COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di TRENTO Sentenza 18 marzo 2013, n. 21
ACCERTAMENTO – REDDITO DI IMPRESA – DESTINAZIONE DEI BENI A FINALITA’ ESTRANEE ALL’IMPRESA – NECESSITA’ DIMOSTRAZIONE
massima
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Il semplice rinvenimento di beni, personali o familiari dell’imprenditore, quindi estranei all’attività di impresa, nel magazzino ad uso esclusivo dell’attività imprenditoriale, non basta a giustificare la ripresa a tassazione della plusvalenza patrimoniale per diverso utilizzo dei locali rispetto all’esercizio dell’attività d’impresa. La confusione dei beni presenti nel locale in questione lascia trasparire la temporaneità e non una destinazione d’uso definitiva di una parte del magazzino alle esigenze private della famiglia del ricorrente. La caotica presenza di beni, strettamente legati alla normale vita familiare, non consente di riqualificare la destinazione d’uso del magazzino dai fini imprenditoriali a quelli familiari.
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L’Agenzia, con avviso di accertamento, procedeva al controllo della posizione fiscale del (Omissis), titolare di ditta individuale dedita al commercio di armi e articoli sportivi. Questa era stata oggetto di verifica fiscale della Guardia di Finanza, conclusasi con PVC comunicato il 7/7/2006.
L’accertamento, contestata l’infedeltà della dichiarazione dei redditi, operava nei confronti del contribuente il recupero a tassazione di maggiori imposte: IRPEF di Euro 9.954,00, IVA per Euro 14.915,00, Add.Reg. per Euro 249,00, IRAP per Euro 1132,00, oltre a sanzioni di Euro 39.075,97.
La verifica fiscale rilevava che un locale, destinato a magazzino e registrato come (Omissis) in (Omissis) di mq 89, era stato utilizzato per scopi diversi dall’attività commerciale. L’Ufficio, nell’avviso di accertamento, riferiva che la ditta non si era adeguata ai rilievi contenuti al punto 7 del PVC. In merito, segnalava che era risultata la presenza di elettrodomestici (lavatrice, congelatore), attrezzi ginnici ed altri beni estranei all’attività di impresa.
L’Ufficio, considerato che detto immobile era iscritto nel libro dei cespiti e che sullo stesso erano stati eseguiti lavori di ristrutturazione per Euro 58.742,00; che lo stesso locale risultava adibito a scopi estranei all’attività di impresa, contestava a norma dell’art. 86, comma 1 lett. c) del TUIR, una plusvalenza patrimoniale pari al valore di quel bene destinato all’impresa. L’Ufficio, per quantificare detto valore, aveva proceduto alla stima di mercato dell’immobile (valore normale), individuato in Euro 1.000,00 al mq, per complessivi Euro 89.000,00.-
Considerati il costo di acquisto originario, pari a Euro 11.362,00-, e le spese di migliorie sostenute, l’Ufficio quantificava un imponibile pari a Euro 74.576,00-.
Assoggettava detto valore ad IVA, con recupero di detta imposta.
Il tentativo di accertamento con adesione si chiudeva con esito negativo.
Il (Omissis) impugnava l’atto, asserendo di avere utilizzato il magazzino per soli fini imprenditoriali, ammettendone anche un uso per scopi diversi da quelli aziendali, comunque solo in via temporanea e non definitiva. Contestava il valore attribuito all’immobile e le sanzioni nella misura irrogata.
Il Giudice di primo grado accoglieva il ricorso, con sentenza n. (Omissis) del (Omissis). Teneva in conto che nel locale erano stati trovati anche attrezzi utili all’attività commerciale, per riparazione di armi, ottiche, canne da pesca, oltre a beni apparentemente estranei all’attività di impresa. E tuttavia, anche il frigorifero e la lavatrice, a suo giudizio, sembravano funzionali all’attività. Un solo accesso, precisava il Giudice, non poteva essere di per sé sufficiente per provare la definitiva destinazione del magazzino a scopi diversi da quelli imprenditoriali. Riteneva, quindi, che mancassero i presupposti per la rettifica e le imposte accertate.
