COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE AREZZO – Ordinanza 26 aprile 2021, n. 150
Imposte e tasse – Accertamento delle imposte sui redditi – Prevista assunzione dei prelevamenti come ricavi, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e semprechè non risultino dalle scritture contabili. In via subordinata: Imposte e tasse – Accertamento delle imposte sui redditi – Assunzione dei prelevamenti come ricavi, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e semprechè non risultino dalle scritture contabili – Prevista applicazione anche agli imprenditori individuali ammessi alla contabilità semplificata. – Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), art. 32, primo comma, numero 2)
Ritenuto che
1. V. L. ha impugnato l’avviso di accertamento n. T8D01PF01465/2018 per l’anno 2013, in data 7 dicembre 2018, della Direzione provinciale di Arezzo – Ufficio controlli dell’Agenzia delle entrate, che, in applicazione dell’art. 32 del decreto del Presidente della Repubblica n. 917/1986, ha attivato indagini finanziarie esaminando i rapporti bancari di cui è titolare il predetto contribuente, e, avendo rilevato la presenza di versamenti non giustificati sui conti correnti riconducibili al medesimo per euro 167.588,65, e prelevamenti non giustificati per euro 117.958,35, ha accertato maggiori redditi ai fini delle imposte dirette (IRPEF e IRAP) per euro 285.547,00 (ossia pari alla somma dei due predetti importi), ed un maggior imponibile IVA per euro 167.588,65 (pari ai soli versamenti non giustificati).
2. Il ricorrente lamenta che l’Ufficio non abbia tenuto conto, se non in parte, delle giustificazioni offerte, e, laddove siano presenti movimenti rimasti privi di giustificazione, chiede al giudice di valutarne il significato in merito ai tempi, all’ammontare e al contesto complessivo, in particolare sottolineando, per quanto attiene al prelevamento di contanti, che il contribuente avrebbe avuto comunque «diritto a vivere e sostenere anche spese personali».
3. L’art 32, comma 1, n. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 prevede che i dati ed elementi acquisiti, tra l’altro, attraverso indagini bancarie, a) «sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 41, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine»; b) «alla stesse condizioni sono altresì posti come ricavi [le successive parole «o compensi» sono venute meno a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014] a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e semprechè non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti e gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni per importi superiori a euro 1.000 giornalieri e, comunque, a euro 5.000 mensili».
4. In base alla consolidata e nettamente prevalente giurisprudenza della Corte di cassazione, l’art. 32 crea una presunzione legale in favore dell’erario che può essere superata soltanto con prove rigorose, e non con presunzioni. Secondo Cassazione n. 2012/13035, «In tema di accertamento delle imposte sui redditi, e con riguardo alla determinazione del reddito di impresa, l’art. 32 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 impone di considerare ricavi sia i prelevamenti, sia i versamenti su conto corrente, salvo che il contribuente non provi che questi ultimi sono registrati in contabilità e che i primi sono serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili; posto che, in materia, sussiste inversione dell’onere della prova, alla presunzione di legge (relativa) va contrapposta una prova, non un’altra presunzione semplice ovvero una mera affermazione di carattere generale, né è possibile ricorrere all’equità» (conf. n. 05/18016); secondo Cassazione n. 06/14675, «In tema di accertamento delle imposte sui redditi, e con riferimento all’acquisizione dei movimenti di un conto corrente bancario riconducibili ad un’attività d’impresa, debbono essere considerati ricavi sia le operazioni attive che quelle passive, senza che si debba procedere alla deduzione presuntiva di oneri e costi deducibili, essendo posto a carico del contribuente l’onere di indicare e provare eventuali specifici costi deducibili» (conf. Cassazione n. 07/25365, n. 08/2821, n. 14/16869, n. 20/15161);
secondo Cassazione 15/4829, «in tema di accertamento delle imposte sui redditi, al fine di superare la presunzione posta a carico del contribuente dall’art. 32 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (in virtù della quale i prelevamenti ed i versamenti operati su conto corrente bancario vanno imputati a ricavi conseguiti nell’esercizio dell’attività d’impresa), non è sufficiente una prova generica circa ipotetiche distinte causali dell’affluire di somme sul proprio conto corrente, ma è necessario che il contribuente fornisca la prova analitica della riferibilità di ogni singola movimentazione alle operazioni già evidenziate nelle dichiarazioni, ovvero dell’estraneità delle stesse alla sua attività. