COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di Firenze sentenza n. 1739 sez. 13 del 4 ottobre 2016
IVA – ILLEGITTIMO ASSOGGETTAMENTO AD IVA DELLA TIA
FATTO
La Società A.S. S.p.A. proponeva ricorso contro il ruolo n. 2012/— esposto nella cartella n. — notificatale in data 06/09/2012 per la richiesta del pagamento TIA relativa al primo trimestre 2010 e per il rimborso di quanto pagato in più nel 2010. La Società contribuente, premesso in fatto di svolgere attività di autotrasporto merci e di disporre in — di mq 133 destinati ad uffici e di mq 1574 a magazzino, precisava che nel magazzino venivano prodotti esclusivamente scarti da imballaggi terziari che successivamente recuperati, venivano avviati alla sede sociale di Monza ove venivano recuperati da una ditta specializzata. Per quanto precede chiedeva che la superficie relativa al magazzino non venisse computata nell’applicazione della tariffa.
Alla richiesta di parte contribuente la Società A. S.p.A. rispondeva che la TIA era comunque dovuta salvo richiesta di riduzione per la contestuale produzione di rifiuti urbani e speciali e per l’avviamento a recupero.
A seguito di ricorso per la fatturazione relativa al 2011 la CTP di Lucca dichiarava non soggetti alla quota variabile TIA i locali dove si producevano i rifiuti speciali e non soggetti ad IVA i tributi richiesti.
Per l’anno 2010 parte contribuente provvedeva al pagamento di due fatture tranne quella relativa al primo trimestre.
A seguito della citata sentenza n. 107/1/13 emessa dalla CTP di Lucca presenta oggi appello la società A. S.p.A. per chiedere la conferma del proprio operato, e dichiarata l’applicabilità dell’Iva sul tributo, mentre la società appellata A.S. S.p.A. presenta controdeduzioni ed appello incidentale per ribadire tutto quanto già sostenuto nel proprio ricorso principale oltre a fare richiesta di quanto ritenuto indebitamente pagato oltre al pagamento delle spese processuali.
Questa Commissione osserva che oggetto del contendere nell’odierno procedimento d’appello riguarda l’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto – IVA (10% a tariffa agevolata) sulla Tariffa di Igiene Ambientale – TIA riscossa dall’A. S.p.A., quale concessionaria del servizio di smaltimento e gestione dei rifiuti urbani, a carico del contribuente negli anni in contestazione: infatti parte appellata, sostenendo la non assoggettabilità ad imposizione indiretta della predetta tariffa, avente a suo dire natura tributaria, sostiene la correttezza della sentenza della CTP che, con la sentenza n. 107/1/13, ha sostenuto la non debenza del tributo compensando le spese di giudizio.
Dall’esame immediato dei provvedimenti in esame si desume che l’aliquota del 10%, applicabile sulle somme dovute dagli utenti per usufruire del servizio di raccolta dei rifiuti, nasce testualmente nel 1993 con l’inclusione nella “tariffa IVA” della voce numero 127 sexiesdecies che, in forza dei richiami alla legge Ronchi prima e dal Testo unico ambientale oggi, palesemente riguarda le attività svolte dai concessionari che gestiscono il ciclo integrato dello smaltimento dei rifiuti.
In epoca di qualche anno successiva all’introduzione di questa voce, la norma regolamentare dell’articolo 1 del decreto ministeriale 370 del 2000 ha previsto modalità semplificate per la fatturazione delle somme da richiedersi da parte dei gestori, con ciò ribadendo implicitamente l’addebitabilità dell’imposta sul valore aggiunto per questo genere di prestazioni fornite alla cittadinanza.
Ora, si conviene con la difesa A. SpA che le modalità sincopate con cui è stata introdotta l’imposizione indiretta sulla TIA destino qualche perplessità perché il decreto legge del 1993 si è limitato ad inserire la voce tariffaria in calce alle tabelle delle aliquote IVA mentre per altri servizi pubblici vi è stata una organica e compiuta esplicitazione del presupposto tributario in articoli contenuti nel corpo del D.P.R. 633/1972, che costituiscono specificazione delle fondamentali definizioni di “cessioni di beni” e “prestazione di servizi” di cui agli articoli 2 e 3 dello stesso decreto.
Ciò non toglie che un compiuto disegno normativo vi sia a livello di legislazione primaria, con il debito completamento sul terreno regolamentare attraverso le disposizioni del decreto ministeriale che semplifica la fatturazione della TIA agli utenti.
Infatti, se gli unici soggetti tenuti a corrispondere all’Erario l’IVA su specifiche porzioni e fasi della gestione integrata dei “rifiuti sono in pratica gli appaltatori o subappaltatori aventi causa dal concessionario comunale, a fronte di manipolazioni, conferimenti e trattamenti intermedi nella catena dello smaltimento, il risultato finale sarebbe una gratuita beneficenza fatta dallo Stato, visto che in tal modo il concessionario finale avrebbe diritto ai rimborsi dell’IVA a fronte delle prestazioni intermedie a lui fornite da queste imprese collaboratrici.
Quindi, il concessionario sarebbe sempre e solo creditore IVA mentre non dovrebbe mai versare all’Erario, visto che non potrebbe addebitare detta imposta ai clienti.
