Commissione Tributaria Provinciale di Roma sez. 13 sentenza n. 3590 depositata il 12 febbraio 2018
SANZIONI – VOLUNTARY DISCLOSURE – ESTEROVESTIZIONE – OBBLIGO DI COMPILAZIONE DEL QUADRO RW – PAGAMENTO SANZIONI – NON SUSSISTE
FATTI
Con il ricorso introduttivo del presente giudizio, il Sig. U.V., legale rappresentante della I.L. s.a., ha agito avverso l’avviso di accertamento n. (omissis) notificato in data 27.06.2017, con il quale l’Agenzia delle entrate, D.P. I Roma, ha irrogato la sanzione di € 164.229,75, ai sensi dell’art. 5 del d.l. n. 167 del 1990, convertito in legge 4 agosto 1990, n. 227 (recante “Rilevazione a fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l’estero di denaro, titoli e valori”) per la mancata compilazione del quadro RW dei Modelli Unico 2009-2010-2011-2012 e 2013, riferiti, rispettivamente agli anni dal 2008 al 2012.
Il ricorrente premette di aver provveduto a presentare, in data 30.11.2015, per conto della I.L. s.a., istanza di cd. voluntary disclosure, ai fini della regolarizzazione della posizione fiscale in quanto società da considerarsi oggettivamente “esterovestita”, da ritenere, dunque, ab origine soggetto residente, in quanto controllata al 100% dallo stesso Sig. V. ed avente ad oggetto esclusivo della propria attività la detenzione di partecipazioni in società residenti nel territorio dello Stato.
Contestualmente, il Sig. V. ha presentato dichiarazione di inizio attività ai fini IVA, indicando quale data di inizio il 18.03.2004.
Avverso l’avviso impugnato, la difesa del ricorrente ha dedotto, in primis, la nullità dell’atto per assoluta carenza di motivazione e per violazione del contraddittorio, avendo l’amministrazione omesso la comunicazione di avvio del procedimento, in tal modo precludendo anche la possibilità di accedere almeno ad un tentativo di accertamento con adesione.
Nel merito, parte ricorrente ha contestato la sussistenza dei presupposti alla base dell’avviso impugnato, in specie tenuto conto della circostanza che, in considerazione della ratio sottesa alla disciplina di riferimento, l’oggetto del monitoraggio fiscale deve essere individuato solo negli investimenti e nelle attività che si caratterizzano per il fatto di essere considerate come estere, nella prospettiva dell’accertamento di eventuali redditi imponibili in Italia potenzialmente sottratti a tassazione. Su tali basi, la difesa di parte ricorrente ha dedotto che in relazione ai titoli ed ai diritti di natura obbligatoria la qualificazione ai fini dell’applicazione della normativa de qua debba essere effettuata con riferimento al soggetto emittente e cioè a seconda che questo sia o meno residente all’estero. A sostegno di tale opzione interpretativa, parte ricorrente ha richiamato i lavori preparatori del D.L. n. 167 del 1990, nella parte in cui si afferma che con l’introduzione dell’art. 4 si è inteso sottoporre a monitoraggio quelle attività di natura finanziaria che, avendo come diretta controparte un soggetto non residente siano produttive di redditi di provenienza estera, sottolineando la mancanza di utilità di un monitoraggio fiscale in ordine a titoli emessi da soggetti residenti, tenuto conto dell’obbligo dell’erogante di sottoporre tali redditi a ritenuta alla fonte all’atto della corresponsione.
Muovendo da tale presupposto, dunque, parte ricorrente ha sostenuto che la I.L. s.a. non può che essere considerata soggetto fiscalmente residente in Italia sin dalla sua costituzione e ciò sia in ragione della riferibilità del centro decisionale a soggetti residenti in Italia, sia in quanto l’oggetto dell’attività (gestione di partecipazioni) è sempre stato localizzato in via esclusiva nel territorio nazionale, sia, infine, in quanto la “esterovestizione” ha costituito oggetto di diretta ammissione, in conseguenza della determinazione di accedere ai benefici fiscali previsti dalla procedura di voluntary disclosure, con dichiarazione espressa dell’inizio delle attività in data 18 marzo 2004. Da ciò conseguirebbe, pertanto, la sanatoria di ogni omissione.