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto non congruo il volume degli affari e l’importo dei ricavi così come ricalcolato dall’Ufficio, esclusivamente in ragione delle modeste dimensioni della società e nonostante fosse stata riscontrata anche la mancanza di documentazione contabile legittima)»; conseguentemente, secondo Cassazione n. 18/1040, «In tema di accertamenti bancari, poiché il contribuente ha l’onere di superare la presunzione posta dagli articoli 32 del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973 e 51 del decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, dimostrando in modo analitico l’estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili, il giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all’efficacia dimostrativa delle prove fornite dallo stesso, rispetto ad ogni singola movimentazione, dandone compiutamente conto in motivazione» (conf. n. 20/13112, n. 14/26018, n. 10/18081, n. 08/22179). Soltanto tre decisioni della S.C., sulle numerosissime che si sono occupate dell’argomento, hanno ammesso che la presunzione legale posta dall’art. 32 possa essere vinta anche da presunzioni semplici, ma «sempre senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative» (Cass. 17/11102, 11/25502, 15/2781), e peraltro, tale apparente scostamento risulta sostanzialmente corrispondere a degli obiter dicta, dal momento che Cassazione 17/11/02 rigetta comunque il ricorso del contribuente, mentre le altre due decisioni cassano le rispettive sentenze di merito (favorevoli al contribuente), accogliendo i ricorsi dell’amministrazione finanziaria. Inoltre, la prima delle tre decisioni da ultimo citate, ossia Cass. n. 17/11102, richiama nella propria motivazione n. 06/14675 (e con essa n. 12/13035 e n. 14/20679) mostrando (non senza qualche contraddizione) di aderire alla tesi dell’indeducibilità di oneri e costi presuntivi. Il «diritto vivente», pertanto, non consente di escludere i prelevamenti dal conto corrente dai presunti ricavi se non in base alla prova, rigorosa e rigorosamente motivata dal giudice di merito, che detti prelevamenti non rappresentino ricavi (prova, oltretutto, negativa).
Non pare quindi trovare riscontro, almeno al momento attuale, quanto affermato nella sentenza della Corte costituzionale n. 225 del 2005, secondo la quale «l’assunto del remittente, relativo alla indeducibilità delle componenti negative del maggior reddito d’impresa accertato in base alla norma impugnata … risulta altresì smentito dalla più recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in caso di accertamento induttivo, si deve tener conto – in ossequio al principio di capacità contributiva – non solo dei maggiori ricavi ma anche della incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati».
5. Si può dubitare e si è dubitato, in passato, della legittimità costituzionale di tale normativa, per quanto attiene ai prelevamenti, per contrasto con gli articoli 3 e 53 Cost., sia perché l’ipotesi dei versamenti appare logicamente e contabilmente opposta a quella dei prelevamenti, rappresentando i primi un’entrata, e i secondi un’uscita, e quindi l’equiparazione comporta l’eguale trattamento di situazioni diseguali, sia perché in tal modo finisce col sottoporre a tassazione un reddito inesistente (ossia quello corrispondente ai prelevamenti), in contrasto col principio di capacità contributiva.
Con la sentenza n. 225 del 2005, la Corte costituzionale ha dichiarato infondata tale questione, «non essendo manifestamente arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati dai conti correnti bancari effettuati da un imprenditore siano stati destinati all’esercizio dell’attività d’impresa e siano, quindi, in definitiva, detratti i relativi costi, considerati in termini di reddito imponibile». Con la successiva sentenza n. 228 del 2014 (come si è anticipato nel riportare il testo della disposizione impugnata) la Corte costituzionale ha invece ritenuto fondata la questione limitatamente ai compensi dei professionisti, ai quali la disciplina era stata estesa in forza della legge n. 311 del 2004 (art. 1, comma 402, lettera a). Ha osservato la Corte in quest’ultima sentenza, rimeditando la questione, che «in assenza di giustificazione deve ritenersi che la somma prelevata sia stata utilizzata per l’acquisizione, non contabilizzata o non fatturata, di fattori produttivi e che tali fattori abbiano prodotto beni o servizi venduti a loro volta senza essere contabilizzati o fatturati». Tale presunzione, che secondo quest’ultima decisione era stata ritenuta dalla precedente sentenza n. 225 del 2005 «congruente con il fisiologico andamento dell’attività imprenditoriale, il quale è caratterizzato dalla necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi», era invece da ritenersi arbitraria se applicata al lavoratore autonomo (cui si riferiva il giudizio a quo), la cui attività «si caratterizza per la preminenza dell’apposto del lavoro proprio e la marginalità dell’apparato organizzativo», anche tenuto conto dei sistemi di contabilità semplificata di cui si avvale la categoria («assetto contabile da cui deriva la fisiologica promiscuità delle entrate e delle spese professionali e personali»), non senza considerare che l’esigenza di combattere l’evasione fiscale «trova una risposta nella recente produzione normativa sulla tracciabilità dei movimenti finanziari».
