Corte di Cassazione sentenza n. 9290 del 22 aprile 2011
SICUREZZA SUL LAVORO – RESPONSABILITA’ CIVILE DEL DATORE DI LAVORO – INFORTUNIO SUL LAVORO – MANCANZA DI PROVA DELLA COLPA DEL DATORE DI LAVORO – MALATTIA PROFESSIONALE
massima
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L’adempimento dell’obbligo di tutela dell’integrità fisica del lavoratore imposto all’art. 2087 c.c. è un obbligo di prevenzione che impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposta dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata e quelle generi che dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per proteggere il lavoratore dai rischi connessi tanto all’impiego di attrezzi e macchinari, quanto all’ambiente di lavoro e deve essere verificato nel caso di malattia derivante dall’attività lavorativa svolta.
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FATTO
1. Con ricorso depositato in data 19.3.1996 P.M. esponeva di essere stato assunto dalla società E.M. s.p.a. in data 5.1.1977 con mansioni prima di linotipista, poi di dimafonista con inquadramento 6 livello CCNL aziende editrici; nell’esercizio di siffatte mansioni veniva esposto continuamente a sostanze pericolose quali piombo e amianto della linotype e che a causa di esse si procurava un carcinoma alla laringe; l’INAIL in data 16.1.1995 gli riscontrava una inabilità permanente a decorrere dal 19.9.1989 pari al 60%.
Tanto premesso, poiché a causa della malattia contratta aveva subito notevoli danni alla salute e alla vita di relazione, e poiché la colpa di ciò era ascrivibile alla società convenuta che non aveva adottato le misure idonee a evitare il danno, chiedeva la condanna della stessa al risarcimento del danno c.d. differenziale (ossia eccedente quanto riconosciuto dall’INAIL).
Si costitutiva la E.M. che chiedeva il rigetto della domanda sostenendo in particolare che: la E.M. aveva presentato regolare denuncia all’INAIL della malattia del P.; aveva installato nel luogo dove lo stesso lavorava un impianto di condizionamento; non vi era prova del nesso causale tra malattia contratta e danni subiti.
L’adito Pretore di Napoli rigettava la domanda compensando le spese di lite.
2. Avverso detta sentenza proponeva appello il P. con ricorso depositato il 13.3.1998. L’appellante censurava la decisione pretorile che aveva escluso l’esistenza del nesso di causalità sulla base della frase pronunciata dallo stesso P. nel corso del libero interrogatorio in cui aveva detto che le macchine furono rimosse negli anni 1976/977, ovvero prima della sua assunzione.
Sosteneva sussistere il nesso eziologico dimostrato dalla certificazione dell’INAIL; inoltre deduceva che, poiché le macchine furono rimosse tra il 1976 e il 1977 ed egli fu assunto il 5.1.1977, comunque vi era stato un seppur breve contatto con sostanze cancerogene; lamentava la difesa dell’appellante che al momento del libero interrogatorio il P. si trovava in uno stato di difficoltà mnemonico (come da certificazione dell’Ospedale (OMISSIS) prodotto); che comunque la Edi.Me dopo la dismissione dei macchinari non aveva provato di aver decontaminato i locali nei quali col passare degli anni si erano depositate particelle di piombo; criticava inoltre le risposte date dal procuratore speciale dell’E.M.
Affermava nel complesso la illogicità del provvedimento del pretore che si basava essenzialmente sul libero interrogatorio delle parti. Reiterava le istanze istruttorie (testi e CTU) disattese dal giudice di primo grado.
Si costituiva la E.M. in data 18.2.2000 rimarcando la correttezza della sentenza di primo grado che aveva escluso il nesso causale in quanto nel ricorso introduttivo si faceva riferimento a “continue esposizioni”, cosa non riscontrata da primo giudice. Deduceva che era ben possibile per il giudice emettere sentenza solo sulla base del libero interrogatorio. Sosteneva che la circostanza della mancata decontaminazione costituiva argomento nuovo inammissibile in appello perché non contenuto nel ricorso introduttivo.
Escussi testi ed espletate due consulenze, la Corte d’appello di Napoli con sentenza del 28.11.2005 -16.1.2006, rigettava l’appello e compensava per intero le spese di giudizio.
3. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione il P. con due motivi.
Resiste con controricorso la parte intimata.
