Corte di Cassazione sentenza n. 9926 del 05 maggio 2011
PREVIDENZA ED ASSISTENZA – INVALIDITÀ CIVILE – GIUDICE DEL MERITO – VALUTAZIONE IN ORDINE ALLA OBIETTIVA ESISTENZA DELLE INFERMITÀ – ACCERTAMENTO FATTUALE – EFFETTI – SINDACATO IN SEDE DI LEGITTIMITÀ – ESCLUSIONE – LIMITI – FONDAMENTO
massima
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In tema di trattamento di invalidità, costituisce tipico accertamento di fatto la valutazione espressa dal giudice del merito in ordine alla obiettiva esistenza delle infermità, alla loro natura ed entità, nonché alla incidenza delle stesse in relazione ai requisiti previsti dalla legge per la concessione delle singole prestazioni richieste. Tale accertamento è incensurabile in sede di giudizio di legittimità quando è sorretto da motivazione immune da vizi logici e giuridici che consenta di identificare l’iter argomentativo posto a fondamento della decisione. Ciò in quanto il controllo di legittimità non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa, ma si estrinseca nella verifica, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, dell’esame e della valutazione compiuti dal giudice di appello, cui è appunto riservato l’apprezzamento dei fatti e degli elementi di prova acquisiti a processo .
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con sentenza del 16 febbraio 2006, la Corte d’Appello di Napoli rigettava il gravame svolto dalla T. di Napoli s.p.a., in persona del legale rappresentate pro-tempore, contro la sentenza di primo grado che aveva dichiarato la nullità dei contratti a tempo determinato stipulati tra la società e D.M. dal 1° luglio 1992 al 21 dicembre 2002, la sussistenza di un rapporto a tempo determinato dal 1° luglio 1992 e condannato la società al pagamento delle retribuzioni maturate, con decorrenza dal 19 maggio 2003 e sino al ripristino del rapporto, nonché alla regolarizzazione della posizione contributiva e alla rifusione delle spese di lite.
2. La Corte territoriale, esclusa preliminarmente la volontà abdicativa dei diritti derivanti dalla declaratoria di nullità del termine, riteneva i contratti in questione soggetti alla legge n.230 del 1962, come integrata dalla legge 56/1987 a mente della quale era stata attribuita alla contrattazione collettiva l’identificazione delle ipotesi nelle quali è ammissibile l’apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato, inserendosi nel sistema delineato dalla legge 18 aprile 1962, n. 230, con la conseguenza che ai contratti a termine stipulati ai sensi dell’art. 23, nella vigenza della legge n. 230 cit., si applicavano anche le disposizioni di cui all’art. 3, in materia di onere della prova a carico del datore di lavoro sulle condizioni che giustificano l’assunzione a termine. La Corte riteneva non assolto l’onere probatorio a carico del datore di lavoro, in ordine alla sussistenza delle condizioni legittimamente poste dal contratto collettivo di settore, con riferimento al primo contratto concluso il 1° luglio 1992, onde la declaratoria di nullità del termine e la conversione in contratto a tempo indeterminato.
3. Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, la T. di Napoli s.p.a., in persona del legale rappresentante pro-tempore, ha proposto ricorso per cassazione fondato su quattro motivi, illustrati con memoria ex art.378 con la quale si insiste per la cassazione della decisione di merito anche alla luce dello ius superveniens (L.183/2010). L’intimato ha resistito con controricorso, eccependo rinammissibilità e l’infondatezza del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
4. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 11 preleggi, in relazione all’art. 11 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, nonché insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5). Rileva, in particolare, la ricorrente che la Corte territoriale, dopo aver accertato la nullità del termine apposto al contratto stipulato il 1° luglio 1992, aveva dichiarato che tra le parti si era instaurato un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, evidentemente sulla base di quanto previsto dalla L. n. 230 del 1962, legge abrogata per effetto dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 368 del 2001, ditalché della stessa non poteva più farsene uso. Di conseguenza, per la ricorrente, i giudici di merito non potevano dichiarare la “conversione del contatto” in conseguenza dell’accertata nullità, trattandosi di sanzione prevista dalla L. n. 230 cit. e non più applicabile per essere tale disposizione venuta meno.
5. Col secondo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 11 del d.lgs. n. 368 cit. e degli artt. 1339,1372,1418,1419,1424 ce. Rileva la ricorrente che a nessuna delle categorie codicistiche utilizzate (conversione del contratto, sostituzione di clausole e nullità parziale) può farsi, nella specie riferimento, equivalendo l’allontanamento del lavoratore per scadenza del termine non legittimo ad un licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo con applicazione della relativa tutela.
6. Col terzo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art.1362 c.c. in relazione al contratto di lavoro del 1° luglio 1992 e all’art. 2 del CCNL di categoria applicabile, nonché contraddittoria e insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).
Rileva la ricorrente che l’ipotesi di assunzione a termine “in concomitanza di assenze per ferie” sarebbe un’ipotesi organizzativa, e non sostitutiva, prevista dalla contrattazione collettiva, come tale non soggetta a vaglio di effettività.
7. Col quarto motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e 1419 c.c. e insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5). Rileva la ricorrente, quanto al carattere essenziale del termine ritenuto dalla Corte territoriale, che in realtà nel caso di specie si verserebbe in una tipica ipotesi di nullità dì una clausola del contratto comportante, ai sensi dell’art. 1419 c.c., la nullità dell’intero contratto in quanto la conversione dell’atto non e’ possibile nel caso in cui sia agevole ritenere, dalla reiterazione della pattuizione del termine, che le parti non avrebbero concluso il contratto ove avessero avuto consapevolezza della nullità della clausola.
