelta della legge applicabile ad opera dei privati contraenti, ossia ne riduce l’efficacia ai soli casi in cui la legge straniera sia più favorevole al lavoratore di quella italiana; la considerazione isolata degli istituti, inoltre, esclude la comparazione dei trattamenti complessivi, destinati al lavoratore nei singoli ordinamenti (comparazione che deve aver riguardo anche al costo della vita nei singoli paesi), ciò che può produrre una prevalenza di norme o di istituti italiani addirittura contrastante con il principio di ragionevolezza.
La concezione più recente induce, al contrario, a restringere la nozione di ordine pubblico a principi non peculiari del nostro ordinamento, ma generalmente condivisi nella comunità delle genti e rilevabili dagli indici precettivi di cui s’è detto sopra.
Diversi sono, poi, i casi in cui i limiti alla scelta delle parti contraenti vengano posti non dall’ordine pubblico internazionale, bensì da specifiche norme di origine convenzionale, come nel caso dell’art 6 della Convenzione di Roma del 19.6.1980.
L’identificazione delle norme italiane sul trattamento di fine rapporto con un principio di ordine pubblico internazionale non trova conferma neppure nelle varie espressioni normative della cooperazione internazionale, attinenti ai rapporti di lavoro.
È possibile rinvenire in queste norme i principi, già canonizzati nella nostra Costituzione (artt. 3, 31, 32, 35, 36, 39), di tutela della salute del lavoratore (art. 25, comma 1, della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo New York – 10.12.48 e numerose direttive CEE), di adeguatezza della retribuzione (art. 23, comma 3, dichiarazione cit.), di limitazione ragionevole dell’orario di lavoro e di necessario godimento di ferie retribuite (art. 24 dichiarazione cit.; convenzione OIL n. 132 del 24.6.70), di protezione sociale della maternità e dell’infanzia (art. 25, comma 2, dichiarazione cit.), di libertà di associazione sindacale (art. 22 del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici – New York 16.12.66; convenzione OIL n. 87 del 9.7.48), di divieto di discriminazioni in pregiudizio della donna (convenzione ONU di New York del 18 dicembre e 1979; convenzioni OIL n. 100 del 29.6.51; n. 103 del 28.6.52; direttive del consiglio CEE 10.2.75 n. 75 ed altre).
L’elenco non è esauriente, ma non risulta alcuna fonte precettiva (né il ricorrente la indica) da cui possa inferirsi un principio, operante in ambito internazionale, di necessaria attribuzione al lavoratore di una somma, al momento della cessazione del rapporto, di ammontare proporzionato alle retribuzioni percepite periodicamente, ossia di una somma che possa corrispondere al nostro trattamento di fine rapporto.
È pur vero che il principio della retribuzione proporzionata e sufficiente di cui all’art. 36 Cost., invocato dall’odierno ricorrente, costituisce uno dei cardini del vigente ordinamento costituzionale, ma esso, lungi dall’impegnare direttamente ogni singolo istituto di retribuzione indiretta, si riferisce al trattamento retributivo globale dovuto al lavoratore (cfr., ex aliis, Cass. 19.1.09 n. 1173), affinché risulti proporzionato a qualità e quantità del lavoro prestato e sia comunque idoneo ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Nel caso in esame il ricorrente non allega neppure quali siano state le retribuzioni percepite, di guisa che non è possibile nemmeno teoricamente supporre che il trattamento di fine rapporto sia di per sé indispensabile affinché, unitamente a dette retribuzioni, il trattamento economico finale si collochi nell’alveo della citata garanzia costituzionale.
In conclusione, non merita censura la sentenza impugnata per aver negato che la non spettanza del TFR come regolato in Italia contrasti con l’ordine pubblico.
2 – In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Non è dovuta pronuncia sulle spese, non avendo la società intimata svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso. Nulla spese.
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