COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE MILANO – Ordinanza 30 novembre 2017
Spese processuali – Liquidazione giudiziale dei compensi professionali – Abrogazione delle tariffe professionali. – Decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, art. 9, comma 1
Premessa in fatto e svolgimento del giudizio
Con ricorso-reclamo il ricorrente ha impugnato un avviso di liquidazione col quale è stato accertato l’omesso versamento dell’imposta principale di registro dovuta su atto giudiziario costituito da decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo emesso in data 20 febbraio 2015 dal Giudice di pace di Milano, su ricorso dell’istante dott. G. M. contro la F.G. srl; le pronunce giudiziali contenute nel decreto sono state pertanto assoggettate, a vario titolo, ad imposta di registro nella misura liquidata in complessivi € 807,00.
Non essendo stato versato detto importo l’Ufficio notificava alle parti del procedimento monitorio avviso di liquidazione del tributo posto a carico di entrambe in solido.
Il ricorso avverso l’avviso di liquidazione è affidato alle seguenti premesse e correlati motivi:
avendo il Giudice di pace posto a carico del soccombente l’onere di pagamento delle spese legali, tra le quali va annoverata anche l’imposta di registro, l’Agenzia avrebbe dovuto intraprendere l’azione di riscossione dell’imposta nei confronti del soggetto dichiarato dal Giudice tenuto al pagamento delle spese.
Non vengono sollevate questioni afferenti all’entità del tributo ed all’applicazione di più voci di tariffa.
L’Agenzia si è costituita in giudizio rilevando che l’imposta di registro è imposta d’atto che tassa, nel caso di specie, l’atto giudiziario costituito dall’ingiunzione di pagamento del Giudice di pace di Milano;
Deduce che in tema di registrazione degli atti giudiziari, ai sensi dell’art. 57, comma 1, del Testo unico di registro (d.P.R. n. 131/1986) le parti in causa sono tenute in solido al pagamento del tributo, salvo rivalsa nel rapporto interno.
Con memoria ex art. 32, comma 2, d.lgs. n. 546/1992 il ricorrente assume che sotto il profilo privatistico la parte soccombente è tenuta al pagamento di tutte le spese del processo salvo che il giudice abbia disposto diversamente, circostanza che non si è verificata nell’ispecie, di talché non si potrebbe prescindere dall’esito della lite.
La norma tributaria non potrebbe pertanto sovrapporsi a quella civilistica. All’udienza odierna la Commissione ha trattenuto in decisione il ricorso.
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato e va respinto.
Parti in causa, nel procedimento per ingiunzione di pagamento avanti al Giudice di pace di Milano, che ha condotto alla pronuncia del decreto ingiuntivo sottoposto ad imposizione, sono stati tanto la parte convenuta, resistente quanto il ricorrente, il quale peraltro ha intrapreso il procedimento e come tale deve, come si dirà, iniziare a sopportare le spese di lite, salvo rivalsa nei confronti dell’avversario, eventualmente dichiarato soccombente, secondo le norme afferenti la solidarietà dell’obbligazione pecuniaria stabilite nel corpo del codice civile.
Pertanto, come parte del giudizio, esso ricorrente deve rispondere del tributo di registro, salvo regresso nei confronti della società ingiunta.
Peraltro va evidenziato che il ricorrente ha dato atto che la società debitrice ha successivamente alla notifica dell’atto giudiziario provveduto al pagamento di capitale, interessi e spese elencati nell’ano di precetto.
Nel predetto atto di intimazione viene espressamente indicata, quale voce di pagamento intimata, ancorché non indicata nel suo preciso ammontare, anche la «tassa di registro» recte imposta di registro. Può fondatamente ritenersi che l’importo esatto non sia stato indicato perché alla data di redazione del precetto tale importo era del tutto sconosciuto, atteso che – anche per esperienza diretta di questo relatore – l’Agenzia delle entrate, stante la mole di lavoro che deve smaltire a Milano, impiega diversi mesi per liquidare le imposte sugli atti giudiziari.
