Commissione Tributaria Provinciale di Milano sezione I sentenza n. 2237 depositata il 21 maggio 2019
Ritenute – Distribuzione a società Ue – Condizione per esenzione – Direttiva madre-figlia – Costruzione puro artificio
Con ricorso depositato il 17 gennaio 2019 la ricorrente, B.D. S.p.a., (leader nel settore della vendita e produzione di dispositivi medici, sistemi strumentali e reagenti utilizzati nel settore sanitario) impugnava l’atto in epigrafe. La controversia traeva origine dalla consegna del PVC con il quale veniva contestata l’applicabilità del regime di esenzione previsto dall’art. 27-bis, D.P.R. 600/73, ai pagamenti di dividendi effettuati – in data 5 febbraio 2013 e per €. 5.155.200,00, – dalla ricorrente alla B. (B.D. S.a.s. di diritto francese) società che controllava l’odierna contribuente. La ripresa era motivata dal fatto che la suddetta B. era a sua volta controllata da B.D. L.P., entità istituita in Bermuda appunto e che quest’ultima non era riuscita a dimostrare che non deteneva la partecipazione allo scopo esclusivo o principale di beneficiare dei regimi di riduzione e esenzione della ritenuta ordinaria. Aggiungeva poi che medesimo avviso di accertamento era stato spiccato per l’anno 2011 e che la CTP di Milano con sentenza n. 7152/2017 lo aveva annullato, cosa successa anche per il 2012. Eccepiva, nel merito, come le accuse e la riprese erariali erano totalmente infondate dato che, la società francese, non deteneva le partecipazioni nell’italiana al solo scopo di godere delle riduzioni previste. Spendeva qualche pagina per ripercorrere i principi fissati dall’art. 27-bis citato, ritenendo di aver correttamente applicato l’esenzione da ritenuta sui dividendi oggetto di contestazione in quanto la società erogante aveva accertato la sussistenza dei requisiti, mediante la ricezione del certificato dell’autorità fiscale estera. Ribadiva ancora che la stessa, agendo quale sostituto d’imposta, non era tenuta a sobbarcarsi altri e ulteriori oneri e che una volta ottenuto il detto certificato i suoi adempimenti, per non operare la ritenuta, erano terminati. Citava copiosa giurisprudenza di merito conforme. Per tuziorismo difensivo seguitava nella dimostrazione della spettanza all’esenzione evidenziando come la ricostruzione dell’ufficio era adatta a suggestionare più che motivare l’atto gravato. Evidenziava come l’ufficio avrebbe dovuto muoversi e utilizzare i canoni di cui all’art. 10-bis dello Statuto andando ad indagare circa la supposta mancanza di sostanza economica della società francese scovando evidenze della “costruzione di puro artificio” e altro ancora. Specificava altresì come la stessa giurisprudenza UE, recepita dalla stessa agenzia, aveva stabilito come una società di holding poteva legittimamente esercitare il diritto allo stabilimento anche se svolgeva attività di mera detenzione di partecipazioni. Citava poi il noto principio di proporzionalità come concepito dalla nota sentenza Cadbury Schweppes precisando una serie di corollari direttamente da esse promananti ed applicabili al caso de quo, tra cui il fatto che indubbia la libertà del contribuente di optare per una soluzione negoziale ed organizzativa comportante un maggior risparmio fiscale. Tesi fatta propria anche dalla giurisprudenza di merito oltre che di legittimità nostrana. Ancora attingendo da sentenze domestiche precisava come la detta libertà incontrava il solo limite dell’abuso e che, nel caso qui in discussione, l’abuso della costruzione di puro artificio, non poteva ritenersi sussistente, laddove si era in presenza di una società dotata di sostanza economica. Fatta questa premessa la società procedeva a dimostrare la sostanza economica che caratterizzava la B. precisando come la stessa assumeva il controllo di circa 40 società sparse nell’area E. oltre ad una precisa elencazione delle funzioni e servizi infragruppo da essa svolte e qui omesse. Passando al lato economico di questa indagine chiariva come la società francese, controllante dell’odierna ricorrente, aveva dei significativi ricavi e che da tale esame economico era evidente la sostanza e logica economica ed imprenditoriale della società stessa e della riorganizzazione che aveva comportato degli immediate ritorni in termini di economicità con un consistente abbattimento delle perdite. Ancora e sul debito di