L’Ufficio appellava con atto spedito il (Omissis) (ricevuto il (Omissis)); insisteva sulla esistenza di elementi idonei a giustificare la destinazione del magazzino a fini diversi dall’esercizio d’impresa e, quindi, riproponeva le controdeduzioni alle eccezioni sollevate dal ricorrente in primo in grado, e non affrontate dal primo giudice. Contestava siccome infondata l’eccezione del ricorrente, di una non motivata quantificazione delle sanzioni nella misura massima prevista dalla legge. Chiedeva, nelle sue conclusioni, la riforma della sentenza impugnata e la conferma dell’avviso di accertamento impugnato.
Il ricorrente si costituiva con memoria di controdeduzioni. Contestava, in via pregiudiziale, l’inammissibilità dell’atto di appello per notificazione dello stesso con modalità non conformi al dettato normativo, non potendosi ritenere che quell’atto ricevuto fosse stato spedito in plico raccomandato “senza busta”: il foglio bianco sul quale erano stati apposti, dall’Agenzia, i dati della spedizione e, dall’Ufficio postale, il proprio timbro di spedizione, era privo di qualsiasi collegamento o segno di congiunzione con l’atto di appello che compiegava.
Nel merito, la parte ribadiva l’utilizzo a fini imprenditoriali del magazzino e sosteneva la corretta valutazione data dal Giudice di prime cure all’uso del locale e dei beni in esso presenti. Respingeva la contestazione dell’Ufficio della mancata contabilizzazione della plusvalenza sulla base della differenza tra valore normale e costo non ammortizzato del bene, nonché del recupero dell’IVA per omessa autofatturazione sulla base del valore normale. Entrambi i rilievi, sosteneva la parte appellata, erano errati perché posti su dati non veritieri.
Il (Omissis) ricordava che lo stesso Giudice di primo grado escludeva l’ipotesi di autoconsumo, perché non era stata provata che la destinazione del bene ad uso personale fosse definitiva. In subordine, la parte appellata contestava la quantificazione della base imponibile, stimata erroneamente in Euro 1000,00 al mq, piuttosto che ad un valore più congruo di Euro 276,92, considerata la vetustà dell’immobile, un magazzino ristrutturato nel 1992, benché in buono stato d’uso. Il calcolo operato dall’Ufficio era peraltro errato, precisava la stessa parte, perché era stato considerato il costo sostenuto per l’intervento sulla p.ed. 1841/1-pm 1, che non era stato destinato alla sola ristrutturazione, ma anche all’acquisto di arredi.
Il (Omissis) chiedeva, sempre in via subordinata, di voler annullare le pretese in relazione all’IVA applicabile, considerato che le norme in vigore, modificate per effetto del DL 83/2012, ormai stabiliscono l’esenzione d’imposta per le cessioni di beni immobili da parte degli imprenditori. Ed ancora, di voler ridurre le pretese avanzate dall’Agenzia, dovendosi tener conto del prezzo di costo dei beni al momento dell’operazione, a mente dell’art. 13, comma 2, lett. c), del DPR n.633/72, modificato dall’art. 1 del D.Lgs n. 18/2010. Chiedeva fosse annullata la pretesa IRAP, perché si trattava di plusvalenza avente natura straordinaria; inoltre, fosse dichiarata illegittima la quantificazione delle sanzioni nella misura massima, senza una espressa motivazione, sanzioni che verrebbero superate dalla previsione normativa ora vigente, che considera le operazioni in esame esenti da IVA.
Nelle sue conclusioni, il (Omissis) chiedeva, come prima precisato, in via pregiudiziale, di dichiarare la inammissibilità dell’appello; in via principale e, quindi, subordinata, di respingere l’appello per le ragioni prima espresse. La causa era trattata in pubblica udienza e decisa come da separato dispositivo.
Motivazione
Occorre esaminare l’eccezione pregiudiziale sollevata dal (Omissis), circa la notificazione dell’atto di appello.
