COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per la Toscana sentenza n. 1259 sez. 13 depositata il 9 luglio 2015
Massima
Secondo i giudici toscani, nel rispetto delle procedure di cooperazione internazionale predisposte in applicazione della Direttiva europea 77/799 CEE del 19.12.1977 e della Convenzione contro le doppie imposizioni ratificata con legge 07.01.1992 n. 20, è legittima l’attività accertativa dell’Amministrazione fiscale fondata su documenti pervenuti da una Autorità straniera. E’ possibile, pertanto, affermare il principio secondo cui l’eventuale irrituale acquisizione all’estero di documenti (nella specie “lista Falciani”) non riverbera i suoi effetti sulla utilizzabilità degli stessi, non rinvenendosi nel processo tributario una norma di carattere generale che sancisca l’inutilizzabilità delle prove acquisite. A supporto della tesi su esposta i giudici citano le ordinanze nn. 8605 e 8606 del 28.04.2015 nelle quali la Sezione VI civ. della Cassazione ha, tra l’altro, rilevato che la Corte di Giustizia (dec. del 22.10.2013 causa C-276/12) ha riconosciuto che la Direttiva succitata non si occupa del diritto del contribuente di contestare l’esattezza dell’informazione trasmessa. Non sussiste, infatti, l’obbligo delle autorità fiscali italiane di verificare la provenienza e l’autenticità dei dati trasmessi da uno stato estero; spetta al giudice nazionale la valutazione del valore delle prove acquisite sulla base delle disposizioni nazionali interne senza attribuire alcun effetto emendativo agli eventuali vizi di legittimità contenuti negli elementi acquisiti.
FATTO
Con atti ritualmente notificati e depositati, il nominato contribuente ha impugnato le sentenze n. 57/03/2014 e 58/03/2014 depositate il 14.3.2014 con le quali la CTP di Prato, con la prima, riunendo i ricorsi, ha accolto il ricorso proposto avverso il provvedimento irrogativo delle sanzioni disponendone il ricalcolo in base al principio della continuazione e respinto i ricorsi proposti avverso gli avvisi di accertamento notificati per gli anni dal 2003 al 2008 per IRPEF, Add. Reg.le e Com.le; con la seconda, ha accolto il ricorso proposto avverso l’avviso di accertamento notificato per l’anno 2009 per IRPEF, Add Reg.le e Com. le quanto alle sanzioni, respingendolo per il resto. Gli originari ricorsi afferivano a un’unica vicenda contenziosa originata da una verifica fiscale eseguita dalla Guardia di Finanza, NPT di Prato, ai sensi e per gli effetti degli artt. 32 e 33 del D.P.R. n. 600 del 1973, con riferimento alle informazioni riguardanti il contribuente e acquisite presso l’Amministrazione fiscale francese attraverso i canali della collaborazione informativa internazionale previsti dalla Direttiva n. 77/799/CEE e della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Francia ratificata dall’Italia con legge n. 20 del 1992. Tale verifica si concludeva con un p.v.c. notificato il 25.11.2010 con il quale si contestava al contribuente la disponibilità di un conto corrente presso la filiale di Ginevra della banca svizzera ………. e quindi l’omessa dichiarazione dei redditi di capitale prodotti per gli anni dal 2003 al 2009. A tale accertamento i verificatori erano giunti, come si è detto, a seguito di documentazione acquisita attraverso canali di cooperazione internazionale. Il contribuente contestava formalmente i presupposti di fatto e di diritto dei rilievi mossi, ma l’Ufficio fiscale notificava ugualmente gli avvisi di accertamento per ciascuno degli anni di imposta ricompresi nel periodo di accertamento con i provvedimenti applicativi delle relative sanzioni. Nei ricorsi il contribuente eccepiva innanzi tutto l’illegittimità dell’atto irrogativo delle sanzioni ritenendo che l’Ufficio fosse ormai decaduto dall’applicarle per prescrizione del termine di legge, non potendole irrogarle in via retroattiva sulla base di norme sopravvenute. Deduceva, poi, il difetto di motivazione riguardo ai documenti che fonderebbero la pretesa fiscale, acquisiti attraverso modalità anonime e non fornite da ufficialità, e la mancanza di conferme formali da parte della banca che li avrebbe emessi sulla veridicità dei dati riportati nei documenti stessi posti alla base dell’erogazione delle sanzioni e quindi la non utilizzabilità dei documenti stessi; l’appartenenza al ………..dei capitali oggetto di contestazione; la validità ed efficacia dello scudo fiscale di cui; si era avvalso il predetto soggetto e comunque la regolarizzazione degli importi prodotti a titolo di interessi dai capitali detenuti all’estero, non ostando a ciò la notifica di un invito a comparire emesso ai sensi dell’art. 73 bis, comma 4, del D.P.R. n. 600 del 1973 in relazione a operazioni di natura elusiva né alcuna causa ostativa allo scudo fiscale al quale aveva fatto ricorso il ………….. Avverso, poi, più propriamente gli avvisi di accertamento, il contribuente, oltre ai motivi sopra esposti, formulava ulteriori motivi quali la loro illegittimità perché relativi a un periodo di imposta per il quale l’Ufficio fiscale era decaduto alla data di notifica degli avvisi stessi per l’anno 2003 e per il periodo 2004 – 2006 non potendosi applicare retroattivamente il raddoppio dei termini introdotto dal comma 2bis dell’art. 12 del d.l. n. 78 del 2009 a situazioni ormai pregresse, per essere decorso il termine di decadenza ordinario, essendosi tra l’altro il contribuente avvalso della procedura sullo scudo fiscale;