finanziamento contratto, la società respingeva le accuse di sostenibilità evidenziando come una primaria società di revisione aveva stabilito la sostenibilità dello stesso. Insisteva nell’affermare come la riorganizzazione del gruppo che aveva portato alla costituzione della società francese più volte citata non poteva considerarsi costruzione di puro artificio. Svolgeva poi delle ulteriori considerazioni atte ad avvalorare e, soprattutto a fugare, ogni tipo di dubbio circa la reale funzione della riorganizzazione effettuata che non si risolveva nel mero risparmio fiscale. Ancora ulteriori considerazioni di natura ricognitiva circa gli scopi e la normativa applicabile della Direttiva madre-figlia precisando come l’assunto dell’ufficio – che ravvisava quale vantaggio fiscale la deducibilità degli interessi della francese e la speculare non imponibilità degli interessi attivi della società lussemburghese B.L. che controllava la francese – era in conferente dato che qui si verteva sui rapporti tra la italiana e la francese. Aggiungeva poi che la società francese era stata sottoposta ad una verifica fiscale dall’autorità fiscale francese e che nessuna contestazione era emersa se non per quanto concerne la misura del tasso applicato ma nulla di più, con la dimostrazione che il presunto vantaggio fiscale in capo alla francese era insussistente.
Anche sulla percezione degli interessi attivi da parte della B.L. erogati dalla francese, la parte chiariva come gli stessi erano assoggettati a tassazione. Chiariva poi come l’ultima società era una società da consolidare e la cui consolidante era la B.W. S.a.r.l. e che solo quest’ultima era responsabile per le imposte dovute dal consolidato fiscale. In subordine poi eccepiva come al massimo, ai dividendi de quibus, era da applicare la ritenuta nella misura dell’1,375% prevista dall’art. 27, comma 3-ter D.P.R. 600/73, data la sussistenza dei relativi requisiti. Altresì specificava come la detta ritenuta inserita dall’articolo da ultimo citato era stata inserita al fine di rendere compatibile il regime italiano delle ritenute sui dividendi in uscita con i principi relativi alla libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei capitali. Pertanto, concludeva sul punto, anche volendo individuare un beneficiario effettivo dei dividendi diverso da B. si rendeva, a suo dire, applicabile la ritenuta dell’1,375% ai pagamenti effettuati dalla ricorrente, risultando discriminatoria ogni altra misura in violazione dell’art. 63 TFUE. Evidenziava poi come in ogni caso alle dette operazioni risultava applicabile la Convenzione contro le doppie imposizioni siglata con gli USA che prevedevano una ritenuta pari al 5% ex art. 10 della Convenzione stessa. Eccepiva poi la violazione dell’art. 2697 c.c. secondo cui spettava al creditore, titolare della pretesa, l’onere di provare il fatto costitutivo della stessa, cosa che nel caso in esame non era avvenuta, essendo la pretesa fondata su affermazioni di stile, generiche e tutt’altro che concrete. In subordine eccepiva come l’atto gravato si appalesasse in ogni caso illegittimo in quanto fondato sull’abrogata formulazione dell’art. 27-bis, co. 5, D.P.R. 600/73. Ancora si dolevano del fatto che l’atto avrebbe dovuto essere fondato applicando le garanzie proprie dell’art. 10-bis dello Statuto, dato il tenore normativo della novella da ultimo citata. Seguitava nell’esposizione delle garanzie processuali che l’articolo 10-bis della L. 212/00 offriva al contribuente lamentandone la violazione. Eccepivano poi: la giuridica inesistenza della notificazione dell’atto impugnato in quanto effettuata da soggetto non legittimato, in violazione dell’art. 60 del D.P.R. 600/73; la giuridica inesistenza dell’atto impugnato in quanto non rispondente allo schema tipico normativamente previsto, con specifico riferimento alla sua componente precettiva; la mancata indicazione del responsabile dei procedimenti; illegittimità dell’atto, nella parte in cui viene intimato l’obbligo di pagare, dopo l’affidamento in carico all’AdR; la incostituzionalità dell’aggio; l’illegittimità dell’accesso effettuata presso la sede della contribuente; illegittimità dell’atto per vizio motivo, in violazione dell’art. 10-bis, comma 8, L. 212/00; difetto motivo del procedimento di irrogazione delle sanzioni. Chiedeva l’annullamento dell’atto.
