COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per la Lombardia sez. 19 sentenza n. 1845 depositata il 28 aprile 2017
SANZIONI – Iva – Cessione ad esportatore abituale – Dichiarazione d’intento – Obbligo di comunicazione – Omessa comunicazione – Sanzione – Sussiste.
Massima:
In materia di sanzioni per omessa comunicazione all’Amministrazione finanziaria delle dichiarazioni d’intento relative alle operazioni effettuate in regime di sospensione IVA, la nuova formulazione dell’art. 7 comma 4-bis d.lgs. 471/1997, introdotta dall’art. 15 d.lgs. 158/2015, prevede una ridefinizione della portata oggettiva e soggettiva dell’obbligo di comunicazione e non la soppressione dell’obbligo stesso. La nuova disciplina, da un lato, modifica il quantum della sanzione, dall’altro, trasferisce l’obbligo della comunicazione dal fornitore all’esportatore abituale che si avvale dell’agevolazione d’imposta. Pertanto, le violazioni dell’obbligo di omessa comunicazione delle dichiarazioni di intento verificatesi prima della revisione normativa restano sanzionabili nella modalità e nella misura prevista dalla disciplina previgente.
Testo:
La vertenza ha ad oggetto un provvedimento di irrogazione di sanzioni (n. T95COB500878/201 3) relativo all’anno di imposta 2008 con il quale l’ufficio pretendeva dalla H. s.r.l. la sanzione di € 62.690 per la violazione dell’art. 7 comma 4bis D. Lgs. 471I1997, nella formulazione all’epoca vigente. La vicenda fattuale è la seguente. La società H. s.r.l. era stata sottoposta ad un controllo a seguito di segnalazione dall’ufficio Territoriale di Monza che , in sede di esame di una istanza di rimborso IVA, aveva verificato che la società, pur avendo effettuato cessioni di beni non imponibili a fini IVA (perché a favore di soggetti dichiaratisi esportatori abituali e quindi legittimati ad acquistare in regime di sospensione di imposta) e pur avendo ricevuto lettere di intenti dai suoi clienti che avevano portato alla emissione di fatture esenti IVA per un imponibile di € 313.447,50, non aveva tuttavia provveduto, in qualità di fornitore, a comunicare telematicamente i dati contenuti nelle lettere di intento ricevute dai suoi clienti, entro il 16 del mese successivo a quello in cui le dichiarazioni erano state ricevute. L’art. 7 comma 4 bis D. Lgs. 471/1997 stabilisce, a dire dell’ufficio, che in caso di omesso invio delle comunicazioni, o in caso di invio di comunicazioni con dati incompleti o inesatti, si deve irrogare una sanzione compresa fra il 100% e il 200% dell’imposta dovuta sull’imponibile così fatturato. La sanzione è stata quindi determinata considerando l’IVA dovuta nella misura del 20% dell’imponibile e al minimo previsto dal quadro edittale di riferimento, ossia quantificata nel 100% di quel valore. Il provvedimento è stato impugnato dalla società contribuente che sottolineava come, nel caso in esame, non fosse in discussione la legittimità sostanziale delle operazioni, nel senso che i soggetti che avevano acquistato in regime di sospensione di imposta perché qualificatisi come esportatori abituali avevano pacificamente diritto a farlo. Né questo aspetto è stato mai contestato dall’ufficio. Si deve da ciò concludere che non si è verificata nessuna evasione di imposta né ostacolo al controllo, motivo per il quale non è applicabile l’art. 7 comma 4bis. Si sarebbe piuttosto in presenza di un errore meramente formale, e quindi sarebbe applicabile al più la sanzione di cui all’art. 11. Si era costituito l’ufficio ribadendo la correttezza del proprio operato, precisando che l’intenzione del legislatore nel prevede un quadro sanzionatorio così severo era legata alla volontà di prevenire frodi IVA, che è prevista una responsabilità solidale fra emittente la fattura e acquirente (destinatario della fattura) solo nei casi in cui la dichiarazione di intenti sia infedele, invece laddove, come nel caso di specie, si sia in presenza di un omesso invio, risponde solo il cedente. Il richiamo all’art. 11 è, a parere dell’ufficio, inconferente perché quella norma riguarda solo casi in cui non sono effettuati acquisti in regime di sospensione IVA. La Commissione Tributaria Provinciale, in primo grado, ha parzialmente accolto le ragioni del contribuente, ispirandosi alla ratio che ha guidato la riforma del sistema sanzionatorio del 1997 incentrata sulla evasione di imposta e, preso atto che pacificamente nel caso in esame non vi è stata alcuna evasione, ha ritenuto non applicabile l’art. 7 comma 4bis, interpretando il richiamo al precedente comma 3 dello stesso art. 7come esteso al presupposto che vi sia stata una evasione di imposta. Dal momento che è però altrettanto pacifico che la contribuente è venuta meno ad uno specifico obbligo di legge (le comunicazioni omesse) la norma applicabile è, a parere