la non utilizzabilità dei dati oggetto di contestazione contenuti in documenti privi di ufficialità illecitamente acquisiti e di cui i giudici penali avevano disposto la distruzione, l’illegittimità degli avvisi di accertamento relativi agli anni 2003 e 2004 perché privi di elementi essenziali per essere il maggior reddito imponibile accertato non assoggettabile ad alcuna imposta da recuperare sulla base dello scudo fiscale. Si costituiva l’Agenzia delle Entrate che controdeduceva a tutti i motivi dei ricorsi sostenendo la legittimità degli avvisi di accertamento e delle sanzioni applicate. Con le sentenza appellate, la CTP di Prato accoglieva i ricorsi limitatamente all’applicazione delle sanzioni, ritenendo il primo giudice che l’Amministrazione avrebbe dovuto fare applicazione dell’istituto della continuazione ex art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 472 del 1997 trattandosi di violazione della stessa indole riconducibile a unità ancorché riferibili a diversi periodi di imposta, respingendoli per il resto ritenendo – contrariamente alle tesi del ricorrente – i documenti sui quali si fondavano i provvedimenti impugnati utilizzabili; applicabile la norma sul raddoppio dei termini nonché la fondatezza delle contestazioni dell’Ufficio fiscale sulla titolarità delle somme accertate. Con l’atto di appello avverso la sentenza n. 57/03/2014 il contribuente, premessa una doglianza generale all’apparenza della sua motivazione, lamenta sia che il giudice di primo grado abbia omesso del tutto di pronunciare in merito alle specifiche contestazioni mosse avverso l’atto di irrogazione delle sanzioni relative al periodo 2002 – 2009, sia l’assoluto silenzio serbato sulle stesse contestazioni dall’Amministrazione finanziaria nel corso del giudizio di primo grado che avrebbe dovuto essere valutato ai sensi dell’art. 115 c.p.c. e conseguentemente portare all’annullamento dell’atto impositivo. Ripropone, poi, i motivi attinenti all’illegittimità dell’atto irrogativo delle sanzioni siccome riferito a periodi di imposta per il quali l’Ufficio era decaduto dal potere sanziona torio e fondato sull’applicazione retroattiva di norme sopravvenute; l’esorbitanza degli importi assunti a base della determinazione della sanzione irrogabile; il mancato annullamento in autotutela dell’atto irrogativo medesimo in applicazione del principio del favor rei a seguito delle novità normative medio tempore intervenute; l’erronea qualificazione dei capitali detenuti all’estero. Quanto agli avvisi di accertamento relativi agli anni 2003 – 2008 deduce poi: l’illegittimità degli avvisi relativi agli anni 2003 e 2004 per inesistenza di alcun recupero di imposta in quanto interamente coperto l’imponibile dallo scudo fiscale perfezionato dal …………. e l’interesse dello stesso a ottenere l’annullamento degli stessi per l’inesistenza del recupero stesso; la decadenza sotto diversi profili dal potere di accertamento per gli anni di imposta 2003 e dal 2004 al 2006; per tutti gli avvisi di accertamento, l’inutilizzabilità dei documenti (la c.d. lista Falciani) posti dall’Ufficio finanziario a fondamento della pretesa impositiva;
l’appartenenza al ………….. dei capitali oggetto di contestazione e detenuti fiduciariamente dall’appellante. Con l’atto di appello avverso la sentenza n. 58/03/2014 ripropone i vizi dell’inutilizzabilità dei documenti (la c.d. lista Falciani) posti dall’Ufficio finanziario a fondamento della pretesa impositiva e dell’appartenenza al ………… dei capitali oggetto di contestazione e detenuti fiduciariamente dall’appellante. Si è costituita in ambedue gli appelli l’Agenzia delle Entrate che controdeduce ai motivi di appello sostenendo la legittimità degli atti di accertamento e irrogativi delle sanzioni fondati su documenti pienamente utilizzabili e adottati nei termini previsti dalla legge, ritenendo infondata la tesi dell’irretroattività della legge che ha previsto il raddoppio dei termini per l’accertamento, come pure infondata l’affermazione che l’appellante non sarebbe il reale possessore delle somme contestate. Con ulteriore memoria l’Agenzia delle Entrate ha riconosciuto, per effetto del principio del favor rei applicabile per le disposizioni di legge più favorevoli intervenute nel corso del giudizio, che debbano essere applicate al contribuente nell’aliquota minima del 5% le sanzioni per il periodo dal 2002 al 2008 e dell’aliquota del 6% per il 2009 con riferimento all’omessa dichiarazione di investimenti; mentre debbano essere totalmente annullate le sanzioni per l’omessa dichiarazione dei trasferimenti. L’Ufficio ha concluso che dovendo riconoscere al contribuente uno sgravio complessivo di euro 530.023,56 ha proceduto allo sgravio parziale per euro 229.956,96 dell’iscrizione a ruolo dei 2/3 delle sanzioni irrogate effettuata per effetto della decisione di reiezione del ricorso di primo grado, non potendo procedere per ragioni tecniche all’annullamento parziale dell’avviso riguardante le sanzioni.