6. La citata sentenza n. 228 era vincolata, per i termini in cui l’ordinanza di rimessione aveva delimitato la questione, ad esaminare soltanto l’estensione ai lavoratori autonomi del regime di accertamento previsto per le imprese, non potendo estendere a queste ultime la declaratoria di incostituzionalità, e dovendo pertanto recepire come un dato acquisito la ratio della disposizione impugnata come ricostruita dalla precedente sentenza del 2005. Tuttavia, da un lato la questione può essere riproposta in termini più ampi sotto nuovi profili, dall’altro paiono sussistere profili specifici che potrebbero estendere anche al caso di specie (imprenditore individuale soggetto a contabilità semplificata) la decisione emessa nei confronti dei lavoratori autonomi. In primo luogo, si osserva che la ratio della presunzione posta dall’art. 32 n. 2 del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, per quanto concerne i prelevamenti, cosi come ricostruita dalla citata giurisprudenza costituzionale, non risulta persuasiva. L’art. 32 prevede che, esperito nei casi consentiti dalla legge l’accesso ai dati bancari, anzitutto i versamenti non giustificati, ossia che non trovano una corrispondenza nella contabilità, siano presunti corrispondere a ricavi. Nessuno può dubitare della ragionevolezza di tale presunzione.
Tuttavia, la stessa presunzione viene applicata anche ai prelevamenti, cioè ad un’operazione di segno contabile opposto.
Orbene, secondo un comune criterio di ragionevolezza, laddove, come nel caso di specie, vi siano sia versamenti che prelevamenti ingiustificati, si potrebbe inferire che il contribuente abbia coi primi acquisito ricavi, e coi secondi sostenuto o costi aziendali, ma in modo contabilmente irregolare, oppure spese personali; onde il reddito da sottoporre a tassazione, nella prima ipotesi, dovrebbe essere pari alla differenza tra i due importi (nel caso di specie, quindi, ad euro 49.630,30), e nella seconda ai soli versamenti (nel caso di specie euro 167.588,65). Ma l’impossibilità di dedurre costi non giustificati e non rigorosamente provati, e la possibilità che si tratti non di costi aziendali ma di spese personali, impedisce di fatto la prima soluzione, sicché i ricavi accertati verranno interamente equiparati a reddito, e assoggettati a tassazione (nel caso di specie, per l’ultimo degli importi sopra indicati).
E già questa potrebbe risultare una conseguenza vessatoria per il contribuente, che egli tuttavia potrebbe imputare sibi, ossia alla propria infedeltà fiscale. Tuttavia, non ci si ferma qui, perché non soltanto le uscite (ossia i possibili pagamenti in nero) non possono essere dedotti dai ricavi, ma esse addirittura, contrariamente ad ogni logica contabile e aritmetica, vengono sommate (non algebricamente, ossia una posta con segno «più», e una con segno «meno», ma entrambe con lo stesso segno «più») alle entrate (in nero e non), facendole moltiplicare oltre ogni ragionevole aderenza alla realtà (nel caso di specie sottoponendo il contribuente ad un accertamento per euro 285.547,00). La «doppia correlazione» che starebbe alla base della presunzione legale che regola il meccanismo di accertamento non pare rispondere a criteri di ragionevolezza, perché: a) in assenza di giustificazione, l’uscita dal conto (ossia il prelevamento) può astrattamente attribuirsi altrettanto ragionevolmente a costi d’impresa quanto a spese personali, specie di fronte a piccoli imprenditori individuali, come è nel caso di specie; b) l’acquisizione di fattori produttivi, in ogni caso, avrà in ipotesi prodotto entrate che o sono state contabilizzate, e quindi dichiarate, oppure, in caso contrario, sono già state considerate nell’accertamento in forza dei versamenti ingiustificati: sommarvi i prelevamenti significa duplicare la posta.
