COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per la Lombardia – Ordinanza n. 5092 depositata il 5 dicembre 2017
IVA – Buoni acquisto – Base imponibile
Fatto e diritto
In data 15.5.2009 A. stipulava un accordo-quadro con la società N. s.r.l. al fine di incentivare acquisiti di beni da parte del consumatore finale presso i propri punti vendita. Il programma di fidelizzazione, nell’ambito del quale N.I. s.r.l. aveva compiti di gestione (tenuta della contabilità, acquisto dei premi previsto dal Regolamento e consegna degli stessi ai clienti in fase di riscatto), prevedeva che i clienti, intestatari di una tessera magnetica, accumulassero punti-premio in proporzione all’ammontare della spesa effettuata; tali punti potevano, poi, essere convertiti in premi (acquistati da N.) oppure in buoni spesa, denominati “B.N.” (emessi da A. con un valore facciale di €. 10,00 e forniti alla società N. al costo del minor importo di €. 5,83), utilizzabili dal cliente finale quali mezzo di pagamento, per il loro intero valore nominale, per l’acquisto al prezzo ordinario di vendita di tutti i prodotti e i servizi commercializzati dagli stessi supermercati A.. In data 14.7.2014 A. s.p.a. presentava istanza di rimborso IVA ex art. 21 D.Lgs. 546/1992 relativamente all’anno 2010. La predetta società dava atto del fatto che, mentre la fase iniziale di cessione dei B. N. (da parte di A.) alla N. e la successiva fase di distribuzione dei B. N. (da parte della N.) ai clienti finali generavano pacificamente operazioni ”fuori campo IVA”, in quanto mere movimentazioni di carattere finanziario non integranti cessioni di beni o prestazioni di servizi (ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. a), DPR n. 633/1972), il vero e proprio momento impositivo si verificava quando il cliente finale, possessore del B. N. (acquisito per effetto dei punti accumulati con la spesa), utilizzava il buono stesso per l’acquisto di merce sfruttando l’intero controvalore nominale del titolo (€. 10,00).
Ciò posto, A. evidenziava di aver conteggiato quale base imponibile il valore nominale del singolo buono (€. 10,00), applicando l’aliquota IVA prevista per le diverse tipologie di beni acquistati dai consumatori finali, ma riteneva tale calcolo errato, in quanto, a suo parere, la corretta base imponibile IVA doveva considerarsi non già il valore nominale del buono ma solo l’effettivo costo del buono stesso, ovvero €. 5,83, tale essendo la minor somma effettivamente pagata da N. ad A. al momento della cessione dei buoni da distribuire ai clienti finali.
Considerato l’importo dello sconto applicato (pari a €. 4,17 su ciascun buono) e moltiplicato tale importo per i B.N. dell’ANNO 2010, A. indicava in €. 1.190.925,59 l’onere, IVA compresa, sostenuto nell’ANNO 2010; scorporata da tale somma l’aliquota media pari a 14,12% (desunta dal rapporto tra l’IVA a debito applicata alle operazioni imponibili complessivamente effettuate nei confronti dei consumatori finali nel corso dell’ANNO 2010 e il totale delle operazioni imponibili effettuate dalla società), si otteneva l’importo di €. 147.352,52 oggetto dell’istanza di rimborso, in quanto imposta ritenuta indebitamente versata.
Decorsi 90 giorni previsti dall’art. 21 D.Lgs. n. 546/1992, A. impugnava il silenzio rifiuto dell’Amministrazione Finanziaria dinanzi alla CTP di Milano.
