Commissione tributaria provinciale di Taranto Ordinanza n. 186 del 9 settembre 2021
Contenzioso tributario – Spese del giudizio – Liquidazione a favore dell’ente impositore, dell’agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell’albo per l’accertamento e riscossione delle entrate degli enti locali – Previsione che, se assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell’importo complessivo ivi previsto.
– Decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), art. 15, comma 2-sexies.
(GU n.48 del 1-12-2021 )
***
Il Collegio, sciogliendo la riserva di cui all’udienza di discussione del 9 settembre 2021, nel giudizio tributario di primo grado contrassegnato dal N.R.G. 492/2020, promosso con ricorso presentato da XXXXXX, avvocato, costituita e difesa in proprio, nei confronti del Comune di San Giorgio Jonico, costituito e rappresentato a mezzo di funzionario interno, avverso l’avviso di accertamento n. 201938201088420000000737, per Tari 2014;
udite le parti, osserva quanto segue.
Ai fini della decisione del presente giudizio tributario, nell’ipotesi alternativa in cui soccombente sia la ricorrente, appare rilevante, pregiudiziale e non manifestamente infondata l’eccezione di incostituzionalità, che é stata sollevata da parte ricorrente e che viene recepita e, comunque, sollevata anche d’ufficio, del comma 2-sexies, art. 15 del decreto legislativo n. 546 del 1992, nella parte in cui dispone che «nella liquidazione delle spese a favore dell’ente impositore, dell’agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell’albo di cui all’art. 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, se assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell’importo complessivo ivi previsto. La riscossione avviene mediante iscrizione a ruolo a titolo definitivo dopo il passaggio in giudicato della sentenza.».
Il dubbio di costituzionalità investe, in particolare, il periodo andante dalle parole «se assistiti» sino alle parole «ivi previsto».
La Corte di cassazione ha affrontato e risolto più volte in senso negativo il quesito generale sull’ammissibilità della condanna del ricorrente soccombente alla refusione delle spese processuali in favore di una pubblica amministrazione, quando questa, nella logica
della semplificazione, della leale collaborazione con l’amministrato e del risparmio di tempo e di denaro pubblico, sia autorizzata a stare in giudizio per mezzo semplicemente di propri dipendenti, non iscritti ad alcun albo professionale e nemmeno necessariamente in possesso dei titoli per farlo.
L’esempio di scuola é costituito dal giudizio di opposizione ex art. 23, comma 4, della legge n. 689/1981, secondo cui l’opponente e l’autorità che ha emesso l’ordinanza possono stare in giudizio personalmente; la seconda, avvalendosi di funzionari interni delegati.
In tale sede, il giudice, con la sentenza, può rigettare l’opposizione, ponendo a carico dell’opponente le spese di procedimento o accoglierla.
Ma, quali sono le spese ripetibili e quando lo sono?
Come si anticipava, numerose pronunce univoche della Cassazione hanno confermato che alla pubblica amministrazione, che sta in giudizio a mezzo di proprio funzionario, spetta unicamente il rimborso delle spese vive, con esclusione delle competenze e degli onorari di procuratore di avvocato (vedi, Cassazione n. 1445/1994, n. 6454/1988, n. 4610/1987).
Il perché é semplice: difettando le relative qualità nel funzionario amministrativo che sta in giudizio (vedi Cassazione, 2ª Sezione civile, n. 11389 del 24 maggio 2011, Pres. Settimy, Rel. Petitti; Cassazione, Sez. 2, n. 30597 del 20 dicembre 2017).
Occorrerebbe, intuitivamente, che quegli fosse inquadrato in un ufficio legale dell’ente, con la qualifica di avvocato, per avere titolo ad assumerne la rappresentanza istituzionale e la difesa legale esterna e ad a giustificarne l’attribuzione del compenso tariffario relativo, come avviene per determinate istituzioni.
