COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE CALABRIA – Ordinanza 17 dicembre 2020
Contenzioso tributario – Definizione agevolata dei carichi affidati all’agente di riscossione – Prevista sospensione del giudizio previa presentazione di apposita dichiarazione del contribuente con la quale manifesta la volontà di procedere alla definizione – Estinzione del giudizio subordinata all’effettivo perfezionamento della definizione e alla produzione, nello stesso giudizio, della documentazione attestante i pagamenti effettuati – Previsione della revoca da parte del giudice, in caso contrario, della sospensione su istanza di una delle parti. – Decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119 (Disposizioni urgenti in materia fiscale e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2018, n. 136, art. 3, commi 5 e 6.
1. Con ricorso in appello depositato il 21 novembre 2017, Agenzia delle entrate – Riscossione, con il patrocinio dell’avv. F. B., ha proposto appello avverso la sentenza n. 2008/2017, depositata il 31 marzo 2017, resa dalla Commissione tributaria provinciale di Cosenza, la quale ha accolto il ricorso proposto dal sig. M.P. avverso e per l’annullamento di una serie di avvisi di intimazione notificatigli dall’Agente della riscossione e relativi ad imposte e tasse erariali.
Nel merito l’appellante lamenta come del tutto erroneamente la Commissione tributaria provinciale di Cosenza abbia ritenuto inapplicabile il termine prescrizionale lungo decennale a fronte di cartelle di pagamento non opposte nei termini di legge. Chiede quindi l’annullamento della pronuncia di primo grado, con vittoria delle spese di lite del doppio grado di giudizio. Con comparsa depositata il 28 dicembre 2017 si è costituito in giudizio il contribuente, con il patrocinio dell’avv. E. Biondo, rappresentando la correttezza dell’indirizzo della sentenza di primo grado, deducendo come il termine di prescrizione sia quello quinquennale, come ritenuto dalla Commissione tributaria provinciale e chiede quindi il rigetto del ricorso, con vittoria delle spese di lite.
All’udienza di discussione del 3 giugno 2019, con ordinanza collegiale, veniva disposta la sospensione del giudizio, avendo il contribuente depositato il 9 maggio 2019, copia della dichiarazione di adesione alla definizione agevolata delle liti, ai sensi dell’art. 3 del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2018, n. 136 («Rottamazione ter»), inviata via PEC all’agente della riscossione.
Successivamente al deposito della sola domanda ed alla conseguente ordinanza di sospensione null’altro veniva depositato. All’udienza di discussione del 25 settembre 2020 la causa è stata riservata per la decisione; quindi veniva adottata ordinanza n. 621/2020, depositata il 7 ottobre 2020, con la quale si ordinava all’Agenzia delle entrate – Riscossione, di depositare, entro trenta giorni, copia delle ricevute di pagamento ovvero copia del provvedimento di rateizzazione previsto dall’art. 3, comma 5 del decreto-legge n. 119/2018, fissando la camera di consiglio del 2 dicembre 2020, per la verifica dell’incombente ed il prosieguo. All’esito di tale ordinanza nulla è stato depositato dall’appellante, e nessuna delle parti ha depositato istanza di revoca della sospensione del giudizio.
Alla Camera di consiglio del 2 dicembre 2020, svolta in modalità di collegamento da remoto, la causa è stata decisa.
2. Questione di legittimità costituzionale.
Preliminarmente e d’ufficio, ritiene questo Giudicante, di dover sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 6 del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2018, n. 136, per la parte in cui prevede una sospensione sine die del giudizio revocabile dal Giudice solo ad istanza di parte, per palese contrasto con gli articoli 3, 10, 11, 23, 24, 53, 81, 97, comma 1 e 111 della Costituzione, 113 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).
