COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE PESARO – Sentenza 18 marzo 2020, n. 70
Tributi – TOSAP – Accertamento – Occupazione mediante cavalcavia autostradali – Applicazione – Legittimità – Art. 38 D.lgs. 507/1993
Con ricorso ritualmente proposto la società A I S.P.A. impugna gli avvisi di accertamento aventi ad oggetto la Tosap per gli anni dal 2013 al 2018, emessi nei suoi confronti dalla Concessionaria del servizio del Comune di Pesaro, relativamente all’occupazione, mediante cavalcavia autostradali realizzati lungo l’autostrada A14 “Adriatica” sostenendone l’illegittimità e chiedendone l’allunamento. Parte ricorrente articola a sostegno del ricorso i seguenti motivi:
– Inapplicabilità della TOSAP per assenza dei presupposti di legge. In sostanza – si deduce – la normativa Tosap postula la sussistenza in capo al soggetto passivo, di una concessione o altro titolo legittimamente l’occupazione rilasciato dal Comune. Nel caso in esame parte ricorrente è concessionaria con riferimento al rapporto tutt’affatto diverso, intercorrente con lo Stato. In estrema sintesi: la concessione per la costruzione e gestione dell’Autostrada non è assolutamente equiparabile a quella per l’occupazione di spazio pubblico prevista dal regolamento comunale e rilevante ai fini TOSAP;
– Ruolo dello Stato e carenza di volontà in capo ad A l S.P.A.
Essa ricorrente agisce come mera esecutrice della volontà dello Stato di realizzare il servizio pubblico autostradale. Manca dunque quella volontà di occupazione che è presupposto essenziale per l’applicazione della TOSAP. E’ evidente – opina la ricorrente – la radicale diversità della fattispecie in esame, in cui è lo Stato ad aver deciso con propri provvedimenti legislativi (di rango superiore alle delibere Comunali) non solo la costruzione della rete autostradale, ma anche gli interventi da effettuare, quali ad esempio l’ubicazione, il percorso e le caratteristiche dei tratti e raccordi autostradali, rispetto ai casi di occupazione del soprasuolo previsti ai fini TOSAP, nei quali è il Comune stesso ad impartire le prescrizioni per la realizzazione delle occupazioni;
– La natura demaniale dell’autostrada es inedificabilità delle aree circostanti;
– Carenza di autonomia da parte di A nella sua attività di concessionaria di un pubblico servizio.
– Duplicazione del canone versato allo Stato.
Il Comune, emettendo gli avvisi Tosap, avanza una pretesa tributaria che si aggiunge alle somme che essa ricorrente è tenuta a corrispondere all’Erario in osservanza di obblighi di legge e della convenzione. “secondo una logica di diritto sostanziale, difatti, il soggetto pubblico sia esso lo stato o il Comune, ottiene già una remunerazione della concessione rilasciata per l’utilizzo del suolo pubblico attraverso il versamento delle somme pattuite ed una nuova richiesta di esborso sarebbe del tutto proditoria” [sic];
– Applicabilità comunque, dell’esenzione di cui all’art. 49 lett. A) del d.lgs n. 507/1993.
Trattasi, invero di occupazione del suolo comunale effettuata dallo Stato per il tramite della società concessionaria. Segnala, infine, un risalente orientamento giurisprudenziale favorevole alle predette tesi e un attuale oscillazione giurisprudenziale che non ha prodotto un indirizzo consolidato.
Costituendosi in giudizio, la società I.C.A. – Imposte Comunali Affini – s.r.l.- concessionaria del servizio di accertamento e riscossione dell’imposta comunale per conto del Comune di Pesaro contesta il ricorso, chiedendone il rigetto, con vittoria delle spese di lite. Il ricorso è palesemente infondato.
Tanto per iniziare l’art. 38 del d.lgs n. 507 cit. è chiarissimo ed è stato mal interpretato da parte ricorrente: “1. Sono Soggette alla tassa le occupazioni di qualsiasi natura, effettuate, anche senza titolo, nelle strade, nei corsi nelle piazze e, comunque, sui beni apparenti al demanio o al patrimonio indisponibile dei comuni e delle province. 2. Sono, parimenti, soggette alla tassa di occupazione di spazi soprastanti il suolo pubblico, di cui al comma 1, con esclusione dei balconi, verande, bow-windows e simili infissi di carattere stabile, nonché le occupazioni sottostanti il suolo medesimo, comprese quelle poste in essere con condutture ed impianti di servizi pubblici gestiti in regime di concessione amministrativa”. In particolare l’inciso di cui al suddetto secondo comma evidenzia, qualora ve ne fosse bisogno che gli impianti di servizi pubblici sono compresi nel presupposto d’imposta.