In data 27 febbraio 2019 l’ufficio delle entrate diveniva parte nel processo.
Ripercorreva i fatti di causa e, nel merito della pretesa fiscale esordiva ripercorrendo dapprima la storia evolutiva e l’attuale composizione del gruppo a livello mondiale anche tramite illustrazione grafica, per poi chiarire come i dividendi erogati, in linea di principio, a soggetti non residenti in relazione a partecipazioni non relative a stabili organizzazioni, erano tassati ex art. 27, comma 3, D.P.R. 600/73. La ritenuta era da applicare a prescindere dal fatto che gli utili fossero relativi a partecipazioni qualificate o non e che il soggetto percettore era residente o meno. Nel caso in esame e in relazione alla distribuzione di dividendi del febbraio 2013, la B. non aveva operato alcuna ritenuta. Continuava esplicitando come al fine di godere di tale esenzione era necessario che, laddove il percettore fosse direttamente o indirettamente controllato da soggetti extra-UE, doveva dimostrarsi la prova che la partecipazione non era detenuta per soli scopi di natura di risparmio fiscale. La direttiva del Consiglio UE aveva modificato, nel 2015, il testo della Direttiva madre-figlia prevedendo una clausola minima antiabuso che contrastava una costruzione o una serie di costruzioni che non era genuina, vale a dire che non rispecchiava la realtà economica. L’ufficio riteneva applicabile tale clausola antiabuso anche nell’ordinamento italiano – seppure le previste prescrizioni non erano ancora state trasposte nell’ordinamento interno – quale canone interpretativo dell’art. 27-bis citato. Ancora disquisiva sulla portata del significato della parola “genuinità” contestando quella della società. Continuava poi nell’esporre le risultanze istruttorie emerse in sede di risposta al questionario n. (omissis) nella quale la ricorrente sottolineava dando ampio risalto alla propria struttura organizzativo-funzionale-finanziaria e della presenza di personale altamente qualificato – risultante dalla importante riorganizzazione aziendale messa in essere dalla casa madre statunitense – che, appunto, ne rispecchiavano la genuinità imprenditoriale del gruppo stesso. Ancora, secondo la ricorrente, l’operazione di riorganizzazione non poteva essere considerata quale costruzione di puro artificio. L’ufficio contestava una siffatta ricostruzione, dato che non era necessario che un soggetto che svolgeva servizi di (omissis) doveva necessariamente detenere una partecipazione di controllo nei confronti dei soggetti nei cui confronti i detti servizi erano resi.