3. Rilevanza della questione nel giudizio a quo.
Il necessario «nesso di pregiudizialità fra la risoluzione della questione di legittimità costituzionale e la decisione del caso concreto» (Corte cost., sentenza n. 77/1983) o la pretesa dedotta nel processo principale (Corte cost., sentenza n. 420/1991) implica, da un lato, che la rilevanza inerisca solo al giudizio a quo (Corte cost., sentenza n. 343/1993) e, dunque, a questioni aventi ad oggetto norme «applicabili dal rimettente» – in proposito, Corte costituzionale, nella sentenza n. 10/1979 ha significativamente affermato che «rilevanza della questione e applicabilità della legge nel giudizio di merito costituiscono termini inscindibili» – e, dall’altro, che un’eventuale sentenza di accoglimento sia in grado di spiegare un’influenza sul processo principale (Corte cost., sentenze n. 92/2013 e n. 111/1977), provocando un cambiamento del quadro normativo assunto dal giudice a quo (Corte cost., sentenza n. 390/1996).
Nel presente giudizio la rilevanza dalla questione è data dalla circostanza che dopo il deposito nello stesso, da parte del contribuente appellato, della istanza di adesione al procedimento di definizione agevolata, di cui alla norma qui rimessa, questo Giudice ha disposto la sospensione (obbligatoria) del processo, come normativamente previsto, salvo poi dover osservare che detta sospensione avrebbe potuto operare sine die, con conseguente compromissione sia del principio costituzionale generale della tutela dei crediti erariali e delle pubbliche finanze (arg. ex articoli 53, 81 e 97, comma 1, Cost.), sia di quello, più prettamente processuale, di garanzia del giusto processo (art. 111 Cost.).
Peraltro anche dopo lo spirare del termine di pagamento delle somme indicate nella istanza, ovvero per la approvazione di un piano di rateizzazione delle somme stesse – individuabile al 16 settembre 2020, in virtù dei vari differimenti da ultimo disposti con l’art. 149 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito con modificazioni nella legge 17 luglio 2020, n. 177 – nel giudizio a quo nessuna delle parti in causa ha proceduto al deposito delle prove dell’avvenuto pagamento, né tanto è accaduto in esecuzione di una specifica ordinanza istruttoria resa dal Collegio, onde si rende doveroso rimettere alla Corte costituzionale il vaglio di legittimità sulle norme che, di fatto, determinano una paralisi dei processi tributari nei quali il contribuente abbia depositato la sola istanza di adesione e null’altro.
4. Fondamento della questione di legittimità costituzionale.
L’art. 3 del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2018, n. 136, («rottamazione ter») prevede, ai commi 1, 2, 5 e 6, che: «1. I debiti, diversi da quelli di cui all’art. 5 risultanti dai singoli carichi affidati agli agenti della riscossione dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2017, possono essere estinti, senza corrispondere le sanzioni comprese in tali carichi, gli interessi di mora di cui all’art. 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, ovvero le sanzioni e le somme aggiuntive di cui all’art. 27, comma 1 del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46, versando integralmente le somme:
a) affidate all’agente della riscossione a titolo di capitale e interessi;
b) maturate a favore dell’agente della riscossione, ai sensi dell’art. 17 del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112, a titolo di aggio sulle somme di cui alla lettera a) e di rimborso delle spese per le procedure esecutive e di notifica della cartella di pagamento.
2. Il pagamento delle somme di cui al comma 1 è effettuato:
a) in unica soluzione, entro il 31 luglio 2019;
b) nel numero massimo di diciotto rate consecutive, la prima e la seconda delle quali, ciascuna di importo pari al 10 per cento delle somme complessivamente dovute ai fini della definizione, scadenti rispettivamente il 31 luglio e il 30 novembre 2019; le restanti, di pari ammontare, scadenti il 28 febbraio, il 31 maggio, il 31 luglio e il 30 novembre di ciascun anno a decorrere dal 2020. (…)
5. Il debitore manifesta all’agente della riscossione la sua volontà di procedere alla definizione di cui al comma 1 rendendo, entro il 30 aprile 2019, apposita dichiarazione, con le modalità e in conformità alla modulistica che lo stesso agente pubblica sul proprio sito internet nel termine massimo di venti giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto; in tale dichiarazione il debitore sceglie altresì il numero di rate nel quale intende effettuare il pagamento, entro il limite massimo previsto dal comma 1.