Parte resistente ha diligentemente segnalato una serie di sentenze della Cassazione che non lasciano dubbi al riguardo, in ordine al fatto che la regola della debenza di cui al secondo comma dell’articolo 38, d.lgs. 15.11.1993, n.507, sia applicabile in tutti quei casi (compreso addirittura quello di società privata interamente partecipata dall’ente pubblico che altrimenti sarebbe titolare del servizio pubblico data o in gestione) in cui via sia una situazione di “alterità soggettiva”, significando appunto che ” l’indirizzo di questa corte di legittimità in materia esenzione Tosap ex art.49 cit. è nel senso di escludere questa esenzione ogniqualvolta sia ravvisabile una condizione di effettiva alterità soggettiva rispetto agli enti pubblici espressamente e tassativamente menzionati dalla norma (Cass. n. 19693/18; v. anche Cass. N. 25300/17 in fattispecie, segnata da ben più stretta interdipendenza con l’ente territoriale di quella riscontrabile nel presente caso, di società comunale “in house providing”); a nulla rilevando, in senso contrario, né la natura demaniale del bene oggetto dell’attività occupativa (Cass n. 19693/18 cit., Cass. N. 11886/17), né l’interesse generale (dell’ente territoriale e della collettività) perseguito da tale attività (Cass. Ord,. N. 22489/17)” (Cass. Civ, Sez. V, ordinanza 07.08.2019, n.21102). Si ribadisce poi ancora l’assoluta irrilevanza della (ovvia) distinzione tra la concessione comunale di cui all’articolo 39, d.lgs n.507 (assente) e quella autostradale che accede al concessionario direttamente dal proprietario dell’infrastruttura.
Anche sul punto si è già ampiamente espressa la Corte di Cassazione, evidenziando come l’occupazione delle aree comunali, o comunque di tutte le aree individuate dal richiamato articolo 38, d.lgs. n. 507 (anche quelle individuate dai commi 3 e 4) può realizzarsi anche quale occupazione di fatto, dal momento che rileva ai fini impositivi il solo fatto materiale dell’occupazione, restando del tutto irrilevante il titolo in forza del quale l’occupazione è effettuata ( se frutto di concessione-autorizzazione o se riconducibile a mera occupazione di fatto): è irrilevante il titolo mediante il quale viene effettuata l’occupazione, ” atteso che la tassa colpisce anche le occupazioni senza titolo ” ( in questo senso: Cass. Civ., Sez. V, 22.02.2002, n.2555; Cass;. Civ., Sez V, 04.04.2002, n.4820; Cass Civ, Sez. V, 15.09.2009, n19843; Cass. Civ. V, Sez VI, 20.09.2017, n.21907). Anche nella ordinanza 18385/2019, ed ancora nella sentenza 28341/2019, è stato osservato come ” … ai fini della Tosap, rileva il fatto in sé della predetta occupazione, indipendentemente dall’esistenza o meno di una concessione od autorizzazione (cfr. Cass. Nn. 11553/2003, 2555/2002), salvo che sussista una delle ipotesi di esenzione previste dal D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 49″.
A tale monolitico indirizzo si è uniformata la giurisprudenza in merito, che ha ribadito, con riferimento alle analoghe eccezioni proposte dalla ricorrente in questa sede “che la società ha inizialmente sostenuto che per legittimare la pretesa dell’imposta il titolo concessorio o autorizzativo deve essere rilasciato dal Comune mentre nel caso di specie l’atto abilitativo è stato rilasciato dallo stato addirittura con provvedimento legislativo. L’assunto non può essere condiviso poiché la pretesa in questione da parte del comune non deve discendere necessariamente da uno specifico atto in quanto essa ben può essere correlata anche ad un’occupazione meramente di fatto, abusiva addirittura contra legem.