Ciò perché l’esercizio della professione di avvocato, libera o dipendente che sia, come qualsiasi altra legalizzata, ed il diritto ai compensi tariffari relativi non possono prescindere dal possesso del titolo accademico specifico e dell’abilitazione professionale corrispondente, conseguita all’esito di un esame di Stato.
Lo richiede l’art. 33 della Costituzione.
Chi avvocato abilitato non é non può pretendere nemmeno un surrogato di quei compensi e, se non può lui … neanche altri per lui.
Del resto, stare in giudizio personalmente o direttamente altro non vuol dire che presenziare e difendersi senza l’assistenza di un avvocato, per cui ammettere che una delle parti così costituite rivendicasse poi il compenso di avvocato, del quale, per scelta, non si é avvalso, sarebbe una contraddizione in termini.
Veniamo, adesso, alla specifica materia processual-tributaria.
L’art. 15 del decreto legislativo n. 546/1992, nel suo impianto originario, stabiliva (per la prima volta, rispetto al vecchio contenzioso tributario) che la parte soccombente é condannata a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con la sentenza.
Scritta così, la norma non si differenziava dall’art. 23 della legge n. 689/1981. Bastava darle un’interpretazione «orientata», perché i due regimi si allineassero, nel senso indicato dal giudice di legittimità.
Una diversità di regime, in ordine al riparto delle spese, non si giustificava, stante l’identità logico-giuridico-fattuale di situazioni.
Sennonché, con successive modifiche legislative (art. 12, decreto-legge n. 437/1996, art. 1, comma 32, legge n. 228/2012, art. 9 del decreto legislativo n. 156/2015) la norma é stata «implementata», sino a comprendere, al comma 2-sexies, la condanna del ricorrente soccombente, anche quando la controparte fosse assistita da propri funzionari, nella misura prevista dalle tariffe forensi, con lo «sconto» del 20%.
Dunque, funzionari promossi «avvocati» sul campo.
L’eccezione di incostituzionalità della modifica normativa, per ritenuta irragionevolezza e, come si vedrà, disparità di trattamento, fu già sollevata dinanzi alla Corte costituzionale, che, però, non poté esaminarla e risolverla nel merito, per riconosciuti rilievi di inammissibilità (C.C. n. 292 dell’8 ottobre 2010).
E tuttavia, la Corte di cassazione, con pronunce successive e recenti, quali quelle n. 27444/2020 e n. 9900/2021, ha continuato a seguire la linea della inammissibilità, anche nel processo tributario, delle spese processuali, per diritti di procuratore ed onorario di avvocato, in favore degli enti impositori o agenti della riscossione costituiti in giudizio a mezzo di propri funzionari, in virtù della solita, inossidabile argomentazione: difettando nei funzionari le relative qualità di procuratore e di avvocato.
C’é da chiedersi, però, come mai nelle pronunce appena menzionate non sia stato espressamente richiamato, per essere sottoposto ad esame critico specifico, il controverso comma 2-sexies, che, quelle contestate competenze invece riconosce.
Non avendolo richiamato, sembra quasi che la Cassazione abbia ritenuto la motivazione talmente a prova di logica ed assiomatica da non ipotizzarne nemmeno la messa in discussione ed essere perciò estendibile direttamente a qualsiasi fattispecie sovrapponibile, a prescindere dal contesto, per la contradizione che non consente, bastando agganciarsi al principio di buon senso sotteso.
Principio che, però, si scontra con la letteralità della norma, sollevando ormai un inevitabile conflitto.
Il dubbio é legittimo e la domanda non é più eludibile, a modesto parere del Collegio, alla luce della più recente e discordante pronuncia della Cassazione, Sez. tributaria, ordinanza 19 luglio 2021, n. 20590, la quale sembra avere letteralmente spezzato una lunga tradizione, riconoscendo non solo la insuperabilità formale, ma anche la congruità del comma 2-sexies, giustificando così una diversità di regime venutasi a creare, come appresso si dirà.
Dunque, il problema della costituzionalità della norma si pone, adesso, in tutta la sua consistenza.