D’altra parte, come si è visto al punto 4, non è possibile dedurre dai ricavi così accertati, contrariamente a quanto ipotizzato da Corte costituzionale n. 225 del 2005, alcun costo presuntivo, impedendolo il diritto vivente rappresentato dalla giurisprudenza della S.C. Infine, non è assolutamente ragionevole pensare che un qualsiasi acquisto di fattori produttivi generi, nello stesso anno d’imposta, un reddito (poiché in questo contesto, come si è visto, la presunzione di ricavo equivale a presunzione di reddito) di pari importo alla somma spesa. Del resto, che sia illogico ipotizzare ricavi non dichiarati per un importo pari a quello dei prelevamenti trae indiretta conferma anche dal fatto che, ai fini IVA, la stessa Amministrazione finanziaria ha accertato un maggior imponibile soltanto per l’importo di euro 167.588,65, pari ai soli versamenti.
7. In ogni caso, «non sussiste incertezza del petitum – e la questione di legittimità costituzionale deve ritenersi ammissibile – nel caso in cui l’ordinanza di rimessione non prospetti più soluzioni alternative, ma doglianze contenutisticamente e cronologicamente diverse, in guisa che l’una risulti proposta in via principale e l’altra in via subordinata» (Corte cost., sentenza n. 469/1988); e ancora: – la denuncia di illegittimità costituzionale articolata in quesiti plurimi è inammissibile quando tra di essi esista un legame irrisolto di alternatività, mentre è ammissibile in presenza di un collegamento di subordinazione logica, il quale permette, in caso di rigetto della questione che precede, la delibazione di quella subordinata» (Corte cost. sentenza n. 188/1995). In questa ottica, è prospettabile una questione subordinata a quella fin qui illustrata, ossia la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32 citato nella parte in cui si applica agli imprenditori individuali ammessi alla contabilità semplificata (il V. non supererebbe i. limiti di ricavi di cui all’art. 18 del decreto del Presidente della Repubblica n. 600/1973 neppure se l’accertamento impugnato venisse ritenuto legittimo;
infatti il totale del valore della produzione viene accertato ai fini IRAP in euro 299.630 pag. 16 del verbale di accertamento – e il volume d’affari IVA viene accertato in euro 320,585 pag. 17) per i quali, come già ha ritenuto la Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 228 del 2014, in relazione ai lavoratori autonomi, si può ritenere marginale l’apparato organizzativo, e per i quali sussiste quella medesima «fisiologica promiscuità delle entrate e delle spese professionali e personali»; cosicché risulterebbe incostituzionale, per irragionevolezza della presunzione, applicare alla fattispecie la disciplina normativa de qua, una volta ammessane in ipotesi la legittimità costituzionale in via generale. Anche in questo caso varrebbero infine le considerazioni svolte nella sentenza da ultimo richiamata, circa l’impossibilità di giustificare la norma con l’esigenza di combattere l’evasione fiscale, dato che questa trova sempre di più «una risposta nelle recente produzione normativa sulla tracciabilità dei movimenti finanziari».
8. Posto che, una volta accolta la questione di legittimità costituzionale – o quella proposta in via principale, o quella proposta in via subordinata – il ricorso del V. dovrebbe trovare almeno parziale accoglimento, dovendosi in tal caso escludere dall’accertamento impugnato gli importi pari ai prelevamenti, mentre in caso contrario tale esito non sarebbe prospettabile, è evidente la rilevanza delle questioni sollevate.
P.Q.M.
Visto l’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
Solleva d’ufficio, in via principale, questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 1, n. 2 decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, limitatamente alle parole «i prelevamenti o», per contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione;
In via subordinata, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 1, n. 2 decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, limitatamente alle parole «i prelevamenti o», nella parte in cui si applicano agli imprenditori individuali soggetti a contabilità semplificata ai sensi dell’art. 18 dello stesso decreto del Presidente della Repubblica, sempre per contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione;
Sospende il giudizio in corso;
Ordina alla segreteria la notificazione della presente ordinanza alle parti in causa, nonché al Presidente del Consiglio dei ministri, e la sua comunicazione ai presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica;
Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, sempre a cura della segreteria, all’esito delle notificazioni e comunicazioni di cui al capoverso precedente, e allegando la prova di dette notificazioni e comunicazioni agli atti stessi prima della loro trasmissione.
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