Instaurato il contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate, la CTP di Milano con la sentenza n. 4162/44/16 accoglieva il ricorso richiamando integralmente e facendo propria una pronuncia della Corte di Giustizia Europea in materia di Buoni Acquisto (sent. nr. C-288/94 del 24.10.1996), sentenza nella quale è stato affermato il principio secondo cui “l’art. 11 , parte A, n. 1, lett. a), della Direttiva n. 77/388/CEE in materia di IVA va interpretato nel senso che, quando un fornitore [A.] abbia venduto ad un acquirente [N.], con uno sconto, un Buono con la promessa di accettarlo successivamente al suo valore nominale in pagamento, totale o parziale, del prezzo di un bene acquistato da un cliente [consumatore finale] che non è l’acquirente del Buono e che non conosce di regola il prezzo reale di vendita di quest’ultimo da parte del fornitore, il corrispettivo rappresentato dal Buono è la somma realmente percepita dal fornitore alla vendita del Buono”; ciò posto in diritto, la CTP di Milano disattendeva anche le ulteriori censure mosse dell’Ufficio relativamente alla prova del quantum di imposta indebitamente versata, ritenendo al riguardo legittimo il calcolo effettuato dalla società sulla base di un’aliquota media desunta dai vari prodotti commercializzati, come anche relativamente all’eventuale decadenza dall’istanza di rimborso, rilevando, in proposito, che nessun formale rilievo di tardività era mai stato avanzato. Avverso la predetta pronuncia ha proposto appello l’Agenzia delle Entrate sulla base dei seguenti motivi di doglianza:
a) carenza ed erroneità in diritto della decisione di primo grado: ritenuto insufficiente il mero richiamo alla giurisprudenza comunitaria, l’Ufficio, nel merito, ha sostenuto, invocando l’operatività di una propria Risoluzione interna (ris. n. 21/E/2011), che i Buoni (voucher) sono documenti che servono solo ad identificare l’avente diritto alla prestazione e svolgono la mera funzione di facilitare l’individuazione del soggetto a cui spetta il diritto all’acquisto contemplato nel medesimo documento; tale essendo la loro natura (cartolare), ne consegue che l’emissione degli stessi non costituisce pagamento anticipato del corrispettivo di una cessione di beni o prestazione di servizi, idoneo a concretizzare l’operazione di cui all’art. 6 DPR n. 633/1972 ma mera movimentazione di carattere finanziario fuori campo IVA così come è fuori campo IVA la successiva fase relativa alla distribuzione gratuita dei Buoni agli utilizzatori finali; la vera fase impositiva è solo quella che attiene al momento in cui il cliente finale possessore del Buono si rivolge all’esercizio commerciale convenzionato per l’acquisto di merce o di servizi: in tale contesto l’operatore economico deve emettere scontrino fiscale o fattura con IVA per l’intero prezzo del bene ceduto o del servizio prestato, a prescindere dalle modalità di pagamento degli stessi (cioè se integralmente con il voucher oppure in parte con il Buono e in parte in contanti o con altri mezzi di pagamento) e la base imponibile è costituita, appunto, dall’intero prezzo della merce o del servizio pagato dal consumatore.
b) erroneità della motivazione relativa alla regola della ripartizione dell’onere probatorio nella fattispecie in esame: sul punto l’Ufficio appellante evidenzia che l’istanza di rimborso di imposta dà origine ad un rapporto giuridico nel quale, con una inversione di ruoli rispetto allo schema ordinario del rapporto tributario, è il contribuente a rivestire il ruolo di attore in senso sostanziale, assumendo la posizione di creditore (potenziale) di una determinata somme di denaro; ciò comporta che grava sul contribuente stesso l’onere di dare prova non solo del quantum del credito vantato ma anche della sussistenza dei presupposti di validità ed efficacia della propria istanza, onere probatorio che, nel caso di specie, secondo l’appellante, A. non avrebbe assolto: relativamente alla quantificazione del rimborso preteso, essa è stata determinata invia solo presuntiva, sulla base di una documentazione incompleta e mere valutazioni a campione sugli incassi e sulle vendite; quanto alla tempestività della richiesta di rimborso, soggetta al termine decadenziale di 2 anni di cui all’art. 21 D.Lgs. n. 546/1992, nulla è stato provato da A., che non ha nemmeno accennato al momento in cui sarebbero avvenuti i pagamenti dell’IVA chiesta a rimborso, incorrendo, pertanto, in una decadenza rilevabile anche d’ufficio e in ogni stato e grado. Si è costituita in fase di gravarne A. per resistere, ritenendo non solo ampiamente motivata ma anche corretta nel merito la decisione dei primi giudici alla luce della giurisprudenza europea, rimarcando, quanto specificamente alla questione del quantum del rimborso richiesto e della tempestività dell’istanza, la valenza generale del principio di cui all’art. 115 c.p.c. di non contestazione dei fatti dedotti in giudizio, oltre ad evidenziare di aver legittimamente inteso, con la propria istanza di rimborso, correggere l’originaria dichiarazione IVA entro il termine previsto per i controlli fiscali, in conformità ai principi espressi dalle Sezioni Unite con la nota sentenza n. 13378/2016. All’udienza del 16 novembre 2017 le parti hanno precisato le conclusioni riportandosi alle istanze e deduzioni già svolte in atti; il Collegio, terminata la camera di consiglio, ha deciso la vertenza come in dispositivo, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 35 D.Lgs. n. 546/1992.
L’appello è infondato e va disatteso.