Non è dato conoscere se in sede di pagamento la società debitrice abbia provveduto a rifondere anche il tributo, ove quantificato «a parte» ossia in sede stragiudiziale, o esecutiva, a seguito di pagamento spontaneo o di accesso dell’Ufficiale Giudiziario incaricato di tentare il pignoramento, di pagamento effettivo.
In ogni caso però, anche se non indicata nell’atto di precetto, l’imposta deve essere rifusa, se del caso mediante ulteriore intimazione (precetto) ed esecuzione forzata ad hoc.
Il ricorrente avrebbe pertanto dovuto o indicare l’esatto importo dell’imposta nell’atto di precetto 26 marzo 2015, attendendo tempi e liquidazione operata dall’Ufficio, ovvero procedere in seguito separatamente per il recupero forzato di detto importo.
Nel rapporto diretto con le parti del procedimento monitorio, l’Agenzia delle entrate ha invece facoltà di escutere l’uno o l’altro dei debitori solidali, senza che il ricorrente possa eccepire alcun beneficum excussionis, che non trova fondamento in alcuna disposizione di legge tributaria, essendo previsto in casi speciali non suscettibili di applicazione analogica (come in tema di debiti dei soci delle società di persone) ma che anzi va escluso anche in forza della considerazione che chi agisce in giudizio è tenuto ad anticipare ogni spesa occorrente per il procedimento (e quindi anche il tributo di registro) salvo regresso nei confronti della parte convenuta o resistente che risulterà soccombente e quindi tenuta a sopportare il carico definitivo delle spese, spese che includono anche l’imposta di registro.
Il ricorso deve pertanto essere reietto.
Quanto al regolamento delle spese, esse vanno poste a carico della parte ritenuta soccombente, ossia del ricorrente, e a favore dell’Agenzia delle entrate.
Dovendo provvedere alla liquidazione di tali spese, questa Commissione è chiamata ad applicare anzitutto il disposto di cui all’art. 15 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, il quale, al comma 2-sexies, dispone che nella liquidazione a favore dell’ente impositore, dell’agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell’albo di cui all’articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, se assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell’importo complessivo ivi previsto. La riscossione avviene mediante iscrizione a ruolo a titolo definitivo dopo il passaggio in giudicato della sentenza.
Nel procedimento in oggetto l’Ente impositore, ovverosia l’Agenzia delle entrate, regolarmente costituitasi, è assistita da un proprio funzionario.
Ora avviene che il d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 (c.d. decreto-legge sulle liberalizzazioni), convertito, con modificazioni, in legge 24 marzo 2012, n. 27, all’art. 9 («Disposizioni sulle professioni regolamentate») al comma 1, ha così disposto: «Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico.» e al comma secondo del medesimo articolo dispone che «ferma restando l’abrogazione di cui al comma 1, nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante».
La questione è dunque rilevante sotto il profilo dell’applicabilità di tale norma alla fattispecie.
Ritiene questa Commissione di dover sottoporre alla Corte costituzionale lo scrutinio di legittimità costituzionale dell’art. 9 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, nonché, per illegittimità derivata, della legge 24 marzo 2012, n. 27, di conversione e, di conseguenza di ogni altra normativa di settore – quali l’art. 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, e il decreto ministeriale 10 marzo 2014, n. 55 – che abbia fatto seguito all’intervenuta abrogazione introducendo altre diverse specie di tariffari, nonché ogni altra normativa derivata dal vizio originario che qui si censura.
Ad avviso della Commissione la norma confligge col principio di cui all’art. 77 Cost. che subordina l’esercizio del potere legislativo da parte dell’Esecutivo alla ricorrenza dei requisiti di necessità ed urgenza, che nel caso di specie non ricorrono entrambi, neppure essendo richiamato il primo (quello della necessità) nel preambolo del decreto-legge in esame.
