SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
FATTO

RGA 367/16.

La ” A ” S.p.A. con separati ricorsi impugnava avanti la Commissione Tributaria Provinciale di Trieste 4 avvisi di accertamento notificati dall’Agenzia delle Entrate Ufficio di Trieste, per le annualità dal 2004 al 2007.

Tali atti impositivi traevano origine da un P.V.C. redatto dalla G.d.F. notificato alla Società in data 4 marzo 2013. L’innesco dell’attività di verifica traeva origine da altra attività d’indagine condotta dalla G.d.F. di Como nei confronti della Società ” omissis ” ritenuta cartiera nella commercializzazione in frode dell’IVA di telefoni cellulari e metalli ferrosi, predisponendo a tal fine una complessa ed articolata organizzazione. Riscontrato che la ” A ” S.p.A. aveva intrattenuto rapporti commerciali con la Società ” omissis “, venivano notificati nel corso del mese di novembre 2014 gli avvisi di accertamento per le annualità dal 2005 al 2007, per l’annualità 2004 l’atto impositivo veniva notificato nel mese di dicembre 2013. Mediante tali atti impositivi veniva recuperata l’IVA detratta dalla fatture emesse dalla ” omissis ” e riferibili ad operazioni oggettivamente inesistenti, per avere la ” A ” indebitamente detratto l’imposta su dette fatture. Relative e, per la mancata imposizione IVA in relazione a presunte fittizie cessioni intra UE.

La ” A ” preliminarmente assumeva la decadenza da parte dell’A.F. del potere impositivo, nel merito perché l’Agenzia delle Entrate Ufficio di Trieste non avrebbe provato la partecipazione della ” A ” al disegno illecito o la sua consapevolezza nel ruolo rivestito dalla ” omissis ” o delle altre società italiane nelle frodi IVA.

I giudici di primo grado annullavano gli atti impositivi poiché notificati oltre il termine di decadenza ex art. 43 del DPR 600/1973 e 57 del DPR 633/1972 ritenendo non applicabile il raddoppio del termine di cui al comma 3 del citato articolo in presenza di trasmissione di notizia di reato all’Autorità Inquirente avvenuta solo il 12.12.2012, quindi intempestiva.

Ha quindi proposto appello 1’Ufficio concludendo per la riforma della sentenza di primo grado con vittoria dì spese dì lite.

Resiste la Società appellata controdeducendo e concludendo per la conferma della pronuncia gravata con vittoria di spese di lite.

La vertenza è trattata in pubblica udienza.

Motivi della decisione.

Differentemente a quanto deciso per le pregresse annualità, con riferimento all’esercizio 2007 oggetto della presente vertenza, va rilevato che i giudici di primo grado hanno errato in quanto la denuncia alla Autorità Inquirente è stata presentata in data 12.12.2012, mentre il termine ordinario per l’accertamento relativo all’anno 2007 sarebbe scaduto il 31.12.2012, pertanto l’atto impositivo è tempestivo e conforme nei termini di cui agli artt. 43 comma 3 del DPR 600/1973 e 57 del DPR 633/1972.

Va quindi affrontato il merito della pretesa, questione riproposta in grado d’appello dalla Società contribuente.

Va premesso che alcune sentenze della Corte di Cassazione hanno portato alla ribalta una questione già ampiamente dibattuta in dottrina, ovverossia quella della responsabilità del fornitore dell’esportatore abituale che rilascia una dichiarazione d’intento “falsa”, vale a dire in assenza dello “status” di esportatore abituale. Come si vedrà meglio nel seguito, secondo la Cassazione, il fornitore è responsabile del pagamento dell’imposta dovuta laddove lo stesso sia consapevole della falsità della dichiarazione d’intento ricevuta.

La sentenza n. 16819/2008 della Corte di Cassazione scaturisce da un’attività accertativa posta in essere nei confronti di società operanti su tutto il territorio nazionale nel commercio di pneumatici. In particolare, lo schema fraudolento riguarda una società residente in un paradiso fiscale che, tramite società interposte residenti in Italia, effettua acquisti in sospensione d’imposta rilasciando dichiarazioni d’intento da ritenere, secondo la Corte, ideologicamente false. I beni acquistati da tali società “fittiziamente interposte”, come si legge nella sentenza, sono successivamente venduti ad una società italiana, la quale è poi lo stesso soggetto che in precedenza aveva fornito le società “fantasma” senza applicazione d’imposta ai sensi dell’articolo 8, comma 2, D.P.R. 633/1972, dietro rilascio di dichiarazioni d’intento false.