Preliminarmente va ricordato che le sentenze interpretative della Corte di Giustizia dell’Unione europea, competente ex art. 267 TFUE a pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione dei trattati e sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, originano da una controversia determinata ma hanno carattere astratto, essendo volte a chiarire l’interpretazione e la portata delle disposizioni UE in questione. Le pronunce interpretative della Corte, che hanno la finalità di garantire l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione Europea, dispiegano effetti al di là dell’ambito del litigio principale: le sentenze in questione, infatti, producono effetti erga omnes, in ragione della portata vincolante delle stesse disposizioni interpretate. Ciò posto, il richiamo operato dai giudici di prime cure alla sentenza n. C-288/94 del 24.10.1996 della Corte di Giustizia Europea interpretativa dell’art. 11, parte A, n. l, lett. a), della Direttiva n. 77/388/CEE in materia di IVA costituisce un precedente giurisprudenziale vincolante per i giudici nazionali, dal quale non è possibile discostarsi se non investendo nuovamente la Corte di Giustizia con la prospettazione di nuovi elementi di valutazione in grado di indurre la Corte stessa a risolvere diversamente una questione già sollevata. Nel caso di specie, la Corte di Giustizia Europea, interpretando l’art. 11, parte A, n. 1, lett. a), della Direttiva n. 77/388/CEE in materia di IVA, oggi riprodotta in modo identico nell’art. 73 della Direttiva n. 2006/112/CE, ha chiarito, in modo del tutto condivisibile, che la base imponibile per la cessione di un bene o ·la prestazione di un servizio è costituita dal corrispettivo realmente ricevuto a tal fine: in caso di utilizzo di Buoni in pagamento del prezzo d’acquisto, il reale controvalore in denaro rappresentato dal Buono va desunto dall’operazione iniziale di vendita del Buono stesso ed è pari al valore nominale del Buono diminuito dello sconto eventualmente praticato in quella fase. La sentenza qui oggetto di impugnazione fa buon governo del principio enunciato dalla Corte di Giustizia, riconoscendo fondato il diritto di A. di ottenere dall’Amministrazione Finanziaria il rimborso IVA correlato al pagamento dell’imposta conteggiata su una base imponibile superiore al dovuto, ovvero, nel caso di specie, conteggiata con riferimento al valore nominale del Buono (€. 10,00) e non al suo minor valore (€. 5,83) corrispondente al costo effettivo del Buono al momento della fase iniziale di vendita dello stesso da parte di A. alla N.. La diversa tesi prospettata dall’appellante, fondata su argomenti desunti da un atto interno dell’Amministrazione Finanziaria, quale è la Risoluzione n. 21/E/2011 cit., non può che essere recessiva a fronte di un principio affermato da una pronuncia della Corte di Giustizia Europea che, nell’interpretazione di norme di rango superiore, quali sono quelle comunitarie di diretta applicazione negli Stati membri, ha una efficacia vincolante nell’ordinamento interno, principio che – come detto – è stato fatto proprio dai giudici di prime cure con una statuizione che va, pertanto, confermata in questa sede di gravame. Anche la doglianza relativa ad una asserita erronea applicazione da parte della CTP di Milano dei principi regolatori della ripartizione dell’onere probatorio è infondata e va disattesa. È ben vero, infatti, che l’istanza di rimborso di imposta configura un rapporto giuridico nel quale è il contribuente, che assume di essere creditore nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria, a rivestire, in giudizio, il ruolo di attore in senso sostanziale, con i conseguenti oneri probatori che a tale parte processuale competono in base all’art. 2697 c.c.. È anche vero, però, che nel contesto processuale l’onere della prova si delinea in concreto anche in base a quello che è l’ambito effettivo della materia controversa, potendosi e dovendosi ritenere provati, in base al disposto di cui all’art. 115 c.p.c., direttamente applicabile anche al contenzioso tributario per il richiamo di cui all’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita. Nel caso in esame, è pacifico ed incontroverso che A. ha determinato l’importo richiesto a rimborso sulla base di un calcolo non già analitico ma presuntivo, ottenuto scomputando dagli incassi, IVA compresa, riferibili allo sconto praticato sui Buoni (ovvero sull’importo di €. 4,17, costituente la differenza tra il valore nominale del Buono e il corrispettivo effettivamente incassato per l’emissione dello stesso, pari a €. 5,83), un’aliquota media di IVA, desunta dal complesso delle aliquote praticate su tutti i vari beni commercializzati. Ebbene, l’Agenzia delle Entrate con la costituzione in giudizio in primo grado, pur prendendo atto delle modalità di calcolo (non già analitiche ma presuntive) della somma richiesta a rimborso da controparte, non ha sollevato alcuna specifica contestazione al riguardo, né ha mai sostenuto, in particolare, che le modalità presuntive di calcolo utilizzate dalla contribuente per quantificare la somma richiesta a rimborso conducessero ad un risultato superiore (e più favorevole al contribuente) rispetto a quanto ottenibile sulla base di un conteggio analitico: la congruità del calcolo presuntivo che ha condotto alla determinazione del quantum della richiesta di rimborso di cui qui si discute non è stata, in sostanza, mai messa in discussione. Proprio la mancanza di una specifica contestazione in questi termini dell’importo richiesto a rimborso dalla contribuente induce a ritenere assolto l’onere probatorio gravante sulla parte che, in sede contenziosa, è attrice in senso sostanziale, e, conseguentemente, dovuto l’importo di €. 