L’eccezione di parte è respinta. È di tutta evidenza, perché è la stessa parte a produrre in atti la prova, che l’Ufficio ha spedito un atto al (Omissis) nel suo domicilio eletto. È altrettanto incontestabile che la forma è quella del plico e non della busta, poiché sono riconoscibili i punti di chiusura del plico. La parte, però, pone il dubbio dell’esistenza certa dell’atto di appello, e ciò giustificherebbe con la sua richiesta di informazioni alla cancelleria della Commissione Tributaria di secondo grado. La tesi non è supportata dalla necessaria documentazione. Il procuratore domiciliatario, a cui è stato consegnato il plico, non dice di non aver ricevuto l’atto di appello, né dice di aver ritirato soltanto un foglio con su riportato il nome del destinatario; ma afferma che la mancata apparente congiunzione del foglio bianco (allegato in atti) a quell’atto pone la questione della legittimità della stessa notificazione, secondo la norma di rito di cui all’art. 20, comma 2, e all’art. 16, commi 2 e 3, D.Lgs 546/92. L’eccezione formale che il destinatario della notificazione solleva è quella di parificare il plico ad una busta vuota, cioè non contenente l’atto notificando. Sul punto occorre precisare che la forma del plico, richiesta dalla norma processuale, ha il chiaro fine di verificare con immediatezza l’esistenza di un atto compiegato. Riscontro che mancherebbe ove si riceva una semplice busta. Nel caso di specie, infatti, risulta dall’avviso di ricevimento prodotto in fotocopia dall’Ufficio, che il destinatario della notificazione ha ricevuto regolarmente il plico, senza che lo stesso abbia denunciato all’incaricato postale una qualche manomissione del plico medesimo o comunque la perdita di documenti. Tanto avrebbe certamente potuto avallare la sua contestazione. Agli atti risulta che l’Ufficio ha spedito in termini il plico contenente soltanto l’atto di appello e che lo stesso è stato ricevuto dal procuratore domiciliatario, perfezionandosi così la procedura di notificazione. Spettava dunque al destinatario l’onere di dimostrare che il plico non conteneva alcuna lettera al suo interno, ovvero che esso conteneva una lettera di contenuto diverso da quello indicato dal mittente (Cass. n. 20027/2011; n. 22133/2004)
Il contribuente, producendo in causa una parte del plico ricevuto per sostenere l’eccezione pregiudiziale, non ha assolto l’onere di provare che lo stesso non conteneva l’atto di appello, dovendosi invece presumere, con la ricezione di quel plico raccomandato, la conoscenza dell’atto in esso contenuto (Cass. n. 20027/2011). Nel merito, il motivo principale di appello dell’Ufficio non è fondato. La sentenza del Giudice di primo grado ha correttamente esaminato la fattispecie che emerge dagli atti e opportunamente figurata dal ricorrente.
Premesso che l’accertamento del 12/09/2008 era emesso dall’Ufficio, perché dalla documentazione esibita dal contribuente non risultava che lo stesso si fosse adeguato ai rilievi contenuti al punto 7 del PVC (destinazione a scopi estranei all’attività di impresa di beni ed attività inseriti nella contabilità), la causa di lite consiste nell’accertare se nel caso di specie ricorrano le condizioni per ritenere che il locale, già magazzino della ditta commerciale del (Omissis), sia stato destinato, seppur in parte, all’uso o consumo personale del titolare e, quindi, abbia prodotto plusvalenze a norma dell’art. 86, comma 1 lett. c), del DPR n. 917/86.
La contestazione trova il suo fondamento nel seguente passaggio dell’avviso di accertamento (pag. 4): “La Guardia di Finanza ha rilevato che la p.m. in questione risulta adibita a scopi estranei all’attività di impresa in quanto da rilievi fotografici vi è la presenza di materiale non inerente all’attività di impresa”. L’appellante censura la decisione di primo grado, perché avrebbe ritenuto inadeguati gli elementi di prova acquisiti dai militari della G.d.F. nel corso della verifica fiscale, per sostenere il non esclusivo utilizzo della p.m. 1841/1 per l’attività imprenditoriale.