dei giudici di prime cure, quella dell’art. 11 comma I lett. a del D. Lgs. 471/97, che prevede una sanzione compresa fra un minimo di € 258,23 e un massimo di € 2.065,83. La Commissione in primo grado ha anche rideterminato la sanzione ritenuta equa in € 1.000 per ciascuna comunicazione omessa; la CTP ha poi compensato interamente le spese di lite. Impugna la sentenza di primo grado l’ufficio lamentando l’erronea applicazione della normativa vigente in ambito di sanzioni per omessa trasmissione delle dichiarazioni di intento. L’ufficio ribadisce gli argomenti già spesi in primo grado, precisa che vi è stato ostacolo alla attività di controllo e chiarisce che non è applicabile la nuova formulazione dell’art. 7 comma 4bis D. lgs. 471/97, per come introdotta dall’art. 15 D. Lgs. 158/2015, sia perché in vigore dal 01.01.2016 sia perché non esiste continuità normativa con il sistema previgente di distribuzione degli obblighi comunicativi in caso di acquisti in regime di sospensione IVA. Si è costituita la società contribuente proponendo altresì appello incidentale (pur dichiarando che in assenza dell’appello dell’Ufficio avrebbe accettato la pronuncia di primo grado). L’appellata richiama i principi di cui all’art. 7 del citato decreto, che prevede anche che, qualora la sanzione appaia sproporzionata all’entità del tributo, può essere ridotta fino alla metà del minimo. Aggiunge che i criteri per una corretta determinazione della sanzione sono anche riferibili alla gravità della stessa rispetto alla condotta dell’agente, alla sua personalità e ai suoi precedenti fiscali. E in questo caso è sproporzionata anche la sanzione di € 1.000 per ogni dichiarazione omessa (sono in tutto 2). E’ poi legittimo chiedere l’esclusione di qualsiasi sanzione perché l’art. 6 comma 5bis prevede la non punibilità delle violazioni che non arrecano pregiudizio all’esercizio delle funzioni di controllo e che non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo. Visto che qui non esiste base imponibile perché non c’è evasione di imposta; e non c’è ostacolo alle funzioni di controllo perché tutte le fatture in esame erano regolarmente registrate in contabilità, sebbene ne sia stato omesso l’invio telematico. Ancora. La parte privata rileva come la fattispecie in esame non sia più sanzionata in base alla normativa oggi vigente, modificata medio tempore, e quindi la fattispecie si deve intendere abolita essendo del tutto cambiati gli adempimenti posti a carico dei contribuenti in materia di esportatori abituali. Ne consegue che o si deve intendere abolita la fattispecie o, al massimo, applicare la sanzione più favorevole al reo oggi in vigore (compresa fra € 250 e € 2.000). In tale senso risulta, a parere della parte, anche la circolare del Ministero delle Finanze n. 180 del 10.07.1998; la giurisprudenza unanime; la circolare n. 4/E del 4 marzo 2016 sulla validità e necessità di applicazione del principio del favor rei. L’appello dell’Ufficio è fondato e, pertanto, merita accoglimento. Alcune circostanze in fatto sono pacifiche perché riferite in termini sostanzialmente coerenti da entrambe le parti e documentate: la vicenda in esame riguarda l’anno di imposta 2008; non è mai stato in discussione il fatto che nel caso in esame non si sia verificata una evasione di imposta (nel senso che pacificamente le operazioni sostanziali di cessione sono state effettuate nei confronti di soggetti che realmente potevano comprare in regime di sospensione di imposta); la H. s.r.l., pur avendo ricevuto dai suoi clienti le lettere di intento e pur avendo emesso fatture senza applicazione dell’IVA per un valore imponibile complessivo di € 313.447,50, non ha comunicato telematicamente i dati entro il termine previsto, violando così un preciso obbligo di legge (l’art. 1, D.L. n. 746/1983, come modificato dalla legge n. 311/2004, stabilisce che il soggetto passivo che abbia ricevuto la dichiarazione con la quale il cliente esportatore abituale chiede la non applicazione dell’IVA, ha l’obbligo di comunicare all’Agenzia delle Entrate, per via telematica, i dati contenuti nella dichiarazione, conosciuta come lettera d’intento. Questa comunicazione – da compilare sul modello approvato con provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 14 marzo 2005 – deve – rectius doveva – essere trasmessa entro il termine del 16 del mese successivo a quello di ricevimento della dichiarazione – termine poi modificato in quello previsto per l’effettuazione della prima liquidazione periodica IVA, mensile o trimestrale, nella quale confluiscono le operazioni realizzate senza applicazione dell’imposta in dipendenza della dichiarazione, così come stabilito dal D.L. n. 16/2012). La disciplina di riferimento è quella di cui all’art. 7 del D. Lgs. 47111997. Ai sensi dell’art. 