E’ stato poi prospettato l’ulteriore assunto in base al quale la concessione statale sarebbe riconducibile alla fattispecie “mista” che non ha oggetto il bene in sé ma che si limita ad autorizzare il privato a sostituirsi all’Amministrazione nell’erogazione di un servizio di rilevanza pubblica sicché il suolo risulta sottratto all’uso generalizzato per volontà statale e quindi essendo diventato di natura demaniale deve essere considerato sottratto ad ogni peso tributario comunale. Neppure detta tesi merita accoglimento. Difatti giova rammentare che il presupposto impositivo consiste nell’occupazione di qualsiasi natura di spazi aree appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile dei comuni o delle province che ne comporti un’effettiva sottrazione all’uso pubblico sicché la pretesa risulta in ogni caso del tutto slegata da qualsivoglia precedente atto concessorio od autorizzatorio avendo di mira piuttosto la situazione di mero fatto incontrastatamente presente nel caso che oggi esaminiamo. Dunque non è necessario alcun preventivo provvedimento comunale quale presupposto indispensabile a legittimare la pretesa ” (cfr. e plurimis, Comm.Tr. Prov. Ascoli Piceno, Sez.II, n.259/2018; Sez.II, n260/2019; Sez.II, n.261/2019).
Quanto alla asserita mancanza di autonomia della ricorrente e alla duplicazione di costi, è agevole obiettare, sulla scorta di chiari indirizzi interpretativi, che la concessionaria non può essere considerata quale longa manus dello Stato poiché, pur sotto una lata vigilanza pubblica utile a verificare esclusivamente la corretta esecuzione degli obblighi e degli impegni assunti ai fini di un eventuale revoca dell’atto, gode al contrario di un amplissima autonomia sia nel momento iniziale che nel corso dello svolgimento del rapporto. Difatti pertengono alla concessionaria sia la progettazione che la materiale realizzazione delle opere varie senza contare che la stessa impegna notevolissimi investimenti allo scopo di sfruttare l’opera in base ai criteri economici ed imprenditoriali per ottenere un legittimo lucro, e circa l’eccezione svolta in merito ad una presunta e asserita duplicazione del canone per effetto dell’obbligo di corrispondere la TOSAP, non può obbiettarsi che la società corrisponde un canone annuale allo Stato poiché detta prestazione economica è connessa alla concessione e liberamente accettata dalla parte senza dimenticare che essa non risente di una importante alea dal momento che è commisurata in percentuale alquanto contenuta ai chilometri percorsi dagli utenti e quindi agli oneri ripristinatori e manutentivi derivanti dall’usura delle strutture e del manto d’asfalto. Parimenti non spiega alcuna rilevanza la circostanza che le opere debbano essere ricondotte al demanio statale al termine della durata della concessione poiché il periodo è estremamente lungo e nell’ambito del quale la concessionaria gode di una sostanziale piena autonomia gestionale persino nella facoltà di adeguamento del canone in base all’andamento del costo della vita e degli esborsi per interventi manutentivi che si rendessero diacronicamente necessari.
Tutto quanto detto non può evidentemente che confermare la natura imprenditoriale dell’attività e la piena autonomia operativa e gestionale dell’attività con il connesso suo impatto limitativo del territorio comunale. Pertanto la concessione di progettazione, costruzione e gestione della rete autostradale, nella quale lo sfruttamento economico del bene concesso in gestione costituisce la controprestazione economica, integra pienamente i presupposti di cui all’art. 38, comma 2, d.lgs. n.507. Né può ritenersi applicabile l’invocata esenzione prevista dall’articolo 49, comma 1, lettera a), d.lgs. 15.11.1993, n.507. Il ruolo di concessionario è circostanza incompatibile ed ostativa al riconoscimento dell’esenzione accordata dall’articolo 49, comma 1, lettera a), d.lgs. 15.11.1993, n.507, che è invece riconoscibile unicamente allo Stato ed agli altri soggetti pubblici specificamente e tassativamente indicati nella norma. Come è stato ripetutamente affermato dalla Suprema Corte, il concessionario autostradale è soggetto che, a norma della vigente disciplina degli appalti pubblici, gestisce un servizio pubblico in regime di concessione amministrativa, svolgendo appunto il servizio di concessionario autostradale, che ha come corrispettivo la gestione funzionale e lo sfruttamento economico delle strutture date in concessione, per mezzo non solo degli introiti derivanti dal pedaggio autostradale, ma anche per mezzo della gestione delle strutture e delle pertinenze autostradali (si pensi alla gestione elle aree di sosta per mezzo di contratti direttamente conclusi con le società di erogazione del carburante e di somministrazione di alimenti e bevande ed altri generi, o ancora mediante concessione a terzi del servizio di rilevazione automatica del pedaggio).