DIRITTO
1) II Collegio ritiene di dovere, preliminarmente, riunire i due appelli per evidenti ragioni di connessione oggettiva e soggettiva. 2) In via ulteriormente preliminare il Collegio rileva che sull’accoglimento parziale dei ricorsi contenuto in entrambe le sentenze appellate quanto alla rideterminazione del calcolo delle sanzioni con applicazione del principio di continuazione, l’Agenzia delle Entrate non ha proposto appello incidentale; con la conseguenza che la pronuncia emessa in questo grado di giudizio non potrà che tenere fermo, anche in caso di rigetto degli appelli, il giudicato interno formatosi su tale punto di domanda. 3) Entrando nel merito dei motivi di appello avverso le due sentenze impugnate, il Collegio osserva che esse contengono motivi sostanzialmente identici con riguardo all’impugnativa degli atti di accertamento e per questo si prestano a una trattazione congiunta. 3.1. Ciò detto e seguendo un ordine di trattazione che risponda a un criterio logico, va ritenuto infondato il motivo con il quale parte appellante ripropone le articolate censure sulla decadenza del potere di accertamento e quindi di irrogazione delle sanzioni, lamentando in particolare che il giudice di primo grado non si sia pronunciato in merito alle specifiche contestazioni mosse dal contribuente avverso l’atto irrogativo delle sanzioni, pur in assenza di contestazione da parte dell’Ufficio dei motivi di illegittimità dell’atto spesi nel ricorso che il giudice stesso avrebbe dovuto valutare ai sensi dell’art. 115 c.p.c.. La doglianza è priva di rilievo ai fini delle decisioni di merito che questo giudice deve assumere. La sentenza di primo grado, in effetti non si occupa dei vizi formali dedotti avverso l’atto irrogativo delle sanzioni, tuttavia ciò non ne determina di per sé un vizio invalidante della sentenza funzionale alla fondatezza delle contestazioni stesse, ma semmai impegna questo giudice di appello a pronunciarsi sui motivi in questione, in coerenza con il carattere devolutivo proprio del processo di appello. Il fatto, poi, che l’Ufficio nel giudizio di primo grado non abbia preso posizione sui rilievi del contribuente, non può essere valutato di per sé come fondatezza dei rilievi stessi, non attenendo essi alla prova, ma alla valutazione giuridica del provvedimento sanzionatorio che è sempre demandata al giudice apprezzare in termini di fondatezza o meno sulla base delle disposizioni legislative vigenti e delle regole e dei principi giuridici da applicare al caso concreto. 3.2. Occorre, di seguito, esaminare il motivo con il quale parte appellante sostiene l’inutilizzabilità dei documenti provenienti o aventi causa dalla c.d. “lista “Falciani”, posti dall’Ufficio fiscale a base della pretesa impositiva. La prioritaria trattazione di tale motivo risiede nella circostanza che su tale documentazione è fondato l’intero impianto delle indagini fiscali e dei rilievi fiscalmente rilevanti che ne derivano a carico dell’appellante;
donde l’eventuale fondatezza del motivo priverebbe totalmente di supporto giuridico l’intera pretesa impositiva e le relative sanzioni per il suo totale effetto caducante e non meramente viziante. Il motivo è, tuttavia, infondato. Va, intanto, rilevato che le informazioni attinenti e riconducibili alla c.d. “lista Falciani” sono pervenute dalla Francia alle Autorità finanziarie italiane attraverso canali ufficiali di scambio dati nell’ambito delle procedure di cooperazione internazionale predisposte, come già detto, in applicazione della Direttiva 77/799 CEE del 19.12.1977, che riguarda specificamente la lotta contro la frode e l’evasione fiscale sul piano internazionale, e della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Francia stipulata il 5.10.1939 e ratificata con legge 7.1.1992 n. 20. Ciò significa che l’eventuale originaria illecita acquisizione all’estero dei dati trasfusi poi nell’informativa internazionale non trasmette e trasfonde l’originaria illiceità all’informativa stessa, la quale è pervenuta alle Autorità italiane nel rispetto di procedure formali legittimate da una Direttiva europea e da una Convenzione ratificata dal Parlamento italiano. Sull’utilizzabilità dei dati stessi ai fini delle indagini interne svolte nel territorio nazionale si è pronunciata la 3^ Sezione penale della Corte di Cassazione (ord. n. 38753 del 4.10.2012) ma anche e recentissimamente la Sezione 6^ civile della medesima Corte, con