Chiariva l’agenzia come in alternativa all’acquisto si poteva ricorrere al conferimento della partecipazione detenuta da B. in B. così da evitare l’indebitamento di quest’ultima e conseguente pagamento di interessi passivi. Ai fini della valutazione di detta genuinità l’ufficio chiariva come l’acquisto della partecipazione nella italiana era avvenuto tramite un operazione L. a seguito della quale la francese aveva rilevato le quote dell’italiana attraverso un ingente finanziamento erogato dalla lussemburghese B.L.. Quest’ultima si era approvvigionata grazie ai finanziamenti ottenuti da B. infusione e B.B.. Tramite una tabella dava evidenza dei dati economici principali della francese evidenziando come la stessa nel periodo 2010-2014 aveva incassato dividendi per oltre 100 milioni di euro ma aveva pagato interessi passivi, per il finanziamento concesso dalla B.L. per oltre 129 milioni di euro, con una perdita media della gestione operativa, nei quattro anni, di oltre 1,7 milioni di euro.
Sulla base di ciò l’ufficio riteneva che la descritta riorganizzazione del gruppo aveva lo scopo di sfruttare i vantaggi della direttiva madre figlia, realizzato mediante la tecnica degli apporti di capitale verso finanziamenti infruttiferi, opportunamente collocati presso le varie giurisdizioni europee. Era evidente come la (omissis) francese, designata a partire dall’anno 2010 quale sub-holding regionale, avesse il solo scopo di trasformazione dei dividendi provenienti dalle società operative, in interessi passivi. Deduceva ciò dato che il gruppo avrebbe potuto ottenere il medesimo scopo riorganizzativo tramite dei conferimenti che avrebbero escluso l’indebitamento. Ancora insisteva evidenziando come la francese aveva lo scopo di “dirottare” fuori dall’UE sotto forma di interessi i dividendi percepiti dall’Italia. Ancora la B., interamente posseduta dalla B.L., la quale aveva finanziato la controllata francese per l’acquisizione delle società operative, tra cui la verificata, era stata acquistata a sua volta dalla B.B. che ne è l’unico socio e, di conseguenza, l’unico percettore dei dividendi erogati da B. Lo schema su esposto aveva permesso di conseguire una serie di vantaggi tra cui:
– omessa effettuazione di ritenute sui dividendi (ante riorganizzazione tali dividendi sarebbero stati tassati al 5% in applicazione della Convenzione con gli USA);
– ingenti interessi passivi in capo alla francese che sono stati dedotti in Francia.
Con l’aggiunta che, a fronte della deduzione passiva di interessi passivi in Francia non risulta che i corrispondenti interessi attivi siano stati tassati in Lussemburgo, come risulta da un’apposita tabella della società D. Chiariva come la stessa aveva come ricavi i dividendi e gli interessi attivi sul finanziamento concesso alla francese e che i dividendi incassati erano soggetti al regime pex e altro ancora. Infine nei quattro anni considerati la società aveva incassato oltre 600 milioni di dollari e aveva pagato come tasse solo 75 mila dollari. Ancora i militari non erano riusciti ad ottenere i bilanci della società in B. ma dall’esame dei dati di bilancio delle sue controllanti che sono lussemburghesi B.W. (95%) e B.M. (5%) era emerso che la società bermudense aveva distribuito dividendi per importi consistentemente superiori rispetto a quelli ricevuti dalla B.L.. In sintesi, B.W. incassava dividendi esenti in relazione alle partecipazioni in B.B., B.M., B.G. e pagava interessi passivi alla propria controllante di diritto lussemburghese B.L. SCS, in relazione ad un finanziamento di (omissis). A