In tale quadro, attraverso una articolata e puntuale ricostruzione della normativa in materia, la difesa del ricorrente si è soffermata sulla natura e sugli effetti della procedura di collaborazione volontaria che, a seguito delle modifiche introdotte con la l. n. 186 del 2014, è stata estesa anche a contribuenti diversi da quelli indicati nell’art. 4 del d.l. n. 167 del 1990, al precipuo scopo di incrementare l’appeal della procedura, evitando che i contribuenti fossero dissuasi dal procedere alla regolarizzazione delle proprie posizioni fiscali a motivo della difficile qualificazione di alcune particolari fattispecie. Nel rilevare che la procedura de qua, a differenza del c.d. “scudo” o del condono fiscale, connotati da assoluto anonimato e dall’applicazione di una imposta sostitutiva, è da inquadrare nel sistema di repressione fiscale, limitandosi ad introdurre una deroga riferita all’entità delle sanzioni penali e tributarie potenzialmente applicabili, il ricorrente ha rimarcato che tra i contribuenti interessati alla voluntary disclosure sono da ricomprendere anche le società “esterovestite”, alle quali è, quindi, consentito sanare la propria posizione ora per allora. Da ciò discende che la sanatoria involge tutti gli obblighi strumentali e sostanziali dell’ordinamento tributario, ivi compresi quelli prescritti in qualità di sostituto d’imposta, sicché, in presenza di personale dipendente, la società deve ritenersi soggetta anche agli obblighi riguardanti il versamento dei contributi previdenziali in Italia.
Contrariamente a quanto sostenuto dall’amministrazione, pertanto, non sussiste nella fattispecie alcuna violazione delle norme sul monitoraggio fiscale in quanto la I.L. s.a. non può più essere considerata soggetto estero.
L’Agenzia delle Entrate si è costituita in giudizio per resistere al gravame concludendo per la reiezione del ricorso in quanto infondato. Nell’escludere, alla stregua anche dell’orientamento espresso dalla giurisprudenza nazionale in materia, la configurabilità di un principio generale di contraddittorio in ordine alla formazione della pretesa fiscale, l’Agenzia resistente ha sottolineato che la procedura di voluntary disclosure, disciplinata dalla l. n. 186 del 2014, inerisce all’emersione spontanea delle attività finanziarie e patrimoniali costituite o detenute fuori dal territorio dello Stato in violazione degli obblighi tributari previsti dalla normativa italiana in tema di monitoraggio fiscale.
Tale procedura può essere attivata, fino al 30 novembre 2015, dagli autori delle violazioni degli obblighi di monitoraggio fiscale di cui all’art. 4, comma 1, del D.L. 28 giugno 1990, n. 167, siccome convertito dalla L. 4 agosto 1990, n. 227, commesse sino al 30 settembre 2014, sempre che il contribuente non abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento. Nella fattispecie, le deduzioni di parte ricorrente non sarebbero pertinenti e ciò in specie considerando che dall’istanza presentata dalla società per l’ammissione al beneficio, si evince che la I.L. s.a., di cui il sig. V. è legale rappresentante, ha dichiarato di essere una società “esterovestita”, non fittiziamente interposta; i bilanci allegati all’istanza, in particolare, evidenziano alla fine di ciascun periodo d’imposta dal 2008 al 2013, attività estere di natura finanziaria detenute dal V. in Lussemburgo (Paese eliminato dalla black list solo dal 23/12/2014), sicché, nonostante la presunzione fiscale di “esterovestizione” a carico della I.L. s.a., il contribuente avrebbe dovuto indicare tali attività nel quadro RW, ai sensi dell’art. 4 comma 1 del D.L. n. 167 del 1990. Su tali basi, l’amministrazione ha sostenuto la legittimità del proprio operato insistendo per il rigetto del ricorso. All’udienza del 31 gennaio 2018 la causa è stata trattenuta per la decisione.
MOTIVAZIONE
Il Collegio può procedere direttamente all’esame del ricorso nel merito, non emergendo questioni preliminari rilevabili d’ufficio ed in considerazione dell’assenza di eccezioni sollevate dall’amministrazione. Il ricorso merita accoglimento.
Il Collegio non ignora l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n. 24823/2015) secondo il quale il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Tale principio, tuttavia, è stato espresso in relazione a fattispecie del tutto diverse da quella che ne occupa, inerendo ai procedimenti di accertamento della pretesa tributaria, per i quali si è ritenuto di escludere una portata invalidante della violazione in argomento esclusivamente quanto ai tributi non armonizzati; per contro, ove vengano in rilievo tributi armonizzati opera in via diretta il diritto dell’Unione, sicché la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto.