Con tale comportamento, la società italiana procede alla richiesta di rimborso dell’imposta a credito, scaturente dall’imposta assolta sugli acquisti presso le società sedicenti “esportatrici abituali” (l’imposta a debito è pari a zero, in quanto, come detto, le società interposte rilasciano dichiarazione d’intento).

Il punto di partenza per analizzare i profili di responsabilità del fornitore dell’esportatore abituale è senz’altro il seguente: un soggetto passivo d’imposta che riceve una dichiarazione d’intento può rifiutarsi di effettuare operazioni senza applicazione dell’imposta? In altre parole, di fronte al rilascio di unadichiarazione d’intento, a mezzo della quale il cliente si qualifica come esportatore abituale, il fornitore deve porre in essere qualsivoglia attività “ispettiva” al fine di valutare la veridicità di tale dichiarazione, o può ritenersi esonerato da qualsiasi responsabilità in merito?

La risposta a tali questioni, evidentemente, non è del tutto agevole, premettendo tuttavia che, in linea di principio, il rilascio della dichiarazione d’intento, al pari delle dichiarazioni per poter usufruire di aliquote ridotte, costituisce un “diritto” per l’acquirente/committente, ed un “dovere” per il cedente/prestatore.

Per poter fornire una risposta agli interrogativi poc’anzi esposti, l’analisi non può che partire dal quadro normativo esistente in materia, e piùprecisamente dalle disposizioni che riguardano gli obblighi e le conseguenti sanzioni in capo al fornitore dell’esportatore abituale.

Le disposizioni di riferimento sono le seguenti:

  • articolo 8, comma 2, D.P.R. 633/1972, secondo cui le cessioni nei confronti degli esportatori abituali sono effettuate senza pagamento dell’imposta “su loro dichiarazione scritta e sotto la loro responsabilità”;
  • articolo 7, comma 3, D.Lgs. 471/1997, in cui sono codificati due comportamenti sanzionabili:
  1. il primo riferito all’effettuazione di operazioni senza addebito d’imposta in mancanza della dichiarazione d’intento, nel qual caso il fornitore è punito con la sanzione amministrativa dal cento al duecento per cento dell’imposta, fermo restando l’obbligo di pagamento del tributo;
  2. il secondo, invece, relativo al rilascio di una dichiarazione d’intento in mancanza dei presupposti richiesti dalla Legge, ossia in assenza dello status di esportatore abituale, nel qual caso si prevede che “dell’omesso pagamento del tributo rispondono esclusivamente i cessionari, i committenti e gli importatori che hanno rilasciato la dichiarazione stessa”.

Dal breve quadro normativo sopra riportato, emerge con chiarezza che l’unica fattispecie di responsabilità del fornitore dell’esportatore abituale è quella connessa all’effettuazione di operazioni senza pagamento del tributo in mancanza della dichiarazione d’intento (primo periodo del comma 3, dell’articolo 7, D.Lgs. 471/1997), e non anche laddove la dichiarazione d’intento sia stata rilasciata, ipotesi in cui le disposizioni riportate prevedono un’esclusiva responsabilità in capo al cessionario, ossia al soggetto che ha rilasciato tale dichiarazione.

Sembrerebbe, pertanto, da quanto sopra descritto, che il cedente dell’esportatore abituale che riceve la dichiarazione d’intento non sia chiamato ad effettuare alcuna attività in merito alla veridicità di tale dichiarazione (salvo l’obbligo di verifica dell’avvenuto invio telematico all’Amministrazione finanziaria), atteso che dell’eventuale mancanza a monte dei presupposti per il rilascio della stessa risponde in modo esclusivo il cessionario/committente dell’operazione.

Tuttavia, come dimostra la sentenza in oggetto, non è sostenibile l’assoluta deresponsabilizzazione del fornitore dell’esportatore abituale, che si poggia essenzialmente sui seguenti punti:

  • come emerso dal procedimento penale, il fornitore è consapevole della falsità della dichiarazione d’intento (e quindi -non poteva non sapere”);
  • l’imposta è dovuta, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, D.P.R. 633/1972, dai soggetti che effettuano le cessioni di beni e le prestazioni di servizi, con la conseguenza che il cedente sarebbe chiamato ad assolvere il tributo non applicato;
  • secondo l’Amministrazione finanziaria, il caso di specie riguarda il cessionario che ha emesso una dichiarazione d’intento non fuori dei presupposti di Legge, bensì ideologicamente falsa in quanto non intende affatto effettuare cessioni all’esportazione, pur in presenza di un plafond disponibile (derivante dall’effettuazione di esportazioni nell’anno precedente). Tale ipotesi, sempre secondo l’Amministrazione finanziaria, non rientra nell’ambito applicativo dell’articolo 7, comma 3, D.Lgs. 471/1997, che nulla ha a che vedere in tale indagine, con la conseguenza che non vi è alcuna norma specifica che concentri sul solo cessionario le conseguenze della falsa dichiarazione.