La decisione n. 20590 fa leva sulle seguenti argomentazioni giustificative:
1) l’art. 15 del decreto legislativo n. 546/1992 avrebbe previsto da sempre la ripetibilità delle spese;
2) il processo tributario avrebbe propria autonomia;
3) la gestione del processo tributario richiederebbe una particolare competenza;
4) la Corte costituzionale, con ordinanza n. 117 del 1999, avrebbe ritenuto la questione di incostituzionalità non fondata.
Quanto al profilo n. 1, si osserva che non é esatto che l’art. 15 avrebbe da sempre previsto la condanna del ricorrente soccombente alla refusione delle spese processuali, nei confronti di ente impositore e concessionario costituiti a mezzo di propri funzionari, visto che tale possibilità é stata introdotta espressamente soltanto a partire dal decreto-legge n. 437 del 1996. Prima non era affatto così. In ogni caso, la vetustà operativa di una norma non é di per sé garanzia di legittimità.
Quanto al profilo n. 2, se é vero che il processo tributario ha una propria autonomia, é altrettanto vero che anch’esso, per quanto autonomo, deve avere una logica e francamente non si comprende in nome di quale logica, a parità di situazioni processuali altrove riscontrabili, debba valere un regime diverso.
Profilo n. 3. é vero che la materia tributaria richiede competenza; ma, si tratta, a ben vedere, della stessa competenza richiesta ai funzionari quando questi si trovano a svolgere attività interna di accertamento o di riscossione. Pertanto, non si capisce perché i funzionari dovrebbero ritenersi meno competenti quando accertano ed impongono il tributo e più competenti quando sono semplicemente chiamati a rendere conto del loro operato in giudizio;
tra l’altro, facendolo all’interno di un processo semplificato, come quello tributario, meramente documentale.
Nessuna sostenibile ragione, dunque, sembra giustificare la causa di questi diritti ed onorari di avvocato a favore di chi avvocato non é e che svolge funzioni non professionali in senso tecnico, ma inerenti al rapporto interno di lavoro subordinato e nell’adempimento di un dovere d’ufficio e/contrattuale.
La norma, per completare il quadro, prevede che il compenso sia totalmente incamerato dalla pubblica amministrazione di appartenenza, in virtù di un meccanismo che mal si concilia con il principio generale dell’ordinamento giuridico, che vieta di arricchirsi sine causa, consentendo di «incassare» compensi commisurati a tariffe forensi per il servizio d’istituto svolto da chi abilitato non é, senza che nemmeno sia richiesto che lo sia, e tutto ciò senza reale aggravio di spesa né per l’ente né per il funzionario.
L’ordinanza della Corte costituzionale n. 117/1999, anziché supportare, finisce per smontare la tesi di chi l’aveva invocata:
essa, infatti, lungi dal legittimare una diversità di regime a «sfavore» del ricorrente, semmai confermava la tesi contraria, nel senso della non ripetibilità delle spese per diritti ed onorario, proprio quando la pubblica amministrazione sia rappresentata in giudizio da propri funzionari. Per la solare ragione che non ci sarebbero diritti ed onorari da «rifondere».
Di conseguenza, le argomentazioni contenute nella sentenza di cassazione da ultimo citata non possono considerarsi convincenti e tali da sciogliere i dubbi di costituzionalità della norma, che permangono, sotto diversi aspetti.
La disposizione contenuta all’art. 15, comma 2-sexies, del decreto legislativo n. 546/1992, risulta, in modo non manifestamente infondato, contraria alla Costituzione, con riferimento agli articoli 3, 24 e 33, inscindibilmente collegati tra di loro.
Il vulnus all’art. 3 consisterebbe nella violazione del principio di ragionevolezza, quale sinonimo di uguaglianza sostanziale, codificato dalla giurisprudenza del giudice delle leggi. Esso esige che le disposizioni normative contenute in atti aventi valore di legge siano adeguate o congruenti rispetto al fine perseguito dal legislatore, per cui si ha violazione di esso, quando si riscontri una contraddizione interna alla norma oppure tra essa ed il pubblico interesse perseguito.