Emblematico dell’eccessiva frettolosità e quindi dell’approssimazione con la quale è stata concepita la norma è l’incipit del decreto (contenuto nel preambolo che deve fondare la giustificazione del corretto esercizio del potere legislativo da parte dell’Esecutivo) il quale recita: «Il Presidente della Repubblica, visti gli articoli 77 e 87 della Costituzione; ritenuta la straordinarietà ed urgenza di emanare disposizioni per favorire la crescita economica e la competitività del Paese (sic.), al fine di allinearla a quella dei maggiori partners europei ed internazionali, anche attraverso l’introduzione di misure volte alla modernizzazione ed allo sviluppo delle infrastrutture nazionali, all’implementazione della concorrenza dei mercati, nonché alla facilitazione dell’accesso dei giovani nel mondo dell’impresa…».
Il presupposto per la legittima promulgazione di un decreto-legge non è solo quelle della straordinarietà (del caso) e quello dell’urgenza bensì soprattutto requisito della necessità.
Un evento può essere straordinario, ossia eccezionale, insolito e urgente, ma non per questo necessario. A meno di ipotizzare che il legislatore sia un illetterato, che confonde straordinario con necessario, devesi ritenere che l’estensore del decreto-legge abbia inteso ben distinguere l’attributo «straordinario» e la nozione di necessità, perfettamente intuendo che i provvedimenti vergati (di getto) non fossero «necessari» al Paese ma soltanto straordinari (oltre che, asseritamente, urgenti), e si sia quindi intenzionalmente astenuto dall’usare l’impropria qualifica di necessari.
D’altro canto nel preambolo in esame non vi è alcuno specifico riferimento, al di là di fumose e generiche petizioni di principio, al caso che ci occupa, ossia ad una assunta necessità di risolvere, attraverso la norma incriminata, un «problema» di carattere «nazionale» che non possa essere risolto con legge ordinaria, e che potrebbe trovare soluzione, quantomeno ad avviso e nell’intendimento dell’Esecutivo, nella norma in esame.
Le tariffe professionali forensi (che questa commissione sarebbe oggi chiamata ad applicare nello specifico, se non fossero state abolite – invero per sostituirle con altri parametri, che trovano la loro origine nell’abrogazione delle prime, che pertanto non potrebbero essere applicate se non ritenendo infondata l’incostituzionalità dell’abrogazione delle tariffe originarie) sono in vigore, salvi gli adeguatamenti disposti, periodicamente con decreti ministeriali, a far tempo dall’entrata in vigore della legge 13 giugno 1942, n. 794 (intitolata «Onorari di avvocato e di Procuratore per prestazioni giudiziali in materia civile»).
Esse hanno svolto egregiamente la propria funzione nell’arco di ben 70 anni senza che abbiano prestato il fianco a censure e critiche che ne abbiano intaccato la validità.
Ciò che più rileva è che esse hanno anche resistito a tentativi indirizzati a censurarne la pretesa incongruenza con la normativa comunitaria: va infatti rammentato che a seguito di ordinanza del Pretore di Pinerolo che aveva chiesto alla Corte di Giustizia europea una pronuncia pregiudiziale di interpretazione della norma di cui all’art. 85 dell’allora trattato CE, la Corte lussemburghese – con sentenza 19 febbraio 2002 in causa C-35/99 – ha statuito che «Pertanto. non si può ritenere che lo Stato italiano abbia delegato ad operatori privati la responsabilità di prendere decisioni di intervento nel settore economico, il che porterebbe a privare del suo carattere pubblico la normativa di cui trattasi nella causa principale. Per i motivi esposti ai punti 41 e 42 della presente sentenza: non gli si può neanche contestare di imporre o di favorire la conclusione di intese in contrasto con l’art. 85 del Trattato di rafforzare gli effetti. Occorre quindi risolvere le questioni pregiudiziali nel senso che gli articoli 5 e 85 del Trattato non ostano all’adozione da parte di uno Stato membro di una misura legislativa o regolamentare che approvi, sulla base dì un progetto stabilito da un ordine professionale forense, una tariffa che fissa dei minimi e dei massimi per gli onorari dei membri dell’ordine, qualora tale misura statale sia adottata nell’ambito di un procedimento come quello previsto dalla normativa italiana.».
