Commissione Tributaria Regionale della Campania sez. T sentenza n. 1186 depositata il 8 febbraio 2018
TRIBUTI – CONTENZIOSO TRIBUTARIO – PROCEDIMENTO – RICORSO IN APPELLO – INAMMISSIBILITA’
Svolgimento del processo
Con l’impugnata sentenza la C.T.P. di Napoli rigettava il ricorso proposto dalla s.r.l. M.G. in liquidazione avverso l’avviso di accertamento come da epigrafe notificatole dalla DRE della Campania sulla scorta di processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza di Napoli donde si riscontrava che essa ricorrente nel 2007 avrebbe posto in essere attività volta ad occultare la provenienza ed il valore di rottami ferrosi acquistati partecipando ad altrui condotte illecite ed avrebbe così evaso IRES, IRAP ed IVA rispettivamente per indebite deduzioni di costi e componenti negative nonché per fittizia autofatturazione correlata al meccanismo del cd. reverse charge.
La società ricorrente aveva dedotto l’illegittimo raddoppio dei termini ex art. 43 dpr 600/73 quanto all’IRAP ed aveva sostenuto altresì di aver effettuato acquisti da privati non soggetti ad IVA, essendo quindi tenuta ad autofatturazioni, e che i costi in oggetto erano certi ed inerenti.
L’ufficio tributario, instauratosi il contraddittorio, si era costituito resistendo al ricorso.
La C.T.P. quindi decideva nei sensi detti, affermando che anche all’IRAP si applicava la disciplina dell’accertamento dell’IRES, fra cui quella inerente il raddoppio dei termini ex art. 43 dpr 600/73 riguardante l’intero accertamento tributario, nonché rilevando la mancata adduzione di prove atte ad inficiare le emergenze del processo verbale di constatazione sotteso all’avviso contestato, con particolare riferimento all’assenza di documenti relativi ai dedotti acquisti da privati esenti da IVA per un complessivo importo di 85 milioni di euro, che peraltro sarebbero stati versati in contanti, onde la s.r.l. M.G. aveva in realtà acquistato materiali ferrosi da fornitori soggetti ad IVA che non avevano emesso fatture a riguardo ed era perciò ricorsa ad autofatturazioni col meccanismo del cd. reverse charge onde evadere la detta imposta d’intesa con quei cedenti.
Avverso tale sentenza proponeva appello essa società contribuente, ribadendo le doglianze esposte in primo grado.
L’appellato ufficio, radicatasi la lite, si costituiva deducendo la totale inammissibilità del gravame per assenza di specifiche censure nonché la sua infondatezza.
Indi questo collegio ha adottato la deliberazione, come da dispositivo e motivi qui contenuti, all’udienza odierna, svoltasi con le formalità di cui all’art. 34 D.Lgs. n. 546/92 nella ricorrenza di ogni requisito previsto dalla detta norma.
Motivi della decisione
L’appello, come correttamente eccepito dall’ufficio appellato, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi esposti a sostegno del medesimo, il che invero va affermato tutte le volte in cui l’appellante, come nella specie, si limita a ribadire puramente e semplicemente le deduzioni esposte davanti ai primi Giudici, senza addurre puntuali ragioni censorie avverso il loro decisum.
Ciò infatti viola, per com’è intuitivo, la lettera e la logica dell’art. 53 d.lgs. n. 546/92, pedissequo all’art. 342 c.p.c., dal momento che il secondo giudizio viene concepito, in tutto o in parte, come una supina reiterazione delle istanze, eccezioni e difese di primo grado, come se la sentenza intervenuta a conclusione di quest’ultimo non esistesse.
Tanto per di più non solo elide la necessaria verifica di una specifica censura delle proposizioni motive contestate, ma fa venir meno la stessa devolutività del giudizio d’impugnazione.
Invero, poiché l’essenza del giudizio di grado ulteriore è costituita dai rilievi critici mossi ad una data pronuncia (cfr., ex plurimis, Cass. 08.06.01 n. 7809; 16.11.05 n. 23090; 19.09.06 n. 20261; 18.04.07 n. 9244; 05.06.07 n. 13175), chi propone gravame dovrebbe contrastare nello specifico, ex artt. 53 e 342 citt., i motivi addotti nella statuizione impugnata, il che non è certo ravvisabile nelle ragioni esposte nell’appello in oggetto, essenzialmente ripetitive, a quanto già detto, di quelle esternate in primo grado.
Ebbene, avendo la C.T.P. divisato la totale infondatezza del ricorso con esaustivi argomenti in fatto ed in diritto, fra cui segnatamente il mancato riscontro di documentazione contabile atta a suffragare l’assunto della s.r.l. M.G., non è dato leggere nell’atto d’appello di quest’ultima alcun motivo specificamente censorio dei medesimi, ma soltanto, come già evidenziato, l’insistenza, a prescindere, sulle contrarie tesi propugnate in processo.
Non mette quindi conto scrutinare analiticamente le doglianze di essa società appellante, in difetto di specifica censura quanto meno del rilievo della C.T.P. nei sensi testé evidenziati.
A riguardo va infatti considerato che, come per costante insegnamento della Suprema Corte (cfr., ex multis, Cass. S.U. n. 16/00; Cass. n. 7809/01; n. 13956/05; n. 23090/05; n. 1099/06; n. 2938/06; n. 18310/07; n. 12995/13 e, da ultimo, Cass. S.U. n. 11977/17) “ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata … l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto d’interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza”.
Peraltro “qualora la pronuncia impugnata sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata … la parte soccombente ha l’onere di censurare con l’atto di appello ciascuna delle ragioni della decisione, non potendosi, in difetto, trattare successivamente della ragione non tempestivamente contestata e non potendosi, conseguentemente, più utilmente discutere, sotto qualsiasi profilo, della stessa statuizione che nella detta ragione trova autonomo sostegno, a nulla valendo a tal fine la richiesta di integrale riforma della sentenza, poiché la non contestata autonoma ragione di decisione resta idonea a sorreggere la pronunzia impugnata, non potendo il giudice d’appello estendere il suo esame a punti non compresi neppure per implicito nei termini prospettati dal gravame, senza violare il principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato” (così testualmente in Cass. n. 12995/13 cit., ove altresì si menzionano le conformi pronunce n. 22753/11, n. 1891/13, n. 1610/13, n. 3386/11, n. 24540/09, n. 20118/06).
In particolare la citata sentenza n. 11977/17 delle S.U. della Cassazione riafferma con pregevole chiarezza, in una scrupolosa ricostruzione sistematica, l’onere di censurare, a pena di inammissibilità del gravame, tutte le rationes decidendi della statuizione impugnata, sì che quelle che ne restano escluse si consolidano, passando in cosa giudicata e così precludendo la possibilità di esame delle altre, di guisa che quella statuizione ne risulta confermata, diventando inutile scrutinare se sia corretta altra ratio decidendi.
Per di più la detta sentenza n. 11977/17 precisa ancora, per ciò che pure rileva nel caso di specie, che una critica che coinvolga la gravata pronuncia con disinteresse della correlata motivazione deve considerarsi inammissibile, come del resto già affermato anteriormente (Cass. S.U. n. 16598/16), e del pari che una deduzione non contenente specifica critica di essa pronuncia non ha neppure la struttura di motivo d’impugnazione.
Le spese del grado seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Così provvede: dichiara inammissibile l’appello e condanna l’appellante alla rifusione delle spese del grado sostenute dall’appellato ufficio nella misura di € 30.000,00, oltre accessori di legge.
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