Corte di Cassazione sezioni Unite sentenza n. 24216 del 18 novembre 2011
LAVORO AUTONOMO – AVVOCATO – AVVOCATO INDAGATO PER IL REATO DI FALSO – SOSPENSIONE CAUTELARE
massima della sentenza
In caso di procedimento penale a carico di avvocato, l’art. 43, comma 3, del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578 conferisce al consiglio dell’ordine il potere di disporre, in via cautelare, la sospensione dall’attività professionale, sulla base di una valutazione d’incompatibilità dell’addebito con l’esercizio della professione, indipendentemente da ogni indagine sulla consistenza dell’incolpazione, riservata al giudice penale.
In tema di procedimento disciplinare nei confronti degli avvocati, il potere di disporre la sospensione cautelare dell’incolpato che sia stato sottoposto a procedimento penale non si consuma con il rinvio a giudizio né è sottoposto al limite temporale costituito dalla pendenza dell’indagine e del successivo processo penale, ben potendo l’Organo disciplinare – Cass. civ., Sez. Unite, 25/11/2009, n. 24760; contra Cons. Naz. Forense Roma, 09/04/2009 – attendere il passaggio in giudicato della pronuncia del giudice penale, a maggior garanzia del professionista, e riscontrare solo in tale momento successivo la sussistenza dei presupposti del provvedimento cautelare, in relazione allo “strepitus fori” cagionato dalla permanenza nell’esercizio della professione dell’avvocato nei confronti del quale sia stata accertata irrevocabilmente la commissione di un fatto grave nell’esercizio della professione stessa.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decisione del 21.2.2011 il Consiglio Nazionale Forense rigettava il ricorso proposto dall’avv. D.S. avverso il provvedimento del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Vibo Vatentia, che aveva disposto in via cautelare la sua sospensione dall’esercizio della professione forense. Il provvedimento impugnato era stato adottato a seguito dell’ordine di sequestro di fascicoli esistenti negli studi di esso ricorrente, in Nicotera e Vibo Valentia, relativi a cause seriali iniziate tra il 2004 ed il 2005 contro E.D. spa e T. Italia s.p.a., sequestro disposto dall’autorità giudiziaria nell’ambito di un procedimento penale per il reato di falso.
Dell’avvenuto sequestro veniva data notizia da parte degli organi di informazione ed il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Vibo Valentia, con delibera del 28.5.2010, apriva il procedimento disciplinare sospendendolo immediatamente, in attesa dell’esito del giudizio penale.
Contestualmente apriva poi procedimento incidentale finalizzato all’adozione della misura della sospensione cautelare dall’esercizio della professione dell’inquisito, sospensione che veniva successivamente disposta con provvedimento del 29.7.2010, impugnato dall’interessato sulla base di quattro motivi in rito e di otto motivi di merito.
Il Consiglio Nazionale Forense, decidendo sull’impugnazione, rigettava il ricorso rilevando, sui diversi punti sottoposti al suo esame, che: a) la comunicazione dell’avvio del procedimento disciplinare, della quale era stata denunciata l’omissione, sarebbe stata ritualmente effettuata e, comunque, sarebbe preclusa ogni questione sul punto, atteso che le eventuali impugnazioni avrebbero dovuto essere proposte nel termine di venti giorni dalla dell’avviso, circostanza che non si sarebbe verificata; b) analoga decadenza si sarebbe verificata con riferimento alla pretesa violazione dell’obbligo di astensione da parte di un componente del Collegio, violazione che sarebbe in ogni modo insussistente, non risultando l’esistenza di un interesse proprio e diretto nella causa di un membro dell’organo giudicante, unica ipotesi astrattamente idonea a determinare la nullità della decisione; c) sarebbe stata irrilevante l’alterazione della composizione del Collegio giudicante per effetto del volontario allontanamento di un suo componente, e ciò in quanto il procedimento celebrato davanti al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati avrebbe natura amministrativa e non giurisdizionale; d) non sarebbe configurabile alcuna violazione nell’avvenuta attivazione di un procedimento cautelare nell’ambito di quello disciplinare, essendo stato rispettato e garantito il diritto di difesa dell’interessato; e) la gravità delle imputazioni contestate, la loro potenziale incidenza sulla dignità ed il decoro della professione, la diffusione della notizia ed il turbamento suscitato nell’opinione pubblica valutati anche in relazione alla genericità della denuncia formulata, avrebbero poi data adeguata ragione del provvedimento adottato.