le ordinanze n. 8605 e 8606 del 28 aprile 2015 dalle quali questo giudice non ha motivo di discostarsi. La Suprema Corte, ha rilevato innanzi tutto che la Corte di Giustizia, Grande Sezione, pronunciatasi sulla causa C-276/12 con la decisione del 22.10.2013 ha riconosciuto che la Direttiva 77/799 CEE non si occupa del diritto del contribuente di contestare l’esattezza dell’informazione trasmessa e non impone alcun obbligo particolare quanto al contenuto della stessa, spettando solo agli ordinamenti nazionali fissare le relative regole; con la conseguenza che è compito del giudice nazionale, ove le informazioni rese dall’autorità fiscale di altro Paese devono essere utilizzate, valutare il valore delle prove acquisite sulla base delle disposizioni nazionali interne senza attribuire alcun effetto emendativo agli eventuali vizi di illegittimità che affliggono gli elementi acquisiti, ma neanche senza che l’autorità nazionale debba verificare l’autenticità della fonte di provenienza della documentazione acquisita. La Corte ha, quindi, affermato il principio che non sussiste l’obbligo delle autorità fiscali italiane di verificare la provenienza e l’autenticità della documentazione trasmessa da uno Stato estero nell’ambito della collaborazione di cui alla predetta Direttiva. Sulla base di tale premessa la Corte fa affermato che la Direttiva non prevede limitazioni all’utilizzabilità in uno Stato dei dati acquisiti da un altro Stato membro, con la conseguenza che la documentazione acquisita può essere posta a fondamento della pretesa fiscale secondo le norme proprie dell’ordinamento nazionale ove la stessa deve essere utilizzata. La Corte Suprema ha escluso, altresì, un obbligo di comunicazione all’interessato dell’invio da parte dell’Autorità francese a quella italiana su richiesta di quest’ultima essendo stato escluso tale obbligo dalla Corte di Giustizia dell’U.E. nella sentenza sopra richiamata. Ancora la Corte, distinguendo la netta differenziazione fra processo penale e processo tributario, ha ritenuto errata la decisione del giudice di merito circa l’inutilizzabilità della c.d. lista Falciarli, non rinvenendosi nel processo tributario una disposizione analoga all’art. 191 c.p.p. che sancisce l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge, affermando sotto tale aspetto la piena legittimità dell’attività accertativa posta in essere dall’Amministrazione fiscale su impulso della documentazione acquisita dallo Stato francese e l’utilizzabilità, quindi, della documentazione stessa ciò consentendolo il disposto degli artt. 39, comma 2, e 41, comma 2, del D.P.R. n.600 del 1973, come pure dell’art. 55, comma 1, del D.P.R. n. 633 del 1972. Sotto il profilo dei principi costituzionali, la Corte ha ritenuto non violati i diritti costituzionalmente garantiti del contribuente sia con riferimento al diritto alla riservatezza, non sussistendo più un diritto alla riservatezza dei dati bancari dopo l’abrogazione del segreto bancario da parte dell’art. 18 della legge n. 413 del 1991 bensì la necessità da parte dello Stato di combattere il diffuso fenomeno dell’evasione fiscale in specie quella determinata dall’occultamento di ingenti capitali depositati all’estero nel c.d. paradisi fiscali; sia con riferimento all’art. 24 della Carta, posto che la c.d. lista costituisce solo un indizio nel processo tributario nel quale il giudice deve valutarla alla luce delle acquisizioni processuali nel pieno rispetto dei diritti della difesa; sia con riferimento al giusto processo nel rispetto dell’art. 6 della Convenzione EDU, avendo la Corte di Strasburgo ritenuto che l’utilizzo di una prova acquisita illegalmente non costituisce di per sé violazione della Convenzione. Con riferimento, infine, all’efficacia nell’ordinamento interno della sentenza della Cour de Cassation civile del 31.1.2012, la Corte di Cassazione ha affermato che non è possibile attribuire alcun valore giuridico a tale decisione pronunciata in procedimento straniero, vigendo il principio della reciproca indipendenza degli ordinamenti nazionali che determina l’irrilevanza delle pronunce dei giudici stranieri che hanno dichiarato l’inutilizzabilità della lista “Falciani”. Il Collegio rimanda, per economia di giudizio, alle ampie argomentazioni contenute nelle motivazioni delle richiamate ordinanze. Detto ciò, c’è poi un ulteriore argomento che – ad avviso del Collegio – rende infondato il motivo. L’accertamento