COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per il Friuli Venezia-Giulia sentenza n. 296 sez. 1 depositata il 20 settembre 2016
Massima
Il giudice d’appello friulano ha respinto l’appello proposto da una società avente sede legale in Lussemburgo, dichiarando l’abuso del diritto di stabilimento finalizzato ad utilizzare il più favorevole regime fiscale lussemburghese. A sostegno della propria tesi i giudici citano quanto affermato nella sentenza della Corte di Cassazione n. 2869/2013 secondo la quale: “Ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento, nell’ipotesi di esterovestizione ossia di fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, non è necessario accertare la sussistenza di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma occorre verificare se il trasferimento in realtà vi è stato o no, cioè se l’operazione sia meramente artificiosa consistendo nella creazione di una forma giuridica che non produce una corrispondente e genuina realtà economica”. Nel caso di specie i giudici avevano infatti accertato che il capitale sociale era minimo ed esclusivamente italiane le risorse finanziarie impiegate e che due professionisti italiani si erano effettivamente comportati come “amministratori di fatto” e finanziatori della società.
Svolgimento del processo
1.Con sentenza in data 3 dicembre 2014 la Commissione tributaria provinciale di Udine respingeva i ricorsi proposti dalla “A” SA avverso gli avvisi di accertamento IRES, IRAP e altro per gli anni di imposta 2006/2009 emessi nei suoi confronti. In particolare la CTP rilevava che la tesi principale assunta dall’ Agenzia delle entrate, ufficio locale, a base degli atti impositivi in oggetto ossia la “natura nazionale” della società ricorrente fosse fondata, da cui la correttezza delle riprese fiscali operate sussistendo il necessario presupposto di territorialità ai fini della tassazione in Italia dei redditi d’impresa prodotti dalla società ricorrente medesima. In questo senso sviluppava puntuali osservazioni sui motivi dei ricorsi, con specifico riguardo agli elementi fattuali della contestata “estero vestizione” ed anche relativamente al pur subordinato tema dell’applicabilità del regime PEX ratione temporis.
- Con atto di appello notificato in data 24 luglio 2015 la “A” SA impugnava detta decisione, deducendo cinque motivi.
2.1 Con un primo motivo lamenta violazione di legge e vizio della motivazione in ordine all’applicazione dell’art. 162, TUIR.
2.2 Con un secondo motivo si duole di violazione di legge e vizio della motivazione relativamente alla applicazione degli artt. 49, 63 del TFUE nonché degli artt. 4, 5 della Convenzione Italia/ Lussemburgo sulle doppie imposizioni.
2.3 Con un terzo motivo lamenta vizio della motivazione sia dell’accertamento che correlativamente della sentenza impugnati relativamente ai profili più strettamente fattuali della controversia.
2.4 Con un quarto motivo si duole di vizio della motivazione per “travisamento dei fatti” in ordine alla sua pretesa natura “esterovestita”.
2.5 Con un quinto motivo nuovamente invoca l’applicabilità del regime PEX ex art. 87, TUIR vigente ratione temporis.
- Resiste con memoria di controdeduzioni l’Agenzia delle entrate.
- L’appello è infondato e va pertanto respinto.
4.1 Con il primo motivo l’appellante lamenta la violazione dell’ art. 162, d.P.R. 917/1986 e il vizio della motivazione in ordine alla sussistenza di una “stabile organizzazione” riferibile ad essa appellante in Italia. In particolare contesta che gli elementi fattuali indicati dalla CTP al fine della correlativa statuizione abbiano le caratteristiche e la pregnanza richieste da detta disposizione del TUIR. Più specificamente evoca le previsioni di cui al settimo comma, secondo la quale «non costituisce stabile organizzazione dell’ impresa non residente il solo fatto che essa eserciti nel territorio dello Stato la propria attività per mezzo di un mediatore, di un commissionario generale o di ogni altro intemediario che goda di uno status indipendente, a condizione che dette persone agiscano nell’ ambito della loro ordinaria attività»; quella del quarto comma, secondo la quale non può essere considerata sede fissa di affari quella ove si espletano attività a «carattere preparatorio o ausiliario»; quella del nono comma, che sancisce l’insufficienza ai fini della configurazione di una “stabile organizzazione” del rapporto di “controllo” tra società estera e società residente.
Il motivo è infondato.
Nella sentenza impugnata correttamente il primo giudice pone in un quadro fattuale complessivo la propria valutazione della fattispecie concreta e quindi la sua sussumibilità nella previsione di cui all’ art. 162, TUIR.
Anzitutto opportunamente rileva 1′ evanescenza delle fonti cognitive relative alla costituzione e compagine sociale della “A” SA, comunque riferibili a paradisi fiscali (Isole Vergini), sottolinea che, a fronte di un capitale sociale minimo, siano esclusivamente “italiane” le risorse finanziarie impiegate per l’acquisizione di “B”, che sostanzialmente è 1’unica operazione di rilievo effettuata dalla società appellante, poi generante la plusvalenza oggetto delle riprese fiscali a vario titolo portate dagli avvisi di accertamento impugnati.
In questo quadro è del tutto logica e fondata la considerazione della CTP in ordine alla evidente “anomalia” costituita dal fatto che ben due professionisti italiani, il dott. “X” e l’avv. “Y”, si sono sostanzialmente comportati come “amministratori di fatto” e finanziatori (prestazioni di fideiussioni personali di rilevante importo) della “A” SA, sì che certamente non può ritenersi applicabile la norma di cui all’ art. 162, comma 7, TUIR, avendo essi assunto una posizione nient’affatto “indipendente” ed avendo comunque posto in essere condotte, puntualmente indicate e descritte negli atti impositivi, che sicuramente non rientrano nella loro «ordinaria attività».