Avverso la detta decisione, l’avv. S. proponeva ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, poi ulteriormente illustrati da memoria cui non resistevano gli intimati.
La controversia veniva quindi decisa all’esito dell’udienza pubblica del 4.10.2011.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con i motivi di impugnazione il ricorrente ha rispettivamente denunciato:
1) violazione di legge, con riferimento alla rilevata inosservanza dell’obbligo dell’immediata comunicazione del procedimento disciplinare all’interessato. Il Consiglio Nazionale Forense, al contrario, avrebbe affermato l’equivalenza della delibera di apertura del procedimento disciplinare alla comunicazione imposta dalla norma, e la statuizione sul punto sarebbe quindi errata;
2) violazione di legge in relazione all’affermata validità della decisione, pur se adottata da organo non integro nella sua composizione, per la partecipazione di soggetto onerato dall’obbligo di astensione;
3) violazione dell’art. 111 Cost. con riferimento ai principi di terzietà ed imparzialità del giudice attesa la partecipazione al giudizio di soggetto non disinteressato;
4) violazione di legge, per l’assenza di presupposti oggettivi richiesti dalla legge per l’adozione della misura cautelare.
Il ricorso è infondato.
Per quanto riguarda il primo motivo di impugnazione si osserva innanzitutto che il Consiglio Nazionale Forense, cui era stata prospettata identica censura, ne aveva affermato l’inconsistenza per il fatto che vi sarebbe stata prova documentale in atti che il COA territoriale ha comunicato, mediante formale notificazione, l’atto di apertura del procedimento disciplinare e la sua contestuale sospensione con racc. a.r., ricevuta dall’interessato in data 3 giugno 2010.
Di tale affermazione è stata sostenuta l’erroneità sotto il duplice profilo della pretesa violazione dell’obbligo della comunicazione all’incolpato dell’inizio del procedimento disciplinare prima dell’adozione di qualsivoglia altro provvedimento e della ritenuta “equipollenza e/o equivalenza della delibera di apertura del procedimento disciplinare con la preliminare comunica imposta dalla legge citata”. Detto assunto risulta tuttavia smentito in punto di fatto per quanto riguarda il primo assunto, atteso che il Consiglio Nazionale Forense ha escluso l’adozione di provvedimenti di sorta prima della comunicazione in questione (sicché al più sarebbe configurabile un vizio revocatorio), mentre, per quanto concerne il secondo, non è in contestazione l’avvenuta comunicazione dell’avvio del procedimento, effettuata “mediante formale notificazione”.
Comunque, ed il rilievo appare assorbente, il Consiglio Nazionale Forense ha anche accertato
l’intervenuta decadenza dello S. dal sollevare qualsiasi censura al provvedimento relativo all’apertura del procedimento disciplinare, atteso che la eventuale impugnazione andava proposta, ai sensi dell’art. 50 R.D. 1933/1578, entro venti giorni dalla notificazione, mentre non ne risultava effettuata alcuna, e detto accertamento non è stato oggetto di specifica censura (il ricorrente si è limitato al riguardo a dedurre genericamente che non avrebbe potuto utilmente impugnare la delibera del CdO del 28.5.2010, in quanto atto meramente endoprocedimentale).
Per il secondo motivo vale il rilievo da ultimo svolto.
Ed infatti, oltre a ritenere infondate nel merito le doglianze ivi rappresentate sotto diversi aspetti (vale a dire per l’intervenuta decadenza dall’eccezione di ricusazione, l’inesistenza di un proprio interesse nella causa di un componente del Collegio, la non configurabilità di una nullità della decisione conseguente all’irregolare costituzione dell’organo giudicante avendo questo natura amministrativa e non giurisdizionale), il Consiglio Nazionale Forense ha considerato inammissibile la doglianza perché, analogamente a quanto indicato a proposito del primo motivo, essa riguarda il provvedimento di apertura del procedimento disciplinare, nella parte in cui un componente del Collegio avrebbe dovuto astenersi ricorrendo i presupposti per la sua ricusazione, ogni eventuale impugnazione avverso il provvedimento relativo all’apertura del procedimento disciplinare avrebbe dovuto essere proposta entro venti giorni dalla notificazione (circostanza non verificatasi), ed il punto non è stato censurato.