fiscale condotto dalla Guardia di Finanza con il rispetto delle garanzie del contraddittorio di cui fa fede fino a querela di falso il verbale del 25.11.2010, trova riscontro – quanto alla disponibilità su conti esteri di ingenti somme non dichiarate alle Autorità finanziarie nazionali e alla sottrazione dei redditi di capitale derivanti dalle stesse – nello stesso contribuente che ha collaborato alle operazioni investigative di cui al processo verbale di accertamento della Guardia di Finanza senza disconoscere formalmente la legittimità della fonte delle informazioni acquisite né l’esistenza dei conti esteri e del loro ammontare, accettandone il contraddittorio, esibendo in data 22.10.2010, al fine di vincere le presunzioni legali introdotte dal d.l. n. 78/2009 la seguente documentazione: l’autocertificazione del 19.10.2010 sottoscritta dal contribuente e autenticata dal dr. …………. dalla quale si desume che i conti intestati allo stesso presso la banca svizzera ………. sono stati gestiti fiduciariamente in nome e per conto del padre …………. ed alimentati con risorse finanziarie provenienti da conti accesi presso la medesima banca e intestati al padre; copia di un ordine di bonifico del 12.12. 2002 (corredato dalle relative contabili di addebito e di accredito) disposto dal padre del contribuente con addebito su conto denominato ……….. in favore del contribuente (sul conto denominato ……………) per un totale di $ 522.000,00; copia di altre due bonifici fra gli stessi conti aventi stessa data di importo rispettivamente di $ 1.421.840,00 e di $ 1.426.296,00; copia di un bonifico del 21.2.2006 fra gli stessi soggetti, con addebito sul conto denominato ………… a favore del conto …………. di $ 260.000,00; copia di documentazione intestata ………………. in data 31.12.2008 del profilo …………..da cui risulta un saldo pari a euro 2.747.692; copia di un ordine di chiusura del conto ………… del 17.2.2006 e trasmesso a mezzo fax alla banca svizzera con trasferimento del saldo sul conto ……………. A ciò va aggiunto che sia l’appellante nell’anno 2010, per euro 496.000,00, sia il di lui padre ……….., che sottoposto pure a verifica da identiche ragioni ispettive ha esibito cinque dichiarazioni riservate delle attività emerse per un ammontare complessivo pari a 4 milioni di euro, hanno invocato gli effetti preclusivi ed estintivi derivanti dall’adesione allo scudo fiscale. 3.3. Seguendo l’ordine logico di trattazione dei motivi dedotti, occorre occuparsi ora della doglianza con la quale, criticando le sentenze emesse dai primi giudici, l’appellante ribadisce l’appartenenza dei capitali oggetto di contestazione al ………………… e la detenzione fiduciaria delle stesse da parte del contribuente. Il motivo è destituito di fondamento in quanto l’affermazione del contribuente si basa su una mera autocertificazione priva di alcun valore perché non supportata da documenti che ne confermino la veridicità. Sul punto gli ufficiali verificatori della Guardia di Finanza hanno ampiamente evidenziato l’inattendibilità dell’autocertificazione in questione, in forza della quale lo stesso contribuente aveva opposto gli effetti preclusivi ed estintivi derivanti dall’adesione allo scudo fiscale come comprovata dalle cinque dichiarazioni riservate delle attività emerse, evidenziando che lo stesso contribuente non aveva fornito alcuna prova di tale rapporto fiduciario che risultava, invece, palesemente smentito dalla documentazione presso l’Amministrazione francese che confermava, in parte, quanto emerso dalla produzione spontanea di parte, ossia che il ………………. risultava: titolare del conto denominato ……… chiuso nel 2006 con trasferimento dei fondi in favore del conto denominato …………………..; procuratore sul profilo denominato …………intestato alla …………..; unico titolare del potere di firma su entrambi i conti. Inoltre, il mandato asseritamente fiduciario risultava senza rappresentanza e quindi consentiva all’appellante di agire in nome proprio con l’effetto che tutti gli effetti giuridici delle operazioni compiute e, quindi, anche la titolarità dei redditi prodotti ricadevano sull’appellante stesso e che non potessero estendersi allo stesso gli effetti preclusivi ed estintivi delle dichiarazioni riservate presentate nell’ambito della procedura di emersione dello scudo fiscale. Con riferimento, poi, all’asserita validità delle dichiarazioni riservate presentate dal padre dell’appellante per avvalersi dello scudo fiscale, il