L’atto impugnato integra, tuttavia, un provvedimento sanzionatorio, adottato in pretesa applicazione dell’art, art. 5 del d.l. n. 167 del 1990, convertito in legge 4 agosto 1990, n. 227 (recante “Rilevazione a fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l’estero di denaro, titoli e valori”) per la mancata compilazione del quadro RW dei Modelli Unico indicati nella narrativa in fatto. Va da sé che è proprio dalla intrinseca ed esclusiva natura dell’atto che deve farsi discendere, in applicazione dei generali principi e delle coordinate tracciate dalla stessa Corte Costituzionale, la necessità di garantire comunque il coinvolgimento dei soggetti interessati, rappresentando la comunicazione di avvio una fase indefettibile del procedimento, con la sola eccezione dovuta a specifiche esigenze di celerità ovvero dell’adozione di atti cautelari (Corte Cost., sent. 29 maggio 1995 n. 210). Del pari, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha più volte rimarcato che il “rispetto dei diritti di difesa costituisce un principio generale del diritto comunitario che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto adesso lesivo” (cfr. Corte giustizia 18.12.2008, causa C-349/07, Sopropè; id. 22.10.2013, causa C- 276/12, Sabou), con la conseguenza che “i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la propria decisione” (cfr. Corte di giustizia 24.10.1996, causa C-32/95 P, Lisrestal; id. 21.9.2000, causa C-462/98 P, Mediocurso; id. 12.12.2002, causa C-395/00, Cipriani; id. Sopropè, cit; id. Sabou, cit.).
Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa dell’amministrazione, dunque, la violazione delle garanzie di partecipazione procedimentale e delle correlate prerogative difensive, integra, nella specifica fattispecie che viene in rilievo nel presente giudizio, un vizio invalidante del procedimento.
A prescindere dalle considerazioni sopra svolte, il Collegio ritiene fondate anche le ulteriori deduzioni articolate dalla difesa di parte ricorrente, dirette a contestare la sussistenza dei presupposti alla base dell’irrogazione della sanzione.
E, invero, come correttamente ed articolatamente esposto dalla difesa di parte ricorrente, nell’impianto definito a seguito dell’entrata in vigore della l. n. 186 del 2014, la procedura di collaborazione volontaria nazionale è ammessa anche per le società esterovestite. Tale ammissibilità non è in contestazione ed è stata, del resto, sottolineata dalla stessa Agenzia delle Entrate nella circolare n. 10 del 13 marzo 2015, avente ad oggetto l’applicazione delle previsioni recate dalla predetta legge.
Dalla documentazione versata in atti emerge che la società I.L. s.a., formalmente con sede in Lussemburgo, risulta residente in Italia ai fini delle imposte sui redditi, realizzando le condizioni previste dall’art. 73, comma 3, del Tuir (oggetto principale e direzione effettiva in Italia) ed anche dall’art. 73, comma 5-bis, del Tuir. Tale qualificazione discende inequivocabilmente da tutte le circostanze e gli elementi evidenziati dalla difesa del ricorrente, comprovati ed autodichiarati anche in sede di presentazione dell’istanza diretta ad attivare il procedimento di collaborazione volontaria ai sensi dell’art. 1, comma 2 del sopra indicato testo normativo.
Vi è di più. L’unica attività svolta dalla suddetta società si sostanzia nella gestione di partecipazioni di controllo in società residenti in Italia e la diretta ed esclusiva riferibilità della I.L. al ricorrente è resa palese dalla detenzione da parte di quest’ultimo di un numero di azioni al portatore pari al 100% del capitale sociale.
In tale quadro, certamente la società I.L. non può essere considerata fittiziamente interposta, rendendosi anche necessaria, ai fini dell’ammissione ai benefici previsti, la sanatoria della propria posizione attraverso la voluntary disclosure nazionale, ma non può revocarsi in dubbio che detta società è da considerarsi, fin dalla sua costituzione, fiscalmente residente in Italia.
Ferme, dunque, le eventuali violazioni commesse dal ricorrente quanto a redditi che dovessero essere stati al medesimo erogati dalla I.L., come pure le conseguenze correlate alla stessa attivazione della procedura de qua da parte della società, in ragione dell’omissione delle dichiarazioni ai fini IRES IRAP e IVA – che nella fattispecie non vengono in considerazione – difettano i presupposti per l’applicazione dell’art. 4, comma 1 del d.l. n. 167 del 1990. Ai sensi di tale disposizione, infatti, “le persone fisiche (…) residenti in Italia che, nel periodo d’imposta, detengono investimenti all’estero ovvero attività estere di natura finanziaria, suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia, devono indicarli nella dichiarazione annuale dei redditi”; tale indicazione avviene attraverso la compilazione del quadro RW.
Va da sé, infatti, che esclusa, per le ragione sopra esposte, la qualificazione estera degli investimenti e delle attività manca in radice il presupposto al quale è correlato l’obbligo dichiarativo e, conseguentemente, deve escludersi la suscettibilità di una integrazione dell’illecito sanzionato dall’art. 5 del d.l. n. 167 del 1990.