6. Nella dichiarazione di cui al comma 5 il debitore indica l’eventuale pendenza di giudizi aventi ad oggetto i carichi in essa ricompresi e assume l’impegno a rinunciare agli stessi giudizi, che, dietro presentazione di copia della dichiarazione e nelle more del pagamento delle somme dovute, sono sospesi dal giudice. L’estinzione del giudizio è subordinata all’effettivo perfezionamento della definizione e alla produzione, nello stesso giudizio, della documentazione attestante i pagamenti effettuati; in caso contrario, il giudice revoca la sospensione su istanza di una delle parti.».
Il decreto-legge 26 ottobre 2019, n. 124, convertito con modificazioni dalla legge 19 dicembre 2019, n. 157, ha disposto (con l’art. 37, comma 1) che:
«La scadenza di pagamento del 31 luglio 2019 prevista dall’art. 3, comma 2, lettere a) e b), 21, 22, 23 e 24, del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2018, n. 136, è fissata al 30 novembre 2019».
Il decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, quindi operante successivamente allo spirare del riferito termine di pagamento del 30 novembre 2019, ha disposto (con l’art. 68, comma 3) che: «Sono differiti al 31 maggio il termine di versamento del 28 febbraio 2020 di cui all’art. 3, commi 2, lettera b), e 23, e all’art. 5, comma 1, lettera d), del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2018, n. 136, nonché all’art. 16-bis, comma 1, lettera b), n. 2, del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 giugno 2019, n. 58, e il termine di versamento del 31 marzo 2020 di cui all’art. 1, comma 190, della legge 30 dicembre 2018, n. 145».
L’art. 149 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito con modificazioni nella legge 17 luglio 2020, n. 177, ha quindi stabilito di prorogare al 16 settembre 2020 i termini di versamento delle somme rateali dovute «ai fini delle definizioni agevolate previste dagli articoli 1, 2, 6 e 7 del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2018, n. 136» (comma 4). Peraltro, secondo il comma 5 del citato art. 149, i versamenti «prorogati dalle disposizioni di cui al presente articolo sono effettuati, senza applicazione di sanzioni e interessi, in un’unica soluzione entro il 16 settembre 2020 o, a decorrere dal medesimo giorno del mese di settembre 2020, mediante rateazione fino a un massimo di 4 rate mensili di pari importo, con scadenza il 16 di ciascun mese.».
Dato questo invero involuto impianto normativo, si ricava che alla data del 16 settembre 2020, salva ulteriore rateizzazione intervenuta con provvedimento amministrativo dell’agente della riscossione, tutti coloro i quali avevano presentato l’istanza di definizione agevolata di cui all’art. 3, comma 5 del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, avrebbero dovuto provvedere all’integrale versamento delle somme dovute.
Sennonché l’estinzione del giudizio innanzi le commissioni tributarie, sospeso previa la sola presentazione della istanza, per come previsto dal suddetto comma 5, è stata subordinata (comma 6) all’effettivo perfezionamento della definizione e alla produzione, nello stesso giudizio, della documentazione attestante i pagamenti effettuati, stabilendosi poi che, in caso contrario, il giudice revoca la sospensione su istanza di una delle parti.
Questo giudicante dubita della conformità a Costituzione delle disposizioni di cui ai più volte richiamati commi 5 e 6 del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, vieppiù alla luce della intervenuta scadenza, al 16 settembre 2020, del termine finale per potersi provvedere da parte del contribuente al pagamento in unica soluzione ovvero all’adozione del provvedimento amministrativo di rateizzazione del concessionario della riscossione.
4.2. Emerge un primo profilo di contrarietà delle disposizioni in questione al principio generale di tutela dei crediti erariali e delle pubbliche finanze (arg. ex articoli 53, 81 e 97, comma 1, Cost.) laddove questi risultino affidati ad un agente esterno della riscossione, il quale, quindi, nei relativi processi innanzi gli organi della giustizia tributaria deve necessariamente rappresentare gli interessi superiori dell’erario, in nome e per conto del quale è chiamato ad operare, approntando le attività di riscossione. In questo senso poiché le disposizioni non prevedono un obbligo in capo all’agente della riscossione di richiedere al Giudice innanzi al quale è incardinato il processo di riprendere questo, ai sensi dell’art. 43 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, nel caso di mancata definizione della domanda ovvero di mancato pagamento ovvero di mancata rateizzazione, le disposizioni vengono a determinare automaticamente un vulnus alle ragioni dell’erario, laddove la ripresa del processo finisce con il divenire una scelta discrezionale della parte processuale cioè dell’agente della riscossione il quale, tuttavia, dispone non di un credito proprio bensì dell’erario.