Va conseguentemente osservato che:

  • in merito alla consapevolezza del fornitore sulla falsità della dichiarazione d’intento, è bene ricordare che già in sede di giurisprudenza comunitaria, la Corte di Giustizia ha limitato, in funzione della buona fede, la responsabilità del soggetto cedente in regime di non imponibilità per cessioni intracomunitarie di beni che in realtà non uscivano realmente dal Paese di partenza;
  • il principio, certamente chiaro, espresso dall’articolo 17, comma 1, D.P.R. 633/1972, secondo cui il soggetto passivo dell’imposta è il cedente/prestatore non significa che non vi possano essere deroghe in tal senso. Più precisamente, si pensi a tutti quei casi in cui, in relazione alla posizione soggettiva del cessionario, quest’ultimo richieda la non applicazione dell’imposta (come nel caso dell’esportatore abituale), ovvero l’applicazione di un’aliquota ridotta. Tale ultima ipotesi ricorre, ad esempio, nella disciplina relativa all’agevolazione “prima casa”, in cui è l’acquirente che è tenuto a dichiarare di possedere i requisiti, senza che il cedente debba (o possa) indagare sulla veridicità delle dichiarazioni;
  • l’ultimo aspetto, quello relativo alla dimostrata insussistenza dell’esportazione dei beni acquistati con la dichiarazione d’intento risultata non veritiera, appare viziato sin dall’origine, atteso che la dichiarazione di possedere i requisiti di esportatore abituale (cd. “status”) non richiede la dimostrazione dell’avvenuta esportazione dei beni acquistati senza applicazione dell’imposta, in quanto il presupposto, come descritto in precedenza, si basa sulle operazioni effettuate nell’anno precedente. Pertanto, l’indagine non deve incentrarsi sulla sorte dei beni acquistati con il plafond, ma sulle operazioni che a monte hanno generato il plafond stesso.

Fatte tali precisazioni vanno analizzati gli elementi di prova apportati dall’Ufficio al fine di sostenere la consapevolezza della ” A ” nella presunta frode.

Per tale aspetto va rilevato che gli elementi indiziari apportati dall’Ufficio risultano insufficienti ed errati nella loro interpretazioni, quindi non sufficienti asostenere la consapevolezza della ” A ” nella presunta frode.

Risulta incontestato che la ” A ” agì nei confronti della ” omissis ” avanti al Tribunale di Trieste per ottenere il pagamento di euro 479.000,00 corrispondente al prezzo della fornitura di 6.000 telefoni cellulari, richiesta accolta dal Tribunale, successivamente la ” omissis ” fu dichiarata fallita e la ” A ” si insinuò nella procedura concorsuale. Circostanze queste che provano l’estraneità della Contribuente nei presunti accordi fraudolenti. Sulla consapevolezza che la ” omissis ” e le società ad essa collegata fosse una “cartiera” va evidenziato che dette imprese risultavano avere una consistenza in termini di dipendenti, strutture ed operatività di segno ben opposto alle cd. imprese cartiere che sorgono e si estinguono in un brevissimo arco temporale non dispongono di strutture e di organizzazione d’impresa. Nell’ambito della sostenuta illecita triangolazione ” omissis “/” A “/” omissis “, l’Ufficio ricostruisce documentalmente i rapporti commerciali tra ” A ” e ” omissis ” ma non fornisce alcuna evidenza in merito al preteso carosello ossia la presunta retrocessione delle merci da ” omissis ” a ” omissis “.

In conclusione l’appello dell’Ufficio va rigettato e la sentenza di primo grado va confermata limitatamente al dictum.

La complessità in fatto e diritto delle questioni controverse, l’erronea motivazione sviluppata dai giudici di primo grado, impone l’integrale compensazione fra le Parti delle spese di lite di entrambi i gradi di giudizio.

P.Q.M.

Rigetta l’appello dell’Ufficio e conferma l’impugnata decisione.

Compensa integralmente fra le Parti le spese del presente grado di giudizio.

Così deciso in Trieste, 6.3.2017