Collegio ritiene non condivisibile le argomentazioni difensive dell’appellante, in quanto le dichiarazioni di emersione sono state presentate inequivocabilmente successivamente all’invito formale notificato (30.9.2009) ai sensi dell’art. 37 bis, comma 4, del D.P.R. n. 600 del 1973 finalizzato all’attivazione di una specifica attività istruttoria in relazione a individuate operazioni societarie di compravendita immobiliare e quindi tardivamente, ai sensi dell’art. 14, comma 7, del d.l. n. 350 del 2001, richiamato dal comma 5 dell’art. 13 bis del d.l. n. 78 del 2009, rispetto all’attività di indagine attivata dall’Agenzia delle Entrate e per l’impossibilità di verificare la sussistenza dei presupposti per accedere alle operazioni di emersione delle attività detenute all’estero determinata dalla mancata collaborazione del contribuente alle richieste istruttorie dei verificatori della Guardia di Finanza. Occorre sul punto rilevare che il dettato del richiamato comma 7 che con un “o” disgiuntiva inserisce anche la generica locuzione comunque sono già iniziati accessi, ispezioni e verifiche o altre attività di accertamento tributario e contributivo di cui gli interessati hanno avuto formale conoscenza, rende non condivisibile la tesi dell’appellante che la richiesta istruttoria debba avere relazione con una delle violazioni che possano essere sanate dallo scudo. Del resto la tipologia di accertamento condotto a carico del padre dell’appellante, attenendo a una fattispecie elusiva della tassazione originata da una rilevante plusvalenza di cessione di quote societarie, poteva avere rilevanza anche sul versante della monitoraggio del .. reimpiego delle stesse plusvalenze in attività finanziarie all’estero. 3.4. Quanto sopra considerato consente di ritenere ugualmente destituito di fondamento il motivo attinente all’erronea quantificazione dei capitali detenuti all’estero. Il p.v.c. della Guardia di Finanza ricostruisce, sulla base anche della documentazione fornite dall’appellante, tutte le disponibilità dei conti correnti detenuti presso le banche elvetiche, mentre l’appellante ha insistito nel porre a giustificazione documentazione, come eccepito dall’Agenzia appellante, già prodotta in sede di verifica e positivamente valutata dalla Guardia di Finanza; pertanto, dinanzi alle contestazioni gravi, precise e concordanti dell’Amministrazione fiscale era onere dell’appellante controdedurre ai rilievi mossi attraverso idonea documentazione che dimostrasse concretamente l’erroneità delle somme poste al recupero a tassazione da parte dell’Agenzia stessa. Del resto, contrariamente a quanto affermato dall’appellante, sulla non disponibilità di capitali che giustificasse il possesso delle ingenti somme detenute all’estero l’Agenzia ha controdedotto nella memoria elencando tutte le situazioni in cui l’appellante, negli anni oggetto del controllo, era titolare di importanti quote in diverse società di capitali. 3.5. Va, di seguito, esaminato il motivo che si appunta sulla tesi della inapplicabilità del raddoppio del termine a disposizione dell’Amministrazione finanziaria per procedere all’accertamento e all’irrogazione delle sanzioni relative alle violazioni legate al mantenimento delle attività finanziarie in Stati a regime fiscale agevolato. Si tratta, com’è noto, dell’art. 12 del d.l. n. 78 dell’1.7. 2009, conv.to con legge 3.8.2009 n.102, comma 2 bis, quest’ultimo introdotto dall’art. 1, comma 3, del d.l. n.194 del 30.12.2009, conv.to con legge 26.2.2010 n. 25. Il ricorrente sostiene che tale raddoppio non potrebbe trovare applicazione per i periodi di imposta per i quali l’Amministrazione era decaduta dal potere di accertamento e di irrogazione delle sanzioni (in particolare anni 2002, 2003, 2004 e 2005) alla data di entrata in vigore delle disposizioni di legge che l’ha introdotto determinandosi diversamente una irretroattività degli effetti della novella legislativa di che trattasi in contrasto con il principio di certezza dei rapporti giuridici e in assenza di una disposizione espressa in tal senso, in mancanza della quale varrebbe il principio della non prorogabilità di un termine di decadenza sussistendo diversamente un effetto sanzionatorio improprio a sfavore del contribuente, con fondati dubbi di incostituzionalità della legge entrata in vigore nel 2009. Esaminando, dunque, l’articolato motivo sopra esposto, il Collegio lo ritiene del tutto infondato.