Inoltre la norma produce effetti diretti anche su quei giudizi, in specie in grado di appello, nei quali parte ricorrente o appellante sia costituita dall’agente della riscossione, il quale, quindi, vanta un interesse alla sollecita definizione della controversia stessa al fine di poter definire il credito tributario contestato; in questo caso la semplice e sola dichiarazione di adesione alla definizione agevolata, proveniente da parte resistente od appellata, viene a determinare una ricaduta negativa sulla parte formalmente ricorrente od appellante, con la conseguenza di compromettere pesantemente il diritto di difesa delle amministrazioni impositrici (violando l’art. 24 Cost.) e quello alla parità delle parti nel processo (violando l’art. 111 Cost.).
Tali considerazioni non possono ritenersi superate dalla circostanza – ricordata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 29/2018 e nella successiva ordinanza n. 32/2019 – per le quali «l’introduzione della definizione agevolata consegue “alla rilevata necessità, per esigenze di finanza pubblica e per un corretto rapporto tra fisco e contribuente, “di ottimizzare l’attività di riscossione adottando disposizioni per la soppressione di Equitalia e per adeguare l’organizzazione dell’Agenzia delle entrate anche al fine di garantire l’effettività del gettito delle entrate e l’incremento del livello di adempimento spontaneo degli obblighi tributari e per i fini di cui all’art. 4, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), e all’art. 81, comma 1, della Costituzione”», posto che, nella fattispecie, la norma incide sfavorevolmente sui principi costituzionali in materia di giusto processo, di equa durata dello stesso, di parità delle parti processuali, nonché sull’istituto processuale della sospensione.
4.3. D’altro canto la disposizione denunciata di cui al comma 6 dell’art. 3 del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, opera una ipotesi speciale di sospensione del processo, estranea all’impianto processuale proprio di cui agli articoli 39 e seguenti del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, nella parte in cui non prevede una estinzione del processo tributario automaticamente conseguente alla inattività delle parti, finendo con il compromettere lo stesso principio di giusto processo di cui all’art. 111 Cost. e minando l’obbligo di svolgimento e conclusione dello stesso in quei tempi ragionevoli di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nella pacifica interpretazione della Corte costituzionale e delle supreme Corti di legittimità di tutti i Paesi che applicano detta convenzione.
Infatti poiché la ripresa del processo è rimessa unicamente alla volontà delle parti, senza che sia prevista una automatica estinzione per inattività, per come invece disposto dalla previsione generale di cui al surrichiamato art. 39 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, tutti i processi innanzi il Giudice tributario sospesi ai sensi dei denunciati commi 5 e 6 dell’art. 3 del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, potrebbero rimanere in un eterno limbo, con gravissima violazione tanto dell’art. 111 Cost., quanto dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Invero la Corte costituzionale si è occupata dell’istituto della sospensione del processo tributario ma in diverso contesto, escludendo una disparità di trattamento e, quindi una violazione dell’art. 3 Cost., («è da reputare erronea la premessa dalla quale muove il giudice a quo, in quanto la richiesta prevista dalla disposizione sottoposta all’esame della Corte vale solo ad ottenere la sospensione del giudizio, fermo restando che, fino alla scadenza del termine ordinario, questo contribuente può ancora decidere se presentare o meno la dichiarazione integrativa, onde nessuna disparità di trattamento egli subisce, sotto il profilo in esame, rispetto a tutti gli altri»), ma affermando il principio per il quale «ove quest’ultima dichiarazione non venga presentata, il giudizio, cessata la causa di sospensione, riprende il suo corso» (Corte cost., sentenza n. 364/1994). Tale principio vale quindi ad escludere che possano operare nel processo tributario sospensioni sine die, come, invece, determinano le disposizioni qui denunciate.