Il terzo motivo ripropone in parte, sotto diversa angolazione, le medesime doglianze svolte con il secondo motivo, tenuto conto che proprio dalla pretesa “partecipazione alla decisione di un giudice portatore di un interesse diretto” sarebbe derivata la violazione dei principi di terzietà e di imparzialità dell’organo giudicante, che avrebbe poi dato causa alla nullità della sentenza.
Anche tale prospettazione appare però inconsistente sotto un duplice riflesso ed in particolare, in via generale, perché come questa Corte ha reiteratamente e costantemente affermato, la violazione dell’obbligo di astensione da parte del giudice in difetto di tempestiva ricusazione, al di fuori del caso in cui questi abbia un interesse proprio e diretto nella causa tale cioè da porlo nella posizione sostanziale di parte, non comporta la nullità della sentenza successivamente emessa (C. 09/23930, C. 07/13433, C. 02/528, C. 01/9418, C. 99/5072)
Inoltre, nello specifico, la pretesa esistenza di un interesse proprio e diretto di un componente del collegio giudicante, che sarebbe consistito nella sua qualità di avvocato di una parte avversa al ricorrente “nella causa oggetto d’accertamento penale”, costituisce un dato semplicemente enunciato e non sorretto da alcun riscontro, circostanza che rende comunque la censura in esame viziata sul piano dell’ autosufficienza.
Resta infine il quarto motivo di impugnazione, con cui il ricorrente ha denunciato violazione di legge sotto il duplice aspetto che l’adozione del provvedimento di sospensione dall’esercizio della professione richiederebbe la constatazione del raggiungimento di una “soglia minima” – che non sarebbe viceversa riscontrabile quando l’incolpato sia soltanto indagato in un procedimento penale, e l’accertamento dell’esistenza di uno “strepitus fori”, requisiti che sarebbero stati entrambi insussistenti nella specie.
Osserva in proposito il Collegio che, per quanto riguarda il primo punto sopra considerato, la doglianza appare generica poiché se, come sembra desumersi dal complesso delle argomentazioni svolte dallo S., per “soglia minima” quale presupposto per l’emissione di un provvedimento cautelare di sospensione deve intendersi la pendenza di un procedimento penale a carico dell’incolpato, il C.N.F. non ha reso affermazioni di principio contrastanti con tale indicazione. Nella decisione oggetto di esame, infatti Collegio decidente ha dapprima rilevato “Con il quarto motivo l’opponente, dopo aver rammentato i motivi che legittimano l’intervento del COA in materia cautelare, sostiene che non può ritenersi automatico l’intervento in via cautelare per il solo avvio del procedimento penale, come invece è avvenuto nel suo caso (p. 5)” ed ha quindi precisato “La sospensione cautelare, quindi, è stata disposta dopo una ponderata e motivata decisione discrezionale del Consiglio territoriale che, prescindendo dalla fondatezza o meno delle imputazioni mosse al professionista, ha tenuto conto della gravità delle stesse (p. 8)”.
Ne consegue che il ricorrente, ove non condivisa (come verificatosi) la detta premessa (vale a dire l’intervenuta acquisizione della qualità di imputato nel procedimento penale sulla cui base era stato emesso il provvedimento cautelare a suo danno), avrebbe dovuto muovere specifica impugnazione al riguardo, prospettando con chiarezza la situazione in fatto esistente, per consentire una corretta formulazione in questa sede del giudizio circa la posizione da lui rivestita nel procedimento in esame (di indagato o di imputato rappresentando inoltre con la dovuta precisione le ragioni per le quali, egli sarebbe stato semplicemente indagato e non imputato.
Quanto alla rilevata gravità dell’imputazione ed alla constatata esistenza dello “strepitus fori”, si tratta di non condivisa valutazione di merito del Consiglio Nazionale Forense, rispetto alla quale non sono state denunciate violazioni di sorta nella formulazione e nella rappresentazione del giudizio, e che non risulta pertanto sindacabile in questa sede di legittimità.
Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, mentre nulla va disposto in ordine alle spese processuali poiché gli intimati non hanno svolto attività difensiva.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
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