causa di questo finanziamento di 12 miliardi la società B.W. era sempre in perdita, con l’eccezione dell’esercizi in cui aveva avuto una plusvalenza di 2 miliardi di euro. La B.L. SCS era una società tassata per trasparenza, controllata da una società americana B.I. con sede nello Stato del D. la cui legislazione prevedeva la non rilevanza fiscale dei redditi prodotti all’estero da soggetti non residenti ed imputati per trasparenza a soggetti residenti. Pertanto lo schema su esposto aveva consentito oltre al godimento strumentale della direttiva madre figlia anche una generale minimizzazione del carico fiscale. Sulla sostanza economica e alla natura delle funzioni svolte dalla francese, l’ufficio non aveva nulla da eccepire ma era nelle gestione finanziaria che erano emerse delle criticità tali da far dubitare della genuinità della società, priva di sostanza economica ed atta a conseguire dei soli vantaggi fiscali, come sopra delineati. Era pur vero che il sindacato dell’ufficio non poteva spingersi fino alla scelta delle fonti di finanziamento, ma era pur vero che tale scelta (di indebitarsi) incontrava dei limiti laddove era configurabile, nel caso concreto, un ipotetico abuso. Sul punto chiariva come gli interessi attivi contabilizzati da B.L. in relazione ai finanziamenti concessi a B. non erano stati soggetti a tassazione e gli stessi erano successivamente pervenuti a società domiciliate in paradisi fiscali. Ravvisava poi comportamenti antieconomici in ordine alla sostenibilità dell’ingente finanziamento ottenuto dalla società lussemburghese. Sull’intervenuta modifica del comma 5 dell’art. 27-bis D.P.R. 600/73 l’ufficio replicava come al caso in esame era applicabile la versione ratione temporis vigente. Sulla notifica dell’atto effettuata ad un soggetto non legittimato, l’Ade replicava allegando documentazione probante. Sull’eccepita giuridica inesistenza dell’atto impugnato in quanto non rispondente allo schema tipico previsto, con specifico riferimento alla sua componente precettiva, l’agenzia evidenziava quanto di seguito: che gli interessi erano puntualmente stati determinati e che gli oneri di funzionamento della riscossione non erano stabiliti proprio perché ancora non si era giunti a quella fase e che il ruolo era ordinario. Anche sull’eccezione circa l’aggio di riscossione l’ufficio rimandava alla precedente replica. Sull’eccepita illegittimità dell’accesso l’ufficio replicava che i verificatori avevano agito con esecuzione dell’incarico affidatogli dalla DRE della Lombardia. Sul difetto di motivazione dell’atto impugnato l’ufficio evidenziava come l’eccezione era infondata dato che l’avviso era stato legittimamente emesso ai sensi della versione applicabile dell’art. 27-bis, D.P.R. 600/73 con conseguente inconferenza del richiamo, fatto da controparte, all’art. 10-bis dello Statuto. Sulla motivazione in generale l’ufficio respingeva le accuse essendo l’atto ben motivato in ogni sua parte, come anche dimostrato dalla ricorrente nel proprio ricorso. Sull’eccepita mancanza di motivazione in ordine all’irrogazione sanzionatoria specificava come le stesse erano perfettamente motivate. Sull’eccezione sulla proporzionalità della comminazione sanzionatoria evidenziava come l’eccezione era inconferente e basata su dati errati. Chiedeva il rigetto del ricorso.
In data 26 marzo 2019 parte contribuente depositava delle memorie attraverso le quali replicava all’Agenzia chiedendo l’accoglimento dell’originario atto introduttivo.
Presenti all’udienza le parti che hanno insistito nelle loro richieste ed eccezioni.