4.4. Un ulteriore profilo di contrarietà agli articoli 3 e 97, comma 1 Cost. è poi rappresentato dal diverso trattamento – anche in termini di effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 24, comma 1 della Costituzione – tra i casi in cui un credito tributario sia stato affidato all’agente della riscossione esterno, rispetto a quello in cui sia invece tutelato da parte dell’amministrazione creditrice. Poiché infatti la disponibilità del credito non è dell’agente della riscossione bensì dell’amministrazione tributaria creditrice e questa è comunque doverosamente obbligata dagli articoli 23, 24 e 97, comma 1 della Costituzione ad esigere il pagamento di detti crediti, la remissione all’agente della riscossione del potere di riprendere il processo tributario – processo che verte sulla legittimità delle attività dell’agente della riscossione, ma che può riguardare anche il merito della pretesa impositiva, laddove siano dedotti, insieme a vizi propri dell’atto di riscossione, anche vizi della pretesa stessa – sulla base di una propria scelta discrezionale, non appare conforme alle richiamate disposizioni, determinando una palese disparità di trattamento del credito erariale rispetto ai casi in cui questo sia controverso non all’esito di una cartella di pagamento, cioè di un atto dell’agente esterno della riscossione, bensì di un avviso di accertamento ovvero di un atto esecutivo a questo conseguente posto in essere direttamente dall’amministrazione creditrice.
Infatti la norma denunciata, per espressa limitazione posta dal comma 1 della stessa, riguarda solo i singoli carichi affidati agli agenti della riscossione dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2017 e non qualunque credito tributario contestato ed oggetto di giudizio innanzi i Giudici tributari.
Così quanto alle imposte sui redditi l’art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, stabilisce che la relativa riscossione avviene mediante: a) ritenuta diretta; b) versamenti diretti del contribuente all’esattoria e alle sezioni di tesoreria provinciale dello Stato; c) iscrizione nei ruoli.
Analogamente per quanto riguarda l’IVA (nota come imposta sulla cifra d’affari a livello comunitario) – tipica imposta armonizzata ai sensi dell’art. 113 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea – l’art. 51, comma 1, cpv. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, stabilisce che vi provvedono direttamente i relativi «uffici dell’imposta sul valore aggiunto».
4.4.1. Vi è poi che le ragioni di una delle parti del processo – rappresentata dall’erario, che normalmente vi assume la veste di creditore nel rapporto tributario – rischiano di essere compromesse, in maniera irreparabile, dalla mera presentazione della istanza di adesione del contribuente nell’ambito del processo tributario nel quale a tutelare le ragioni dell’erario è però l’agente della riscossione, che diviene titolare del potere di disporre del credito nei limiti in cui non decida di farsi parte per la ripresa del processo interrotto sine die dalle disposizioni qui contestate.
Con riferimento a tale possibile situazione è evidente una violazione del principio di parità delle parti nel processo tributario, garantito dal combinato disposto degli articoli 3, 24, comma 1, 97, comma l e 111 della Costituzione.
Il contribuente infatti, con riguardo ad un credito tributario giudizialmente contestato ed affidato all’agente della riscossione, diviene titolare dell’andamento del processo, finendo con il poterne unilateralmente determinare una sospensione sine die, che è potenzialmente dannosa per il bilancio dello Stato e/o delle amministrazioni impositrici, il tutto in violazione del principio della parità delle parti sancito dagli articoli 3, 24, comma 2 e 111 della Costituzione. Sotto questo profilo la disposizione impugnata viene a determinare addirittura una disparità di trattamento tra i contribuenti che, dopo aver presentato l’istanza di adesione, provvedono al pagamento delle somme pattuite nei termini stabiliti e quelli che non vi provvedono, posto che nel primo caso il processo si estingue, nel secondo rimanendo comunque sospeso sine die crea una situazione di ingiustificato vantaggio proprio in capo al contribuente inadempiente anche rispetto agli obblighi discendenti dall’adesione alla definizione agevolata (sul punto valgono i principi fissati da Corte costituzionale, sentenza n. 175/1986).