Osserva la Cassazione che “quanto alla spettanza o meno della esenzione prevista dall’art. 49, lett. A, del citato decreto posto che la società […] ha la gestione economica e funzionale del viadotto in forza dalla concessione per l’esecuzione dei lavori pubblici conferita dallo Stato a norma del D.Lgs. 12 aprile 2006, n.163, art. 143, le ipotesi di esenzione della TOSAP previste dal D.Lgs. n. 507 del 1993, art 49, lett. A) – nel bilanciamento tra l’interesse al prelievo fiscale per la sottrazione di un bene pubblico al godimento della comunità (comunale o provinciale), e quello alla realizzazione degli scopi istituzionali dello Stato e degli altri enti pubblici territoriali, ovvero di fini sociali ritenuti meritevoli di particolare tutela danno la prevalenza al secondo; con riguardo poi all’eventuale esenzione per l’occupazione effettuata dall’impresa che ha provveduto, in forza di concessione conferita dallo Stato, all’esecuzione del lavoro pubblico costituito dalla rete autostradale di cui fa parte il viadotto in questione, questa Corte ritiene che l’occupazione medesima debba considerarsi propria dell’ente concessionario e vada, dunque assoggettata alla tassa ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 38, comma 2, in quanto la società concessionaria è l’esecutrice della progettazione e della realizzazione dell’opera pubblica (D.Lgs. 12 aprile 2006, n.163, art. 143, comma 1) a fronte del corrispettivo costituito dal diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente tutti i lavori realizzati (art. 143, comma 2) per la durata, di regola, non superiore a trenta anni (art. 143, comma 6); a nulla rileva il fatto che il viadotto di proprietà del demanio e che al termine della concessione, anche la gestione di esso ritorni in capo allo Stato poiché, nel periodo di durata della concessione stessa, il bene, che pure è funzionale all’esercizio di un servizio di pubblica utilità, è gestito in regime di concessione da un ente che agisce in piena autonomia e non quale mero sostituto dello Stato nello sfruttamento dei beni” (Cass. Civ., Sez. VI-5, ordinanza 09.07.2019, n.18385).
E, ancora, “il problema dibattuto in questa sede concerne l’eventuale esenzione riguardo all’occupazione effettuata dall’impresa che ha provveduto, in forza di concessione conferita dallo Stato, all’ esecuzione del lavoro pubblico costituito dalla rete autostradale di cui fa parte il viadotto in questione.
Questa Corte ritiene che l’occupazione medesima debba considerarsi propria del ente concessionario e vada, dunque, assoggettata alla tassa ai sensi dell’art. 38, comma 2 del d.lgs n.507 del 1993 in quanto la società concessionaria è l’esecutrice della progettazione e della realizzazione dell’opera pubblica (art.143, comma 1, del Decreto Legislativo 12 aprile 2006, n.163) a fronte del corrispettivo costituito dal diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente tutti i lavori realizzati art.143, comma 2) […].
A nulla rileva il fatto che il viadotto sia di proprietà del demanio e che, al termine della concessione, anche la gestione di esso ritorni in capo allo Stato poiché, nel periodo di durata della concessione stessa, il bene, che è pure funzionale all’esercizio di un servizio di pubblica utilità, è gestito in regime di concessione da un ente che agisce in piena autonomia e non quale mero sostituto dello Stato nello sfruttamento dei beni.
Ne deriva che l’esenzione prevista dall’art. 49, lett.a) del citato decreto non spetta in quanto non si configura l’occupazione da parte dello Stato” (Cass. Civ., Sez.V, 11.5.2017 n.11689). Il ricorso è palesemente infondato, va quindi respinto. Il fatto che l’assetto interpretativo si fosse già consolidato contro le tesi di parte ricorrente ben prima della proposizione del ricorso giustifica l’applicazione del principio di soccombenza in ordine alle spese di lite, che si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Visti gli art. 35 e ss. Del D.L.vo 31/12/1992 n. 546, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare a parte resistente le spese di lite, che liquida in €. 7.000,00 oltre il rimborso spese generali, ed accessori di legge.
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