Da ciò la ragionevolezza dell’affermazione della sentenza appellata che non ravvisa “soluzione di continuità” nella “nazionalità” dell’attività di “B”, ancorché, apparentemente, partecipata da “A” SA, tanto che appunto l’acquisizione della prima da parte della seconda non appare altro che un mezzo, quasi grossolano, di elusione fiscale.
Per queste, semplici ed essenziali, ragioni la CTP udinese ha dunque ritenuto la sussistenza della contestata “esterovestizione”, ma più correttamente l’applicabilità, “via” art. 162, TUIR, delle norme ulteriori sulla tassabilità in Italia del reddito societario di “A” SA.
Ciò del resto corrisponde ad una metodica di analisi dei fatti pienamente coerente con la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale «In tema di imposte sui redditi, ai fini dell’individuazione di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato di soggetto non residente, e quindi dell’applicazione dell’IRPEF e dell’ILOR, l’accertamento deve essere condotto sul piano formale, ma anche – e soprattutto ​su quello sostanziale, non essendo incompatibili con il concetto di stabile organizzazione né la personalità giuridica di cui sia eventualmente fornita la struttura operante in Italia, siccome l’autonoma soggettività giuridica non assume rilievo quanto alla imputazione dei rapporti fiscali, né l’assenza, in capo a quest’ultima, della capacità di produrre reddito di per sé ovvero dell’autonomia gestionale o contabile. Da ciò consegue l’irrilevanza del dato formale della molteplicità di imprese nelle quali l’organizzazione si articoli, allorché risultino sufficienti elementi oggettivi, desumibili dalle modalità operative dei soggetti attivi sul territorio nazionale, il cui significato sia, per di più, corroborato dall’esistenza di legami di natura soggettiva. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, secondo cui aveva costituito una stabile organizzazione nel territorio dello Stato una società, con sede in San Marino, che offriva servizi didattici per la preparazione “breve” di esami universitari con il metodo “ZZZZ”, avvalendosi di una molteplicità di società e imprese individuali, le quali, da un lato, avevano la funzione di recapito della prima e traevano i loro introiti non dai proventi dell’attività di assistenza didattica, ma dalle provvigioni su vendite fatturate a questa, e, dall’altro, pur se formalmente distinte, erano tuttavia economicamente integrate in una struttura unitaria, strumentale al raggiungimento dello scopo commerciale in Italia della “casa madre” non residente)» (ex pluribus, Sez. 5, n. 20597 del 2011).
Tanto più che, diversamente che nel caso di cui a tale precedente della S.C., nel caso di specie una sola è l’ impresa partecipata “italiana”.
4.2 Con il secondo motivo l’appellante si duole di violazione di legge in ordine agli artt. 49, 63 TFUE, 4, 5 della Convenzione Italia/Lussemburgo sulle doppie imposizioni (L. 747/1982) e del correlativo vizio motivazionale. Con ampie, quanto largamente non pertinenti considerazioni in diritto, in buona sostanza la “A” SA non fa che riproporre le contro allegazioni in fatto di cui al primo motivo.
Non vi è dunque che da ribadire la correlativa adeguatezza degli argomenti addotti in merito alle stesse dalla CTP di Udine ed in diritto soggiungere che nella giurisprudenza di legittimità è altresì consolidato il principio che «Ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento, nell’ipotesi di esterovestizione, ossia di fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, non è necessario accertare la sussistenza di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma, invece, occorre verificare se il trasferimento in realtà vi è stato, o no, cioè se l’operazione sia meramente artificiosa, consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica» (Sez. 5, n. 2869 del 2013).
4.3 Il terzo ed il quarto motivo non sono nient’altro che la ripetizione delle argomentazioni fattuali di cui ai primi due, sicché può questa Commissione limitarsi a richiamare le considerazioni sviluppate sugli stessi.
4.4 Con il quinto motivo la “A” SA insiste affinché si accolga la propria tesi difensiva, disattesa dalla sentenza di primo grado, in ordine all’esenzione (parziale) della plusvalenza de qua in applicazione del “regime PEX”, ex art. 87, TUIR. In particolare ribadisce che tale regime agevolativo risulta applicabile nonostante che la norma vigente ratione temporis prevedesse un presupposto “temporale” (possesso ininterrotto delle partecipazioni “B” per almeno 18 mesi) pacificamente non sussistente nel caso di specie. Ciò sulla base della considerazione della brevissima durata di vigenza della disposizione legislativa medesima (art. 5, D.L. 203/2005, modificato dall’ art. 1, comma 58, L. 244/2007, che ha riportato detto periodo a 12 mesi).
Sul punto non vi è che da richiamare le condivisibili considerazioni della sentenza della CTP, particolarmente sulla portata interpretativa dell’ art. 1, comma 61, L. 244/2007, in virtù della quale deve escludersi la retroattività del nuovo minor periodo di tempo previsto dal comma 58 della medesima disposizione.
4.5 In conclusione l’appello va respinto, trattandosi di un caso tutto sommato abbastanza chiaro di abuso del diritto di stabilimento all’esclusivo fine di utilizzare il più favorevole regime fiscale della sede legale della società appellante in Lussemburgo, ma, come detto, essendovi elementi precisi ed univoci per considerare effettivamente esistente in Italia ex art. 162, TUIR una “stabile organizzazione” riferibile alla “A” SA presso la società partecipata italiana “B” in Cividale del Friuli.
Da ciò la fondatezza delle pretese tributarie portate negli avvisi di accertamento impugnati, che pertanto risultano pienamente legittimi.
5. Spese, secondo principio di soccombenza, come da dispositivo.
Conferma l’impugnata decisione. Condanna l’appellante a rifondere all’appellata le spese del grado che liquida in complessivi euro 20.000.
Trieste 14 giugno 2016
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