II Collegio rileva che tale disposizione legislativa è stata introdotta proprio per consentire l’emersione delle attività finanziarie detenute all’estero dai soggetti residenti in assenza di alcuna denuncia alle autorità fiscali nazionali, prevedendo la presunzione, salvo prova contraria, della sottrazione alla tassazione. Tale presunzione non opera, tuttavia, per coloro che si sono avvalsi del c.d. “scudo fiscale” nei limiti delle somme dichiarate o scudate. Appare, quindi, illogico la tesi interpretativa che, a fronte di una disposizione espressa che raddoppia i termini dell’accertamento, limiti tale presunzione ai periodi che vanno dall’anno 2009 in poi, essendo manifesta che una tale interpretazione renderebbe del tutto inutile e, quindi, spuntata l’azione volta all’emersione del fenomeno dei capitali esportati illegalmente all’estero e sottratti all’imposizione fiscale. E’ utile ricordare che la disposizione legislativa sopra indicata interviene per porre rimedio a un diffuso fenomeno di evasione fiscale che, per l’entità delle somme sottratte a tassazione, costituisce un illecito penale che permane nei suoi effetti salvo che intervenga la dichiarazione di emersione nell’ambito della procedura dello scudo fiscale. Il raddoppio dei termini, in tale situazione, non concreta una proroga surrettizia dei termini di accertamento scaduti o una sanzione impropria, ma in deroga alle disposizioni ordinarie valevoli a regime per gli accertamenti fiscali relativi ai redditi e ai capitali prodotti e mantenuti in Italia, determina – limitatamente alle ipotesi di cui al cit. comma 2 dell’art. 12 – un’estensione del periodo di accertamento regolato dalla legge, giustificato dalla necessità di attribuire all’Amministrazione finanziaria un termine maggiormente congrue all’emersione degli investimenti e delle attività finanziarie detenuti in modo occulto negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato di cui al d.m. 4.5.1999. Sul punto appare corretto e conferente il richiamo che l’Ufficio fiscale fa alla sentenza n. 247 del 2011 della Corte Costituzionale (cfr anche per principio Corte Cass.ne, sez. trib., 11.12.2012 n. 22587). Quanto sopra esposto manifesta la palese incongruenza e illogicità – comprensibile solo se la si valuta sotto il profilo dell’interesse a conseguire comunque una sostanziale impunità dell’evasione fiscale perseguita nel tempo – della tesi di parte appellante secondo la quale per L’applicazione del raddoppio dei termini decadenziali la notitia criminis sia formalizzata prima della scadenza del termine ordinario di decadenza. Consegue da quanto sopra, che essendo stati notificati gli avvisi di accertamento entro il termine di legge raddoppiato, gli stessi sono da ritenere tempestivi anche per l’anno 2003, irrilevante essendo, per le ragioni sopra esposte di efficacia di una misura straordinaria introdotta dal legislatore per contrastare efficacemente il fenomeno della detenzione occulta nei c.d. paradisi fiscali di ingenti somme di danaro sottratte alla tassazione in Italia in concomitanza con la riapertura dei termini per potere usufruire del condono fiscale per favorire il rimpatrio o la regolarizzazione delle attività finanziarie e patrimoniali illegalmente detenute all’estero, che alla data di entrata in vigore del d.l. n. 194 del 2009 fosse già decaduto il potere di accertamento dell’Agenzia delle Entrate. Per completezza va precisato che in relazione all’anno di imposta 2002 l’Ufficio finanziario ha successivamente annullato l’accertamento non avendo erroneamente tenuto conto che le somme accertate erano state regolarmente coperte dallo scudo fiscale, non procedendo tuttavia a una remissione a zero del medesimo (si veda nota a pag. 3 memoria depositata il 31 ottobre 2013 nel giudizio di primo grado. 3.6. Seguendo nell’esame dei motivi di appello, va esaminato l’articolato motivo che si appunta, anche sotto i profili formali, sugli avvisi di accertamento per gli anni 2003 e 2004 in assenza di un recupero di imposta in quanto afferenti a capitali “scudati”. L’appellante, infatti, si era avvalso, seppure solo per una parte degli importi poi soggetti a verifica fiscale, della procedura di emersione di cui al c.d. scudo fiscale, presentando apposite dichiarazioni riservate che l’Amministrazione finanziaria aveva ritenuto corrette non dando, così, luogo per gli anni sopra indicati a recuperi d’imposta in quanto l’ammontare dei redditi non dichiarati era stato considerato totalmente “sterilizzato” utilizzando parte delle somme “scudate”.