L’attenzione dell’Agenzia si concentra, pertanto, su una serie di beni: attrezzi ginnici, biciclette, motocicletta giocattolo, seggiolone per neonati, biliardino, palloni, attrezzi da giardino, frigorifero, lavatrice. Questi beni, poiché riconducibili direttamente alla famiglia del (Omissis), giustificavano, a parere dell’Ufficio, la tesi per cui il citato locale era stato in parte distolto dalla principale destinazione d’uso di magazzino servente l’attività commerciale, e adibito anche a deposito di beni privati. Il rilievo, riportato nel PVC della Guardia di Finanza e fatto proprio dall’Agenzia delle Entrate, appare fragile ed efficacemente contrastato dal contribuente. Le fotografie esistenti e prodotte in atti fanno stato di quanto era presente nel locale. Ma tanto non è sufficiente per sostenere l’accertamento e il recupero di imposta. Si osserva, considerata l’assenza di contestazione sul punto, che negli spazi meglio fruibili del magazzino erano presenti un bancone di lavoro, scaffalature metalliche, bilancia per la pesatura della merce, cassettiere per la conservazione distinta di prodotti similari. Si ricorda che la ditta commerciava in ferramenta e in prodotti destinati alla caccia e pesca, era un’armeria e vendeva beni inerenti. È indiscusso che la maggior parte dei beni presenti nel locale, quelli aventi un maggior valore specifico, appaiono strettamente connessi all’attività di impresa. Lo stesso frigorifero e la lavatrice possono trovare una loro collocazione nella organizzazione rappresentata dal titolare della ditta; infatti, se è vero che lo stesso vende prodotti freschi destinati alla pesca, non può escludersi l’uso del frigorifero o del freezer.
Quanto alla lavatrice, sembra poco credibile la tesi dell’Ufficio, secondo cui quell’elettrodomestico presente nel magazzino, come appare in fotografia, era utilizzato dalla famiglia del (Omissis).
Le fotografie allegate al PVC della Guardia di Finanza offrono un’immagine tutta diversa da quella prospettata dall’Ufficio verificatore: la confusione dei beni presenti nel locale lascia trasparire la temporaneità e non una destinazione d’uso definitiva di una parte del magazzino alle esigenze private della famiglia del (Omissis). La Guardia di Finanza ha in realtà fotografato l’uso della p.m. 1841/1 ad una certa data, ponendo le condizioni, per l’Agenzia delle Entrate, di poter recuperare a tassazione componenti di reddito, ai fini delle imposte dirette e dell’IVA, sulla base di una presunzione ex art. 2, comma 2 n. 5, del DPR n. 633/72. Tuttavia, le dichiarazioni del ricorrente offrono un’immagine veridica della situazione rilevata, certamente condizionata dalla prossimità della residenza della famiglia del (Omissis), abitando l’appartamento realizzato al piano superiore.
Una condizione occasionale, dunque, che non consente di tradurre quella caotica presenza di beni, strettamente legati alla normale vita familiare, nella eccepita destinazione di un bene aziendale a consumo personale. Va, invece, respinta la contestazione dell’Ufficio, che non consente l’ipotesi di un posizionamento “provvisorio” delle biciclette e dei giochi, mentre erra quando esclude che beni, come armadi e scaffalature, possano avere un utilizzo funzionale all’attività aziendale.
Le dichiarazioni di parte, considerate anche le obbiettive condizioni di stretta vicinanza in cui versano l’attività commerciale e la vita familiare, insieme alla rilevata confusione in cui beni e attrezzi di ogni genere sono presenti nel locale-magazzino, indici di una criticità temporanea, consentono di attribuire, alle prime, valore di prova contraria alla presunzione dell’Ufficio, così escludendosi la cessione definitiva nel tempo, seppur parziale, del bene aziendale a consumo personale (Cass. Trib. n. 8852/2008).
Il rigetto del motivo principale dell’appello, proposto dall’Ufficio, non consente di entrare nel merito delle altre eccezioni che lo presuppongono, come la quantificazione della base imponibile, quelle relative all’IVA e all’IRAP e la quantificazione delle sanzioni; tutte questioni che, pertanto, devono ritenersi assorbite.
Tutto sin qui considerato e dedotto, l’appello dell’Ufficio avverso alla sentenza precisata in premessa è respinto. Nulla sulle spese, considerata la natura delle questioni trattate.
P.Q.M.
Conferma l’appellata sentenza della Commissione Tributaria di primo grado di Trento.
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