Dunque la normativa soppressa, in tema di tariffe professionali, quantomeno in ambito forense non confligge con le regole della libera concorrenza che, ricordiamo, l’acquis communeautaire tutela, col fine precipuamente (se non esclusivamente) economico di favorire la riduzione dei prezzi.
Dunque il preteso favor per la crescita economica e la competitività del Paese è invocato a sproposito con riguardo all’abolizione delle tariffe professionali, per nulla necessaria.
Del resto non si vede come possa «favorire la crescita economica e la competitività del Paese, al fine di allinearla a quella dei maggiori partners europei ed internazionali, anche attraverso l’introduzione di misure volte alla modernizzazione ed allo sviluppo delle infrastrutture (quali? quelle forensi?) nazionali, all’implementazione (termine ormai abusato, impropriamente mutuato dal linguaggio informatico) della concorrenza dei mercati (endiadi che contiene un evidente pleonasmo, non potendo esserci concorrenza se non nell’ambito di un mercato), nonché alla facilitazione dell’accesso dei giovani nel mondo dell’impresa la norma della cui legittimità si dubita.
La crescita economica di un Paese dipende (ancora) dalla bilancia dei pagamenti (ossia dalla differenza tra i valori delle esportazioni e delle importazioni) e non certo dall’esistenza di un tariffario che serve unicamente (per quanto qui rileva) a circoscrivere la misura del rimborso che la parte soccombente deve alla parte vittoriosa: il trasferimento di ricchezza dalla parte soccombente a quella vincitrice in causa rappresenta dunque una partita di giro che non influenza affatto l’incremento della ricchezza delle nazioni. Poiché il numero dei ricorsi accolti dalle Commissioni tributarie è, sulla base dei dati pubblicati dall’Istat, pressochè equivalente a quello dei ricorsi respinti, la somma delle spese liquidate a favore dei privati ricorrenti equivale a quella delle spese riconosciute a favore dell’Erario, con conseguente compensazione e partita di giro che non rappresenta un arricchimento né dell’Erario né dei contribuenti.
In effetti l’unica incidenza della c.d. liberalizzazione delle tariffe si riverbera, ma in senso negativo, senza contropartita assiologica o economica, sul reddito delle categorie professionali incise dal provvedimento censurato, concretizzandosi in un depauperamento del professionista (ragioniere, commercialista, geometra, consulente del lavoro o avvocato) che abbia assistito il contribuente nel giudizio tributario, senza che tale minor locupletazione possa incidere sull’economia nazionale, men che meno sulla libera concorrenza professionale, ed anzi finisce per incidere sui consumi, riducendo la capacità d’acquisto del reddito prodotto in sede professionale.
Nel caso, che ci occupa, della liquidazione delle spese di giudizio, l’abolizione delle tariffe previgenti, e la loro sostituzione, di fatto, con altri parametri (che in realtà non fanno che ricalcare confusamente e semplicisticamente le vecchie tariffe) non costituisce affatto una liberalizzazione in quanto il Giudice chiamato a liquidare le spese non è equiparabile ad un’impresa che agisce in un regime di libero mercato e non si trova a dover concorrere con chicchessia: non è quindi in grado di influenzare in alcun modo l’economia nazionale.
Un istituto che si reggeva da anni, e che ha resistito anche alle ben più gravi emergenze del periodo bellico, è stato dunque cancellato con un vero e proprio, spregiudicato, colpo di spugna mai preceduto da alcun pubblico dibattito, ad opera di un Governo sorto per sopperire ad altre emergenze, di ben più ampio respiro finanziario ed economico, la cui legittimazione, peraltro di fatto discussa, ha avuto necessariamente vita breve, essendo stato alfine sostituito da un esecutivo su base rappresentativa.
L’Esecutivo che avrebbe dovuto fronteggiare le emergenze di natura finanziaria ed economica ha dunque travalicato l’ambito ed i confini che ne avevano suggerito la nascita, ponendo mano, con lo strumento del decreto-legge, ad una riforma istituzionale che esulava dai suoi compiti, circoscritti e ben delineati.