DIRITTO
1. Il ricorso è articolato in due motivi.
Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 303 del 1956, art. 4, lett. a, b, c, e d, e artt. 15, 17, 19, 20 e 21 nonché violazione del D.P.R. n. 547 del 1955 e dell’art. 2087 c.c. In particolare il ricorrente lamenta che la Corte d’appello avrebbe dovuto adeguarsi alla seguente principio di diritto: “l’adempimento dell’obbligo di tutela dell’integrità fisica del lavoratore imposto all’art. 2087 c.c. è un obbligo di prevenzione che impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposta dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata e quelle generi che dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per proteggere il lavoratore dai rischi connessi tanto all’impiego di attrezzi e macchinari, quanto all’ambiente di lavoro e deve essere verificato nel caso di malattia derivante dall’attività lavorativa svolta.
Col secondo motivo il ricorrente deduce l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Sostiene che la Corte d’appello ha omesso di dare adeguato conto del perché si sia convinta che comportamenti tenuti dalla società alla luce dei rischi presenti in azienda fossero conformi ai dettami delle numerose norme di legge e regolamentari invocate dal ricorrente stesso e mirate alla prevenzione delle malattie professionali.
2. Il ricorso – i cui due motivi possono essere esaminati congiuntamente – è infondato.
Il ricorrente in sostanza invoca un diverso apprezzamento delle risultanze probatorie di causa, che è rimesso alla valutazione dei giudici di merito e che non è sindacabile in cassazione.
La Corte d’appello ha operato tale valutazione di merito tenendo conto in particolare degli elaborati peritali versati in atti (C., I. e M.), nonché delle risultanze della prova testimoniale.
Ha osservato innanzi tutto che la relazione di CTU (C.) aveva sì confermato il rischio di contaminazione da amianto dell’ambiente di lavoro, ma nessuna colpa era addebitabile al datore di lavoro avendo quest’ultimo correttamente operato in base alle normative di prevenzione delle malattie professionali vigenti all’epoca dei fatti.
Anche dall’altra CTU (I.) emergeva che non sussisteva negligenza da parte del datore di lavoro nè colpa nella sua condotta. Era infatti risultato dall’esame peritale che da parte dell’E.M. erano state rispettate tutte le normative relative in materia di sicurezza e salute dei lavoratori e quindi, pur esistendo un nesso tra il lavoro svolto, il grado di inquinamento presente nell’ambiente di lavoro e la malattia in seguito insorta, ciò non era ascrivibile a colpa del datore di lavoro perché sia le macchine ed i locali che gli impianti di protezione ed i sistemi di controllo medico posti in essere erano rispondenti alla normativa vigente all’epoca dei fatti in discussione e solo successivamente si erano potuto constatare gli effetti morbigeni di concentrazioni in ambiente di lavoro di piombo e di fibre di amianto nell’aria.
Inoltre – ha sempre considerato la Corte d’appello – negli anni in cui l’appellante aveva lavorato per l’E.M. (dal 1976 al 1981) la pericolosità di sostanze come piombo ed amianto non era affatto nota a livello medico e scientifico, se non relativamente a determinate esposizioni e a determinati contesti. In particolare il CTU cit. aveva affermato, quanto all’amianto, che “solo nel 1991 si estende anche ai lavoratori che adoperano i manufatti in amianto e li impiegano nelle manutenzioni le visite ed i controlli ed inizia ad emergere il rischio connesso alla dispersione nell’ambiente delle fibre e quindi al controllo della concentrazione delle stesse negli ambienti di lavoro; ma precedentemente, non essendo classificata tale sostanza come pericolosa se emessa in ambiente sotto forma di fibre, non esistono dati concreti per stabilire una concentrazione media negli ambienti di lavoro”.
La Corte d’appello ha poi anche tenuto conto dettagliatamente delle deposizioni testimoniali (R.L., Pa.Ci., M.A., M.M.).
La valutazione conclusiva della Corte d’appello è stata che non si era raggiunta la prova della colpa da parte del datore di lavoro quale indefettibile presupposto per sorreggere l’azione di responsabilità per danni promossa nei confronti della società appellata dal lavoratore.
E’ questa una valutazione di merito sorretta da ampia e non contraddittoria motivazione, fondata anche su plurimi accertamenti peritali, che il ricorrente critica in realtà astrattamente invocando in sostanza una sorta di inammissibile responsabilità oggettiva per il solo fatto della insorgenza della malattia professionale pur in presenza dell’osservanza, da parte della società, delle misure di prevenzione all’epoca esigibili secondo la normativa di prevenzione vigente; ciò ovviamente in disparte della tutela assicurata al lavoratore dall’assicurazione generale contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.
3. Il ricorso va quindi rigettato.
Sussistono giustificati motivi (in considerazione della peculiarità della fattispecie) per compensare tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.
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