7, comma 4-bis, D.Lgs. n. 471/1997, secondo la formulazione vigente al momento dei fatti, il fornitore che omette di inviare la comunicazione nel termine previsto, oppure la invia con dati incompleti o inesatti, è punito con la sanzione amministrativa dal 100% al 200% dell’imposta non applicata, e questo a prescindere dalla circostanza che il destinatario della fornitura abbia esercitato correttamente la facoltà di acquistare senza il pagamento dell’IVA, e dunque anche in assenza di evasione di imposta. Tale interpretazione della norma è l’unica possibile stando alla dizione letterale della stessa e al collegamento sistematico dei diversi comma dell’articolo, apparendo evidente che il richiamo al comma 3, effettuato dal successivo comma 4bis, sia esclusivamente riferibile al quantum della sanzione irrogabile e non al presupposto sostanziale della sua applicazione; presupposto che, nel caso di cui al comma 3, è l’evasione dell’imposta, nel caso di cui al comma 4bis è la mera violazione dell’obbligo di comunicazione. Per quanto il regime sanzionatorio cosi costruito dal legislatore dell’epoca possa effettivamente risultare eccessivamente severo in presenza della violazione di un obbligo, in definitiva, solo formale, la determinazione della cornice edittale di riferimento rientra certamente nella discrezionalità propria del legislatore che, verosimilmente, si era cosi determinato nell’ottica, da un Iato, di predisporre un presidio che esplicasse una reale e forte efficacia deterrente in un settore agevolmente utilizzabile per la commissione di frodi IVA; dall’altro, garantire adeguati ed efficaci strumenti di controllo da parte degli uffici competenti destinatari delle informazioni che il fornitore era obbligato a comunicare telematicamente. Peraltro, il sistema appare coerente, laddove, nell’ipotesi in cui la violazione dell’obbligo formale di comunicazione da parte del fornitore si fosse accompagnata ad una effettiva evasione di imposta, oltre a vedersi irrogata la predetta sanzione, il fornitore avrebbe risposto in solido con l’acquirente per l’intero ammontare dell’imposta evasa. Quanto appena detto dimostra altresì come sia inconferente il richiamo della parte privata all’art. 6 comma 5bis del D. Lgs. 472/1997, dal momento che la violazione dell’obbligo di comunicazione in discussione ha una rilevanza causale diretta sulla efficacia della azione di controllo dell’Ufficio, in funzione del corretto espletamento della quale è evidentemente previsto l’obbligo di comunicazione in esame. Peraltro, l’art. 6 è rubricato ‘violazione degli obblighi relativi alla documentazione, registrazione ed individuazione delle operazioni soggette a/l’imposta sul valore aggiunto ‘ laddove la materia in discussione è tutt’altra, trattandosi di violazione di obblighi di comunicazione in relazione ad operazioni perfezionate in regime di sospensione di imposta e, quindi, non soggette nei rapporti fra operatori nazionali, all’applicazione dell’IVA. Analogamente inconferente è il richiamo all’art. 7 comma 4 del D. Lgs. 472/1997 nella misura in cui la possibilità di ridurre la sanzione è prevista per i casi in cui la sproporzione fra la sanzione e l’entità del tributo cui la violazione si riferisce sia da correlare alla concorrenza di eccezionali circostanze che, nel caso in esame, non sono state neppure allegate. Nel caso in questione si prospetta non la sproporzione della sanzione nel caso concreto, perché ricorrono circostanze o situazioni di fatto particolari ed eccezionali, ma la sproporzione della sanzione prevista in astratto dal legislatore per la violazione dell’obbligo formale, che è questione del tutto diversa. In altri termini, a seguire la tesi difensiva della parte privata, si dovrebbe sempre e in ogni caso ridurre quella sanzione fino alla metà del minimo, perché già astrattamente sproporzionata; ma ciò vorrebbe dire di fatto disapplicare la norma di legge. Ugualmente non appare pertinente il richiamo all’art. 11 del D. Lgs. 472/1997, dal momento che la stessa è, per stessa dizione letterale, una norma residuale che riguarda testualmente ‘altre violazioni in materia di imposte dirette e imposta sul valore aggiunto ‘; ciò vuol dire che è la disposizione applicabile per le violazioni diverse da quelle espressamente disciplinate. Neppure rileva il richiamo fatto dalla difesa della parte privata all’art. 7 D. Lgs. 472/1997 sui principi che devono guidare la corretta determinazione della sanzione (valutazione della gravità della sanzione rispetto alla condotta dell’agente, personalità e precedenti fiscali dell’agente). E’ evidente come tali criteri siano quelli di riferimento per la determinazione del quantum della sanzione all’interno della cornice edittale di riferimento, e non legittimino invece l’aggiramento di quella