147.352,52 oggetto di causa. In merito, poi, alla diversa questione relativa alla tempestività della istanza di rimborso, si osserva quanto segue. È pacifico ed incontroverso che l’istanza di rimborso IVA di cui si discute è stata presentata da A. ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 21 D.Lgs. n. 546/1992: non si tratta, dunque, di una istanza volta a correggere un errore contenuto in una propria precedente dichiarazione, né di una dichiarazione integrativa, ma di una istanza di rimborso basata sul presupposto (fondato) di un versamento eccedente ed indebito di imposta. L’art. 21 cit., al comma 2, stabilisce che le istanze di rimborso, quale quella in esame, in mancanza di disposizioni specifiche, sono soggette ad un termine decadenziale biennale dal pagamento dell’imposta. È noto che in sede di legittimità costituisce principio ormai consolidato quello secondo cui “in materia tributaria, la decadenza dell’Amministrazione finanziaria dall’esercizio di un potere nei confronti del contribuente, in quanto stabilita in favore e nell’interesse esclusivo del contribuente, in materia di diritti da questo disponibili, non può essere rilevata d’ufficio dal giudice, ma deve essere dedotta dal contribuente in sede giudiziale, mentre la decadenza del contribuente dall’esercizio di un potere nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, in quanto stabilita in favore di quest’ultima ed attinente a situazioni da questa non disponibili -perché disciplinata da un regime legale non derogabile, rinunciabile o modificabile dalle parti – , è rilevabile anche d’ufficio, salvo il limite del giudicato interno formatosi in conseguenza di una pronuncia esplicita o implicita assunta nel precedente grado di giudizio” (cfr. Cass. n. n. 25500/2011; Cass. n. 14378/2009, Cass. n. 12386/2009, Cass. n.1605/2008). Nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate in primo grado, pur ponendo la questione della tempestività dell’istanza di rimborso di controparte, non ha espressamente sollevato alcuna formale eccezione di decadenza della contribuente ex art. 21 D.Lgs. n. 546/1992 in ragione del fatto, di cui ha dichiaratamente dato atto nella propria comparsa di costituzione (cfr. pag. 7), che la contribuente “non ha fornito alcun riferimento circa il momento in cui sarebbero stati effettuati i versamenti dell’imposta richiesta a rimborso”. In questa sede l’Agenzia delle Entrate ripropone la questione della tempestività dell’istanza di rimborso di controparte, lamentando che i giudici di prime cure non abbiano rilevato d’ufficio la decadenza ex art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992 e sollecitando a tal fine questa CTR. Invero, proprio il fatto (incontroverso) che manchi agli atti qualsivoglia riferimento concreto circa il dies a quo da cui computare il termine biennale di decadenza di cui all’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, induce a ritenere insussistenti i presupposti oggettivi per procedere ad un rilievo officioso della decadenza stessa. In sostanza, è ben vero che la valutazione del rispetto del termine biennale previsto dalla legge per presentare da parte del contribuente istanza di rimborso di IVA versata in eccedenza è una valutazione che può essere compiuta dal giudice anche d’ufficio in ogni stato e grado (salvo – come detto – i limiti di giudicato); ma è anche vero che gli elementi oggettivi necessari alla predetta valutazione officiosa devono preesistere agli atti del giudizio. Nel caso in esame, l’Amministrazione Finanziaria, avendo assoggettato a verifica fiscale nel 2015 la società A. per gli anni di imposta 2010, 2011 e 2012 (cfr. processo verbale di constatazione di cui al doc. n. 2 fase. appellata), ben avrebbe potuto indicare quando sono stati effettuati da parte della società i pagamenti IVA nell’ anno 2010 qui di interesse: tale riferimento temporale avrebbe certamente consentito il rilievo officioso dell’eventuale decadenza dall’istanza di rimborso ex art. 21 D.Lgs. n. 546/1992, anche in assenza di una eccezione di parte. Mancando in atti l’indicazione del dies a quo necessario al computo del termine biennale in questione, invece, nessuna decadenza può essere rilevata d’ufficio. L’appello in esame va, dunque, respinto in quanto infondato. Considerata la particolarità della fattispecie e la complessità delle questioni esaminate, possono ritenersi sussistenti i presupposti per una integrale compensazione delle spese di lite.
P.Q.M.
– rigetta l’appello;
– compensa le spese di lite tra le parti.
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