L’art. 4 del D.L. n. 167 del 1990 presenta una formulazione estremamente chiara e non lascia adito a dubbi interpretativi; nella dichiarazione dei redditi devono essere indicati investimenti “all’estero” ovvero attività “estere” di natura finanziaria solo ove potenzialmente idonei a produrre redditi di fonte estera imponibili in Italia (in termini, Comm. Trib. II grado, Bolzano, Sez. 2 civile, 12 giugno 2014, n. 48).
Anche sul piano teleologico, non può che convenirsi con la difesa di parte ricorrente quanto alla ratio sottesa alla disciplina in materia di monitoraggio fiscale, funzionale ad assicurare l’individuazione degli investimenti e delle attività estere, nella prospettiva dell’accertamento di eventuali redditi imponibili in Italia potenzialmente sottratti a tassazione. La stessa estensione dell’ambito soggettivo di applicazione della procedura di collaborazione volontaria nazionale, risponde, del resto, anche all’esigenza di ovviare ad una situazione nella quale il socio persona fisica di una società di capitali residente, che avesse costituito attività all’estero mediante fittizie operazioni eseguite dalla società partecipata, era dissuaso dall’adesione alla procedura, poiché la sanatoria delle propria posizione avrebbe esposto a rischi di accertamento la società. Avallare una opzione interpretativa di diverso segno determinerebbe esiti del tutto speculari a quelli che il legislatore ha intesto scongiurare, in tal caso con esposizione del socio a seguito dell’adesione alla procedura della società “esterovestita”. In applicazione, inoltre, dei principi di legalità e tassatività, la previsione dell’art. 4 del D.L. n. 167 del 1990 deve ritenersi soggetta a regole di stretta in interpretazione, tenuto precipuamente conto della significatività del regime sanzionatorio previsto per la violazione dell’obbligo dichiarativo ivi prescritto, nonostante i temperamenti introdotti a partire dal 2013.
In conclusione, per le ragioni sopra esposte, il ricorso va accolto, con conseguente annullamento dell’atto impugnato.
In considerazione della novità delle questioni trattate, si valutano nondimeno sussistenti i presupposti per disporre l’integrale compensazione delle spese di lite tra le parti.
P.Q.M.
La Commissione
Accoglie il ricorso e per l’effetto annulla l’atto impugnato.
Spese compensate.
Possono essere interessanti anche le seguenti pubblicazioni:
- Commissione Tributaria Regionale per la Liguria sentenza n. 151, sezione 1, depositata il 3 febbraio 2020 - Non risulta possibile applicare alla procedura di collaborazione volontaria di cui al D. L. 167/990, la disciplina della cd. Voluntary…
- Commissione Tributaria Regionale per l'Abruzzo, sezione 6, sentenza n. 668 depositata l' 11 luglio 2019 - Ai sensi dell'art. 10, § 5, della Convenzione Italia-Regno Unito, una "persona" residente nel Regno Unito che riceve i dividendi da una società…
- Commissione Tributaria Regionale per il Lazio sezione 17 sentenza n. 6474 depositata il 20 novembre 2019 - È legittima la notifica degli atti presso la sede amministrativa effettiva in Italia di società “esterovestita”
- Corte di Cassazione ordinanza n. 32499 depositata il 4 novembre 2022 - In tema di accertamento su IVA e imposte dirette che, ai sensi dell'art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, nei confronti del soggetto che abbia gestito "uti dominus" una…
- Corte di Cassazione, sezione tributaria, ordinanza n. 1401 depositata il 15 gennaio 2024 - La disciplina dell'interposizione non prevede una responsabilità aggiuntiva dell'interposto oltre a quella dell'interponente, poiché la norma ha la funzione di…
- CORTE di CASSAZIONE, sezione tributaria, sentenza n. 5558 depositata il 1° marzo 2024 - In materia d'imposte sul reddito, l'art.15 della Convenzione Italia - Repubblica del Kazakhstan contro le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per…
RICERCA NEL SITO
NEWSLETTER
ARTICOLI RECENTI
- E’ onere del notificante la verifica della c
E’ onere del notificante la verifica della correttezza dell’indirizzo del destin…
- E’ escluso l’applicazione dell’a
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 9759 deposi…
- Alla parte autodifesasi in quanto avvocato vanno l
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 7356 depositata il 19…
- Processo Tributario: il principio di equità sostit
Il processo tributario, costantemente affermato dal Supremo consesso, non è anno…
- Processo Tributario: la prova testimoniale
L’art. 7 comma 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 (codice di procedura tributar…