8. Osserva, preliminarmente, il Collegio che parte ricorrente prospetta questioni di diritto e temi di contestazione che non hanno tutti formato oggetto di gravame o di tempestiva e rituale contestazione nel giudizio di appello ove i motivi di doglianza si sono incentrati esclusivamente sull’inammissibilità/improponibilità della domanda a cagione delle rinunzie formulate dal D.M.; sull’interpretazione dell’art.23 della legge n.56 cit. in punto di oneri di allegazione e probatori del rispetto delle ed. clausole di contingentamento e dell’effettiva fruizione delle ferie da parte del personale assunto con contratto a tempo indeterminato; infine, sulla nullità, per difetto di forma, di alcuni contratti, affermata dal primo Giudice, perché non sottoscritti dal lavoratore o a questi non consegnati.
9. Pertanto, riducendo Tesarne del Collegio ai soli motivi già ritualmente contestati nel giudizio d’appello, occorre innanzitutto riaffermare il consolidato principio di questa Corte secondo cui in materia di assunzione dei lavoratori subordinati con illegittima apposizione della clausola di durata, trova applicazione, alla stregua della regola tempus regit actum, la disciplina vigente al momento della stipulazione del contratto a termine e non quella in vigore al momento della pronuncia della sentenza con effetti costitutivi – nella specie, le disposizioni del d.lgs. n. 368 del 2001 -, tenuto conto che la conversione del rapporto di lavoro in contratto a tempo indeterminato non costituisce una sanzione atipica, ma l’effetto della nullità del termine (v., ex multis, Cass n. 24330/2009, 20858/2005).
10. Inoltre, l’art. 23 della legge n. 56 cit. – che prevede che la determinazione delle ipotesi in cui è consentita l’apposizione del termine al contratto di lavoro è devoluta alla contrattazione collettiva – applicabile ratione temporis al primo contratto stipulato il 1° luglio 1992, non esclude l’applicazione dei principi generali posti dalla legge n. 230 del 1962, sicché, in particolare, trova comunque applicazione la disposizione di chiusura, prevista dall’art. 2, comma secondo, di tale legge, che stabilisce la trasformazione in un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato dei successivi rapporti a termine posti in essere con intento elusivo delle disposizioni di legge (v., ex multis, Cass. 9118/2005).
11. Inoltre, quanto all’onere di provare la legittimità del termine e dell’eventuale proroga, incombente sul datore di lavoro, l’art. 23 della legge n. 56 cit. non ha modificato l’onere della prova delle condizioni che giustificano sia l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, sia l’eventuale temporanea proroga al termine stesso, onere che l’art. 2 della legge n. 230 del 1962 pone a carico del datore di lavoro, con la conseguenza che dal mancato assolvimento deriva la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro (v., ex multis, Cass. 381/2004, Cass. n. 19695/2003; sull’onere della prova a carico del datore anche nel nuovo sistema introdotto dal d.lgs. n. 368 del 2001, v., fra le altre, Cass. 10033/2010).
12. Correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha ritenuto, in adesione a Cass. 4862/2005 e ad altre conformi (v., fra le altre, Cass. 8294/2006, 14877/2006), non assolto l’onere probatorio in ordine alla carenza di organico causato dall’assenza per ferie del personale in servizio di entità tale da giustificare l’assunzione del D.M. per il lasso di tempo previsto dal contratto, deducendo mezzi istruttori inidonei a dimostrare la sussistenza delle ipotesi previste legittimamente dal contratto collettivo di categoria (in particolare, la prova testimoniale in ordine alla dedotta carenza di organico con riferimento alle giornate di ferie complessivamente fruite dai lavoratori a tempo indeterminato nel corso degli anni 1992/2003, limitandosi ad indicare, quanto ai lavoratori a termine, il numero complessivo dei lavoratori assunti a termine in ciascun anno, senza precisare né la durata dei contratti, né i periodi di assunzione).
13. infine, non può tenersi conto, nel presente giudizio, dello ius superveniens rappresentato dall’art. 32, commi 5, 6 e 7 della legge 4 novembre 2010 n. 183, in tema di conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, in quanto, a prescindere dalla problematica relativa alla possibilità di ricomprendere tra i giudizi pendenti, cui il comma 7 applica i precedenti commi 5 e 6, anche il giudizio di cassazione, va ribadito, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr., ex multis, Cass. 10547/2006 e, in particolare, sullo ius superveniens ex lege n. 183 del 2010, Cass. 7279/2011).
14. In tale contesto, è altresì necessario, con riferimento alla recente disciplina invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente nel giudizio di cassazione il che presuppone che i motivi di ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, che essi non siano tardivi o generici o comunque inammissibili alla stregua della disciplina processuale loro propria. Nella specie, i motivi di ricorso non investono il tema cui potrebbe essere riferibile la disciplina introdotta con legge n. 183 cit., onde la valutazione di inapplicabilità nel presente giudizio dello ius superveniens.
15. In conclusione, il ricorso va rigettato, conseguendone la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese che liquida in euro, oltre 3.000,00 (tremila) euro per onorari, IVA, CPA e spese generali.
Così deciso in Roma, il 17 gennaio 2011.
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