***
Il Collegio giudicante così decide. Il ricorso viene accolto alla stregua delle seguenti motivazioni ed argomentazioni. Come ben illustrato in parte descrittiva della presente sentenza, la controversia trae origine dall’impugnazione dell’avviso di accertamento relativo all’anno d’imposta 2013, a mezzo del quale l’Ufficio Grandi Contribuenti della Direzione Regionale Entrate Lombardia aveva accertato a carico dell’odierna ricorrente le maggiori ritenute non operate, né versate, per l’ammontare di € 1.031.040,00 e irrogato le relative sanzioni per il complessivo importo di € 1.247.558,00. Tale atto aveva trovato il suo fondamento nel processo verbale di constatazione (PVC), redatto nel giugno 2016 dai funzionari stessi, a conclusione della verifica a carico della società medesima. Il rilievo contenuto nell’avviso di accertamento impugnato, riguardava la distribuzione di dividendi effettuati dalla ricorrente a favore della B.D. Sas, (B.) società di diritto francese, divenuta controllante della società italiana nel 2010, in virtù di un piano di riorganizzazione del B. In particolare, nel corso delle operazioni di verifica, era emerso come tale riorganizzazione di gruppo, che aveva portato la consociata italiana ad essere controllata dalla B. di diritto francese, era stata preordinata allo scopo principale di razionalizzare il tutto, in meglio. Nell’annualità in esame, precisamente, sul dividendo dell’ammontare di oltre cinque milioni di euro distribuito alla controllante B. in data 20 febbraio 2013, la ricorrente non aveva effettuato alcuna ritenuta a’ sensi dell’art. 27 bis del D.P.R. 600/1973. Per le ragioni che sono contenute nell’avviso di accertamento impugnato e nel presupposto PVC, l’ufficio aveva ritenuto che sul citato dividendo la ricorrente avrebbe dovuto applicare la ritenuta a titolo d’imposta nella misura del 20%, prevista dal comma 3 dell’articolo 27 del sopra citato decreto presidenziale.
Sul merito della ripresa
Per quanto riguarda il merito della ripresa, questo Collegio giudicante si riporta all’organigramma più volte citato, negli atti di causa, da ambo le parti, vale a dire società e fisco, e tralasciando tutti i passaggi antecedenti all’anno 2010, nei documenti allegati al fascicolo veniva riportato che in data 30 settembre 2010, la società di diritto francese B. Sas, aveva acquistato l’intero pacchetto azionario di B., divenendone l’unico socio.
Secondo l’ufficio, la ricorrente non poteva applicare l’esenzione di cui all’art. 27-bis del D.P.R. 600/1973, sui dividendi distribuiti, in quanto, la B. avrebbe detenuto la partecipazione nella ricorrente allo scopo esclusivo o comunque principale di beneficiare del regime di esenzione della ritenuta d’acconto, a’ sensi del comma 5 della stessa norma. A giudizio di questo Giudice, la contestazione è innanzitutto infondata poiché la ricorrente agiva da mero sostituto di imposta di B. sulla base dei documenti da quest’ultima forniti, e si era limitata a valutare l’esistenza delle condizioni richieste dall’art. 27-bis D.P.R. 600/73 ai fini dell’applicazione dell’esenzione in commento. Innanzitutto, la partecipazione dalla quale il dividendo promanava doveva essere diretta e non inferiore – secondo la norma vigente ratione temporis – al 10% del capitale della società che distribuisce gli utili. Inoltre la consociata residente all’estero (la cd. “madre”) deve: a) essere una società costituita in una delle forme giuridiche indicate nell’allegato I parte A della direttiva n. (omissis); b) risiedere, ai fini fiscali, in uno Stato UE; c) risultare assoggettata ad una delle imposte indicate nell’allegato I parte B della medesima direttiva n. (omissis), senza fruire di regimi di opzione o di esonero; d) la partecipazione dalla quale il dividendo promana deve essere detenuta ininterrottamente per almeno un anno. Il secondo comma dell’art. 27-bis citato si premura di specificare che i requisiti di cui alle lettere a), b) e c) devono risultare da una certificazione rilasciata dalle competenti autorità fiscali dello Stato estero, mentre il requisito di cui alla lettera d) deve risultare da una dichiarazione della società madre. L’odierna ricorrente ha applicato correttamente l’esenzione da ritenuta sui dividendi distribuiti, oggetto dell’odierno contendere, in quanto aveva accertato l’esistenza dei riferiti requisiti mediante la ricezione della certificazione rilasciata dall’autorità fiscale estera e delle dichiarazioni della B. Infatti, l’allegato n. 6, unito al fascicolo processuale, è un attestato di residenza fiscale, rilasciato dall’Ufficio (omissis) che attesta che la società S.B. è residente in Francia e tale attestazione è valida per l’annualità 2013, essendo tale certificazione stata rilasciata il 4 marzo 2013. Altro documento importante risulta essere l’allegato n. 7, rilasciato dalla B. che attesta la regolarità dei requisiti voluti dalla legge stessa. In altre parole, il soggetto italiano può limitarsi ad assumere la certificazione fiscale rilasciata dal Paese estero quale valido elemento di prova della sussistenza in capo al soggetto estero dei requisiti richiesti dalle medesime disposizioni per beneficiare dei regimi fiscali di favore.