Non paiono ricorrere estremi di irragionevolezza nella disciplina impositiva come sopra ricostruita, da sottoporre al vaglio del Giudice delle leggi: è semmai vero il contrario, rispetto alla posizione di altri concessionari di servizi pubblici, rispetto ai quali si porrebbe un concreto problema di parità di trattamento. Poco meno di due mesi fa le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno definitivamente statuito, con la sentenza 5078/2016 l’illegittimità dell’assoggettamento ad Iva della cosiddetta Tariffa di igiene ambientale (Tia), in quanto altro non era che la riproduzione sotto diverse spoglie della “tassa”, cioè di un tributo che il cittadino deve pagare senza nessun concreto rapporto di sinallagmaticità tra prestazione ed importo dovuto.
La TIA era infatti dovuta anche nel caso in cui il contribuente non avesse fatto un utilizzo del servizio, copriva – come la tassa – anche il costo dello spazzamento delle strade e, soprattutto, era commisurata con i criteri tipici dei tributi, gravando di più sui non residenti che – al contrario – sono quelli che producono meno rifiuti da smaltire. Con queste caratteristiche del provento non era possibile pretendere l’applicazione dell’Iva, prova ne sia che la Cassazione esclude anche la necessità di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, tanto è palese la regola da applicare per risolvere la controversia.
Non si può tardare nel prevedere una soluzione legislativa al regolamento dei rapporti tra gli emittenti delle fatture e i destinatari del relativo addebito. Questi rapporti non sono di diritto tributario ma di diritto civile, in quanto conseguono all’esercizio della rivalsa e non derivano da controversie con l’amministrazione finanziaria, che anzi è stata la causa di questa irregolarità, dato che sia l’Agenzia delle Entrate (risoluzioni 25/E del 5 febbraio 2003 e 250/E del 17 giugno 2008) che il ministero delle Finanze (circola 3/DF dell’ 11 novembre 2010) avevano invece preteso l’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto, che i Comuni e/o le società incaricate della gestione del servizio hanno regolarmente versato.
L’aspetto più aberrante che si può leggere nella sentenza della Cassazione riguarda il costo della lite rispetto all’entità del tributo da recuperare: la causa nasce infatti presso il giudice di pace e, in teoria, ogni utente dovrebbe attivarsi nuovamente presso gli organi di giustizia, in quanto – in assenza di una norma ad hoc – la restituzione spontanea del tributo da parte di chi ha emesso la fattura non dà a titolo per chiedere il rimborso dell’imposta all’erario (Cassazione, sentenze n.12666 del 20 luglio 2012 e n. 1426 del 26 gennaio 2016).
Su questo quadro già complesso si innestano altri due problemi: l’intervenuta detrazione dell’Iva da parte di chi ha ricevuto queste fatture nell’esercizio di impresa, arte e professione, e la detrazione eseguita dai Comuni o dai gestori del servizio, in quanto la “trasformazione” del corrispettivo in tassa comporta che l’Iva sui beni e servizi acquistati per lo svolgimento del servizio diventa indetraibile.
Questo è il problema di maggior rilievo, prova ne sia che alcuni comuni avevano già provveduto a sostituire le fatture imponibili con gli avvisi di pagamento della TIA senza Iva. Ma, rendendosi conto della perdita della detrazione sui costi del servizio, alla fine hanno chiesto ulteriori importi ai contribuenti per coprire i costi al lordo dell’Iva, mentre la tariffa imponibile era stata costruita considerandoli al netto.
È sicuramente inimmaginabile che chiunque abbia pagato questa Iva indebita debba attivarsi individualmente, così come non si può pensare che la soluzione si possa collocare in contrasto con la direttiva dell’imposta sul valore aggiunto.
Occorre quindi che venga adottata una misura normativa (senza aspettare la prossima legge di Stabilità, la sede opportuna è la legge europea 2015, tuttora in prima lettura) per una soluzione globale del problema, che consenta cioè di evitare il proliferare di cause che andrebbero ancor più ad intasare gli organi giurisdizionali.
In ogni caso bisogna distinguere tra chi ha potuto detrarre totalmente l’Iva, nel qual caso è logico ipotizzare la conferma sia dell’imposta che della detrazione (è inutile riaprire un effetto sostanziale pari a zero), mentre per chi non ha detratto, in tutto o in parte, la restituzione del tributo deve avvenire al netto della quota di Iva che esprime l’aumento del costo del servizio conseguente alla rettifica della detrazione per chi aveva emesso le fatture.
Sulla scorta di tutte le considerazioni esposte, si ritiene dover respingere l’appello principale dell’A. S.p.A. e quello incidentale del contribuente con la conseguente reiezione della domanda di ripetizione dell’IVA.
Quanto alle spese di lite, la reiezione dei motivi di impugnazione di natura processuale; la complessità della materia e l’esistenza di precedenti di segno contrario nella giurisprudenza di legittimità, anche in epoca recente, sono ragioni ampiamente sufficienti a determinare la totale compensazione delle stesse.
P.Q.M.
Respinge l’appello principale e respinge l’appello incidentale; compensa le spese del presente grado di giudizio.
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