cornice edittale né, tantomeno, l’applicazione di una norma diversa da quella di riferimento, solo perché prevede una sanzione più contenuta. Nel caso in esame non sembra possibile imputare all’Ufficio alcuna scorretta applicazione di quei criteri, dal momento che è stata applicata la sanzione minima prevista (ossia il 100% del valore dell’imposta calcolata sull’importo imponibile fatturato). Quanto alle modifiche normative intervenute per effetto dell’art. 15 comma 1 lett. g) del D. Lgs. attuativo della delega fiscale (legge 23/2014) e in vigore dal 01.01.2016, si impongono alcune considerazioni. L’art. 20 del suddetto decreto ha modificato sensibilmente il quadro di riferimento e la distribuzione degli obblighi di comunicazione che gravano sulle parti coinvolte nella operazione (fornitore e cliente esportatore abituale). Intervenendo sull’art. 1, comma 1, lettera c), D.L. n. 746/1983, stabilisce in primo luogo che è l’esportatore abituale a dovere trasmettere telematicamente la lettera d’intento all’Agenzia delle Entrate, la quale rilascia apposita ricevuta telematica. Dopo avere adempiuto questo obbligo, l’esportatore dovrà consegnare al suo fornitore, oppure presentare in dogana (nel caso di importazioni), la lettera d’intento e la ricevuta di presentazione rilasciata dall’Agenzia. Correlativamente, l’art. 20 sostituisce anche l’ultimo periodo della disposizione della predetta lettera c), che faceva obbligo al fornitore di trasmettere all’Agenzia delle Entrate i dati delle lettere d’intento ricevute, prevedendo invece che egli dovrà semplicemente riepilogare nella dichiarazione annuale i dati contenuti nelle dichiarazioni d’intento ricevute. Il quadro delle modifiche è completato dalla riformulazione proprio del suddetto comma 4-bis dell’art. 7, D.Lgs. n. 471/1997, che prevede le sanzioni per l’inadempimento degli obblighi di legge: nel nuovo testo, la norma prevede la sanzione dal 100% al 200% dell’imposta a carico del cedente o prestatore che effettua cessioni o prestazioni senza l’addebito dell’imposta “… prima di aver ricevuto da parte del cessionario o committente la dichiarazione di intento e riscontrato telematicamente l’avvenuta presentazione all’Agenzia delle Entrate…”. Nella nuova disciplina della procedura, quindi, l’obbligo di informare preventivamente l’amministrazione finanziaria dell’intenzione di effettuare acquisti in sospensione d’imposta è stato trasferito sul soggetto che si avvale dell’agevolazione. Il fornitore, invece, avrà semplicemente l’onere, desumibile dalla norma sanzionatoria, di verificare telematicamente, prima di dare corso alle operazioni in sospensione d’imposta, che la dichiarazione d’intento inviatagli dal cliente sia stata presentata all’Agenzia delle Entrate. La revisione della disciplina porta all’inevitabile interrogativo in ordine alle pregresse violazioni di omessa comunicazione delle lettere d’intento da parte dei fornitori, come quella oggi in discussione. Si tratta cioè di verificare se quelle violazioni restano punibili, con le sanzioni previste dalla vecchia formulazione dell’art. 7 comma 4bis, anche dopo le modifiche sopra descritte, oppure si potranno avvalere del principio del favor, nella specie della abolitio criminis, sancito dall’art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 472/1997, secondo cui “salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile. Se la sanzione è già stata irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si estingue, ma non è ammessa ripetizione di quanto pagato”. A parere di questa Commissione non si verte in una ipotesi di soppressione dell’obbligo, bensì in una ipotesi di ridefinizione della portata oggettiva e soggettiva dello stesso. Tale conclusione è altresì avvalorata dalla relazione al decreto semplificazioni che qualifica la modifica in esame come una ‘diversa modalità dell’adempimento’. Nello stesso tempo, non appare applicabile al caso in esame la nuova sanzione di cui all’art. 7 comma 4bis perché il comportamento di riferimento di cui alla nuova sanzione è completamente diverso da quello previsto dalla formulazione previgente. La novità del quadro normativo di riferimento e l’incertezza interpretativa con riferimento alle violazioni pregresse giustificano l’integrale compensazione fra le parti delle spese del presente grado di giudizio. La Commissione Tributaria Regionale
P.Q.M.
ACCOGLIE
L’appello dell’Ufficio e, in riforma della sentenza della della Commissione Provinciale di Milano n. 6595/01115 del 13.01.2015 (depositata il 21.07.2015), conferma la legittimità del provvedimento di irrogazione di sanzioni n. T95COB500878/2013 a carico di H. s.r.l.
COMPENSA
Interamente fra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Milano, 6 marzo 2017
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