Questo Giudice si riporta all’orientamento della suprema Corte di cassazione che ha chiarito che la valutazione della sostanza economica di una società e, quindi, dell’aspettanza dell’applicazione di una ritenuta ridotta, deve essere effettuata caso per caso in funzione dell’attività e delle caratteristiche della società percipiente. E’ quindi evidente che a una società holding non possono essere richiesti gli stessi indizi di operatività di una società commerciale. In sintonia con quanto sopra, non può sussistere una “costruzione di puro artificio”, laddove si sia in presenza di una società dotata di sostanza economica, da valutare in funzione della specifica funzione da essa svolta. Dalla documentazione prodotta la B. è una società avente sostanza economica e che, quindi, non può essere considerata una costruzione di puro artificio. La stessa era stata costituita nel settembre 2010, al fine di razionalizzare la struttura del gruppo B., permettendo una migliore direzione delle società europee. Aveva assunto il controllo diretto ed indiretto di circa 40 società del gruppo, residente nell’area E. Oltre a ciò la B. si era presa la responsabilità di fornire alle controllate in E. i servizi infra-gruppo, nello specifico: attività di management generale, management finanziario, attività legale attività di tax, ed altro ancora. La stessa era dotata di una struttura fisica, personale e patrimoniale in grado di svolgere le funzioni e le attività per le quali era stata costituita. Nel ricorso era stato sottolineato il fatto che il consiglio di amministrazione di B. aveva esercitato le funzioni di indirizzo e coordinamento delle proprie controllate e, dal punto di vista patrimoniale, la società, a partire dal 2011 era stata dotata di una struttura finanziaria adeguata non solo per portare a termine l’acquisizione delle partecipazioni delle società che, nell’ambito della riorganizzazione del gruppo, dovevano essere trasferite sotto il suo controllo, ma anche per sostenere l’attività e remunerare in un congruo orizzonte temporale coloro che avevano finanziato l’operazione, sia tramite capitale di rischio, sia tramite quello di debito. La B. aveva sostenuto logiche imprenditoriali del tutto in linea con la prassi commerciale. In particolare, era stato evidenziato negli atti di causa che sul piano operativo erano stati prudenzialmente previsti più scenari, a seconda della percentuale di crescita del business. La correttezza di tale analisi era, peraltro, testimoniata dal fatto che, dopo la riorganizzazione, il risultato di esercizio di B. aveva avuto un costante miglioramento e le perdite di esercizio si erano ridotte significativamente, passando dai – € 27.806 mila del 2012 a – € 3.406 mila del 2014.