Ma v’è di più: il c.d. decreto sulle liberalizzazioni è il tipico decreto omnibus nel quale sono costipati i provvedimenti più disparati e che serve per veicolare spregiudicatamente qualsiasi novità legislativa surrettiziamente introdotta dal potere esecutivo per perseguire finalità frutto di isolate e personalissime intuizioni, precedentemente mai oggetto di dibattito democratico e quindi non avvertite come effettivamente necessarie.
Nel coacervo di norme originato dal decreto in oggetto si intravedono materie di ogni tipo, per taluna delle quali forse, ma non certo per tutte allo stesso modo (sarebbe una coincidenza veramente unica!), possono ravvisarsi i requisiti di necessità e urgenza.
La Corte costituzionale ha severamente ammonito che «l’utilizzazione del decreto-legge non può essere sostenuta dall’apodittica esistenza delle ragioni di necessità e di urgenza, né può esaurirsi nella constatazione della ragionevolezza della disciplina che è stata introdotta». Occorre invece riscontrare se le affermate ragioni di necessità e urgenza siano riferibili a tutte le norme contenute nel decreto. Nel caso preso in esame dalla Corte – considerato che nel preambolo di quello oggetto del sindacato della Corte, i requisiti previsti dall’art. 77 Cost. erano invocati per emanare disposizioni in tema di enti locali, ha concluso che nulla risultava dal preambolo o dal contenuto degli articoli che avesse attinenza con i requisiti prescritti, nell’ispecie, per concorrere alla carica di sindaco, dichiarando l’incostituzionalità della norma censurata.
Si confronti in dottrina Marongiu ne «Lo Statuto dei diritti del contribuente», Giappichelli ed. Torino, anno 2010.
Per quanto concerne il problema se la legge di conversione di un decreto-legge possa rivestire efficacia riparatrice dell’originario vizio di forma (e sostanza) dei decreti privi dei requisiti di necessità e/o urgenza, dopo un primo orientamento che ammetteva la conversione (sanante) ad opera della successiva legge, dei decreti-legge ancorché privi dei requisiti previsti dall’art. 77 Cost., è invalso un nuovo orientamento del Giudice delle leggi il quale, con varie ordinanze e sentenze, fra le quali Corte cost. 27 gennaio 1995, n. 19 e Cost. 23 maggio 2007, 171, ha stabilito, con la prima, che «il difetto dei requisiti del caso straordinario di necessità e urgenza, anche una volta intervenuta la conversione … si traduce in un vizio in procedendo della relativa legge onde l’esistenza dei centrati requisiti può essere oggetto di scrutinio di costituzionalità» e con la seconda: «affermare che la legge di conversione sana in ogni caso i vizi del decreto significherebbe attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle norme primarie … (di tal che) … occorre verificare … se risulti evidente o meno la carenza del requisito della straordinarietà del caso di necessità e d’urgenza cui provvedere».
Nessuna efficacia «sanante» può pertanto essere attribuita alla legge di conversione di un decreto-legge invalido.
La Commissione tributaria provinciale di Milano, sezione settima,
P.Q.M.
Visto l’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
Ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza;
Rimette alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, in legge 24 marzo 2012 n. 27, («Disposizioni sulle professioni regolamentate»), per contrasto con l’art. 77 della Costituzione, nella parte in cui, senza che ricorresse né fosse stato invocato nel preambolo o successivamente nel corpo della norma il requisito della necessità previsto dal citato art. 77, ha introdotto nell’ordinamento giuridico la seguente norma: «Sono abrogate le tariffe delle professioni regolomentate nel sistema ordinistico», nei sensi di cui in motivazione, atteso che il presupposto per la legittima promulgazione di un decreto-legge non è solo quello della straordinarietà e quello dell’ urgenza ma anche il requisito della necessità;
Sospende il giudizio e dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
Ordina che, a cura della Segreteria, la presente ordinanza sia notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
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