4.4.2. Un profilo ulteriore inerente la denunciata violazione del principio di parità delle parti nel processo tributario, è poi rappresentato dalla possibile lesione, che ne discende direttamente, degli interessi finanziari dell’Unione europea, nei limiti in cui le disposizioni speciali interne, compromettendo la tutela processuale dei crediti erariali attraverso disposizioni impeditive della stessa e, segnatamente, stabilendo ipotesi di sospensione del processo tributario sine die ed all’esito della sola volontà discrezionale manifestata dal debitore, finiscono con il compromettere i suddetti interessi finanziari.
La tutela degli interessi finanziari dell’Unione riguarda non solo la gestione degli stanziamenti di bilancio, ma si estende a qualsiasi misura che incida o che minacci di incidere negativamente sul suo patrimonio e su quello degli Stati membri, nella misura in cui è di interesse per le politiche dell’Unione. La convenzione elaborata in base all’articolo K.3 del Trattato sull’Unione europea, relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee del 26 luglio 1995 e i relativi protocolli del 27 settembre 1996, del 29 novembre 1996 e del 19 giugno 1997, stabiliscono norme minime riguardo alla definizione di illeciti penali e di sanzioni nell’ambito della frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione.
Date tali premesse – contenute nella direttiva (UE) 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2017, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale – è evidente che una compromissione delle ragioni di tutela dei erediti erariali approntata attraverso la introduzione di una ingiustificata lesione della parità di trattamento delle parti processuali, determina una lesione degli interessi finanziari dell’Unione e delle Comunità europee nella misura in cui l’Italia ne fa parte (articoli 10, 11 ed 80 della Costituzione), riconoscendo limitazioni alla propria sovranità e concorrendo alle relative spese (art. 81, commi 1 e 6 ed art. 97, comma 1 Costituzione).
4.4.3. Un altro profilo di illegittimità delle denunciate disposizioni, sempre discendente dalla introduzione di una ingiustificata disparità di trattamento processuale tra le ragioni del credito erariale e quelle del contribuente, risiede nella violazione dell’art. 113 e seguenti del Trattato, laddove il processo tributario verta su questioni inerenti imposte armonizzate (IVA o cifra d’affari, in primis), con conseguente ricaduta sugli obblighi di armonizzazione discendenti dalle suddette disposizioni di Trattato.
Poiché infatti le imposte armonizzate vantano una copertura sovranazionale – incidendo indirettamente sul principio della concorrenza – ogni compromissione delle ragioni erariali ad esse connesse in sede processuale, mediante la adozione di norme nazionali deteriori e che costituiscano impedimenti alla loro effettiva applicazione ed esazione da parte degli Stati nazionali, determina una possibile compromissione del principio di tutela degli interessi finanziari della Comunità, confliggendo con interessi superiori dell’Unione.
5. Per quanto esposto sopra, ai sensi dell’art. 23, comma 3, della legge n. 87/1953, si ritiene di sollevare d’ufficio questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 5 e 6 del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2018, n. 136, per contrasto con gli articoli 3, 10, 11, 23, 24, 53, 81, 97, comma 1 e 111 della Costituzione, 113 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).
P.Q.M.
visti gli articoli 134 della Costituzione, 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87,
Solleva con riferimento agli articoli 3, 10, 11, 23, 24, 53, 81, 97, comma 1 e 111 della Costituzione, 113 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 5 e 6 del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2018, n. 136, per la parte in cui prevedono una sospensione sine die del giudizio tributario, previo il solo deposito dell’istanza di adesione agevolata, revocabile dal Giudice solo ad istanza di parte.
Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, con la prova delle notificazioni e delle comunicazioni prescritte nell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (ex articoli 1 e 2 del regolamento della Corte costituzionale 7 ottobre 2008, pubblicato in Gazzetta Ufficiale 7 novembre 2008, n. 261), con sospensione del giudizio.
Ordina che, a cura della segreteria della Sezione, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei ministri, nonché comunicata, anche via PEC, ai presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
Così deciso nella Camera di consiglio del 2 dicembre 2020, svolta in modalità telematica e da remoto, ai sensi dell’art. 27 del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137.