Va sottolineato il fatto che la riduzione della perdita di oltre l’80% in soli quattro anni non era e non è cosa da poco, e, altro punto da non sottovalutare era stato quello in cui B. aveva provveduto a monitorare e aggiornare la sostenibilità del proprio debito. Ciò era stato svolto con l’intervento della primaria società di revisione P., a cui era stata richiesta un’analisi della sostenibilità del debito. Ne deriva pertanto che né B. né tanto meno l’operazione di riorganizzazione che abbia portato alla sua costituzione, avevano potuto in alcun modo essere considerate costruzioni di “puro artificio” e tale circostanza non poteva negare i benefici derivanti dalla corretta applicazione dell’art. 27-bis, D.P.R. 600/73. A giudizio di questo Collegio giudicante erano state soddisfatte le valide ragioni economiche, nonostante l’ufficio avesse sostenuto che l’intera operazione di riorganizzazione societaria fosse preordinata ad ottenere un beneficio fiscale indebito, e, come tale, abusivo. La società, odierna ricorrente, aveva prodotto un documento diffuso in occasione della ristrutturazione, dal quale si evinceva che tale riorganizzazione veniva posta in essere per rafforzare la presenza del B. in Europa, nell’ottica di apportare crescita e innovazione in ogni settore in cui operava il gruppo stesso. Ebbene, la riorganizzazione in parola non si esauriva nella costituzione di B. come sopra accennato, infatti, la nuova struttura aveva comportato la creazione di due regioni di vendita, meglio identificate nel ricorso stesso, che avrebbero svolto servizi di supporto, oltre a coordinare l’attività delle controllate. Non solo, si legge negli atti di causa che erano stati individuati nuovi ruoli e era stato previsto l’ingresso di nuove risorse. Orbene, era stato delineato un complesso progetto di ristrutturazione, pienamente rispondente a logiche di business e non al “mero conseguimento di un risparmio fiscale”. Si legge sempre nel ricorso che la società B. aveva subito una verifica fiscale nel corso del periodo d’imposta 2017 da parte dell’amministrazione finanziaria francese, in esito alla quale non era stata mossa alcuna contestazione in ordine alla deducibile degli interessi passivi pagati a B.. Gli interessi attivi percepiti da quest’ultima non beneficiavano di alcuna esenzione: gli stessi erano infatti interamente parte del suo reddito imponibile. Va rilevato che B.L. aveva optato per il regime di consolidamento fiscale insieme alla consolidante B. S.a.r.l., e – a’ sensi della normativa e della prassi contabile lussemburghese – era solo quest’ultima a essere responsabile per le imposte dovute dal “consolidato fiscale” e a dover corrispondentemente indicarle nel proprio bilancio di esercizio, non essendo viceversa tale ultimo onere previsto per le società consolidate. Rileva altresì questo Collegio, nonostante l’ufficio avesse ragionato al contrario, che il beneficiario effettivo dei dividendi non poteva essere individuato nella società B.B. e dall’altro, che avesse basato la sua ricostruzione sulla circostanza che il “flusso” reddituale sarebbe arrivato alla società statunitense B.. Altro aspetto da non sottovalutare sta nel fatto che l’atto impugnato si appalesa in ogni caso illegittimo in quanto fondato sulla abrogata formulazione dell’art. 27-bis, comma 5, D.P.R. 600/73. Tale disposizione era stata abrogata dall’art. 26, comma 2, lett. b), L. n. 122/2016, con effetto 23 luglio 2016. Ossia, ben prima che venisse emesso l’atto impugnato, ricevuto dall’odierna ricorrente in data anteriore al 30 novembre 2017. Pertanto l’ufficio avrebbe dovuto applicare al caso de quo le garanzie procedimentali rafforzate previste dall’art. 10 bis, legge n. 212/2000.
Sulle altre doglianze mosse dall’odierna ricorrente, questo Consesso rileva quanto segue: per quanto riguarda l’aggio, il conteggio è corretto perché è stato calcolato in base a quanto stabilisce la norma al riguardo. Quindi, la contestazione viene rigettata. Anche sul difetto di motivazione dell’atto, le lagnanze delle ricorrente vengono rigettate. L’atto emesso dall’ufficio è ben motivato, ricco di elementi e di richiami giurisprudenziali ben circostanziati. La ricchezza di tali elementi ha permesso alla contribuente di ben difendersi, come in effetti lo ha fatto.
Sono queste le ragioni per le quali il ricorso viene accolto ed annullato in toto l’operato dell’ufficio.
Spese del giudizio
Le spese del giudizio seguono la soccombenza, come da dispositivo.
Il Collegio giudicante
P.Q.M.
annulla l’atto impugnato. Condanna l’ufficio alle spese, liquidate in € 10.000,00, oltre esborsi e accessori di legge.
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