Ora, il sistema processual tributario prevede che enti impositori e agenti della riscossione possano stare in giudizio direttamente (art. 11, commi 2 e 3, del contenzioso tributario). Essi non possono rilasciare procura generale o speciale ad altri, a differenza del contribuente (comma 1, stesso articolo). Sempre a differenza del contribuente, i predetti non sono obbligati ad avvalersi di assistenza tecnica (art. 12, comma 1, del contenzioso), quale che sia il valore della causa. Insomma, in linea di principio, enti impositori e concessionari della riscossione possono e devono assumersi sino in fondo e direttamente la responsabilità del proprio operato, trattandosi di funzione pubblica non delegabile, senza obbligo di un difensore «esterno» abilitato, cioé di un libero professionista iscritto in apposito albo o dell’avvocatura pubblica, quando prevista. Ciò per intuibili ragioni di speditezza e di economia di spesa, non solo per la pubblica amministrazione, ma anche per lo stesso contribuente; inoltre, perché i funzionari interni delegati si presumono essere sufficientemente in possesso delle competenze tecniche del caso, essendo queste le medesime per le quali essi possono, in un primo tempo e con maggiore studio, accertare, imporre, riscuotere.
Insomma, il funzionario, nel momento in cui va a rappresentare l’ente di appartenenza dinanzi al giudice tributario, non fa altro che svolgere una attività rientrante nel proprio mansionario e nell’adempimento dei propri doveri d’ufficio o contrattuali, volta a dare conto dell’operato svolto.
Di conseguenza, non si capisce a quale titolo agli enti di appartenenza debbano essere riconosciuti, in caso di vittoria, diritti ed onorari di avvocato, semplicemente per l’attività di mansionario svolta da propri dipendenti.
Infatti, nell’ipotesi inversa, quando cioé il ricorrente si difenda da sé, senza obbligo di assistenza tecnica (art. 12, comma 2), non é previsto analogo trattamento a suo favore. Il che dà la cifra definitiva della irragionevolezza e disparità del sistema, a parità di situazioni.
Con il regime attuale, viene esposto a pericolo anche il diritto di difesa del ricorrente, che intenda difendersi da sé – di qui la violazione dell’art. 24 -, perché compromesso, compresso o condizionato dalla inevitabile messa in preventivo del rischio di dover sopportare spese processuali che, invece, controparte non corre, per lo meno nelle cause di valore più contenuto.
Insomma, quando si difendono da sé, ricorrente ed ente impositore non contendono ad armi pari: infatti, in caso di vittoria, al ricorrente, senza avvocato, non spetta nulla, mentre all’ente, senza avvocato, spettano diritti ed onorario di avvocato. Senza un avvocato!
In questo caso, il meccanismo vigente, finisce per diventare, per il ricorrente, l’equivalente di una sanzione punitiva mascherata e, quindi, un deterrente idoneo a condizionare il libero e pieno esercizio del diritto di difesa.
La disposizione violerebbe, in ogni caso e più in generale, l’art. 33 della Costituzione, secondo cui nessuna professione può essere esercitata senza abilitazione, quando prescritta.
Ora, poiché il funzionario delegato rappresenta l’ente in quanto dipendente, a prescindere dal possesso di un titolo accademico e di
una abilitazione professionale, ma, semplicemente, per dovere d’ufficio o contrattuale, riconoscere a favore dell’ente stesso, in caso di vittoria, diritti ed onorario di avvocato, significherebbe equiparare un’attività rientrante nei doveri del lavoratore alla libera professione forense, legalizzandola di fatto, in violazione del dettato costituzionale.
Gli illustrati profili di irragionevolezza normativa, di compressione del diritto di difesa, di ingiustificata diversità di regime, a parità di fattispecie, e di surrettizia «legalizzazione» dell’esercizio della professione di avvocato da parte del funzionario delegato non abilitato richiedono, a modesto parere del Collegio, un intervento chiarificatore e risolutivo da parte dell’on.le giudice delle leggi.
P.Q.M.