II motivo è fondato sotto l’assorbente profilo relativo alla violazione dell’art. 13 bis, comma 4, del d.l. n. 78 del 2009 che richiama espressamente l’art. 14 del d.l. n. 350 del 2001 che al comma 1, lett. a) preclude nei confronti del dichiarante e dei soggetti solidalmente obbligati, ogni accertamento tributario e contributivo per i periodi d’imposta per i quali non è ancora decorso il termine per l’azione di accertamento alla data di entrata in vigore del presente decreto, limitatamente agli imponibili rappresentati dalle somme o dalle altre attività costituite all’estero e oggetto di rimpatrio. Da respingere è, sul punto, l’eccezione dell’Ufficio fiscale che afferma carenza di interesse del contribuente appellante a contestare la legittimità di avvisi emessi per ragioni di trasparenza e senza alcune effetto negativo. Ciò per la ragione che, in base alla disposizione di legge sopra richiamata, indipendentemente da quello che possa essere l’utilizzo che l’appellante ritenga di potere fare della copertura della somma consentita dallo scudo fiscale, sul quale nessuna valutazione e accertamento di fondatezza può essere fatta in questa sede, essendo l’una e l’altro subordinati alle concrete iniziative che il contribuente intenderà assumere e alle decisioni dell’Ufficio fiscale sulle iniziative stesse, all’appellante va riconosciuto l’interesse a non subire comunque la notifica di un avviso di accertamento che, seppure privo di recuperi fiscali, contiene la contestazione di un fatto ritenuto dall’Agenzia delle Entrate comunque fiscalmente rilevante in violazione del disposto normativo sopra richiamato. All’uopo è utile ricordare che, come poc’anzi precisato, per l’anno 2002 l’Agenzia aveva annullato in autotutela l’accertamento relativo all’anno di imposta 2002 perché non aveva erroneamente tenuto conto che le somme accertate erano state regolarmente coperte dallo scudo fiscale. 3.7. Vengono in esame ora i motivi attinenti alle sanzioni, sulle quali l’Agenzia delle Entrate ha riconosciuto sostanzialmente le tesi sostenute dal contribuente. Fondatamente, infatti, nell’atto di appello il …………. si doleva della determinazione del minimo e del massimo delle sanzioni astrattamente irrogabili nella misura dal 10% al 50% anziché in quella dal 5% al 25% prevista prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 78 del 2009. E infatti, in base all’art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 472 del 1997 in materia di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrorazione sia divenuto definitivo. Tale norma è conferma di un principio di portata generale, ribadito dal comma 1 dello stesso articolo 3, che in materia di sanzioni risale all’art. 1 della legge 24.11.1981 n. 689, sulla cui base si fonda il principio di irretroattività in materia di sanzioni amministrative in genere e che al comma 2 stabilisce espressamente che le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati. Ne consegue che per le sanzioni relative ai periodi di imposta anteriori alla data di entrata in vigore del comma 7 dell’art. 13 bis del d.l. n. 78 del 2009 (ossia fino al 30 giugno 2009) la misura percentuale della sanzione applicabile dall’Agenzia delle Entrate deve essere contenuta nel range che va dal minimo del 5% al massimo del 25%. L’indicazione nell’atto di irrogazione impugnato delle nuove aliquote percentuali astrattamente applicabili evidenzia che l’Agenzia si fosse invece rapportata al nuovo range (dal 10% al 50%) stabilito dal predetto decreto legge e la conferma è data proprio dalla memoria di replica dell’Agenzia che per superare la censura afferma che l’aliquota della sanzione applicata fosse comunque al 25%; affermazione, tuttavia, non condivisibile perché l’applicazione dell’aliquota del 10% nell’atto di irrogazione senza alcuna motivazione rispetto al minimo del 5%, rapportato all’indicazione del range dal 10% al 50%, fa ragionevolmente presumere che l’Ufficio stesso abbia voluto applicare il minimo di legge attestandosi, però, erroneamente sul (nuovo) minimo del 10%. Sul punto, comunque, L’Agenzia ha riconosciuto, nel corso del giudizio la fondatezza della doglianza del contribuente provvedendo a rideterminare il computo delle sanzioni sulla base del 5%, fino alla data di entrata in vigore dell’art. 13 bis, comma 7, lett. b) del d.l. n. 78 del 2009, conv.to con modifiche dalla legge n. 102 del 2009, e del 6%, a decorrere da tale data, tenendo conto ovviamente delle sentenze della CTP di Prato, non appellate sul punto, che accogliendo il motivo dedotto dal ricorrente, ha stabilito che nel computo delle sanzioni deve trovare applicazione l’istituto della continuazione ex art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 472 del 1997. 3.8. Anche con riguardo alla statuizione contenuta nel comma 3 dell’art. 3 del d.lgs. n. 472 del 1997 l’Agenzia appellata ha riconosciuto la fondatezza del motivo di appello che lamentava il mancato esercizio del potere di autotutela da parte dell’Ufficio sull’atto irrogativo delle sanzioni notificato al contribuente, per l’integrale annullamento nella parte riguardante le violazioni di omessa e infedele compilazione delle Sezioni I e III del modulo RW relativamente ai trasferimenti di capitali da e verso l’estero. L’art. 9 della legge 6.8.2013 n. 97ha, infatti, eliminato l’obbligo (inserito nel previgente testo del comma 2 dell’art 4 del d.l. n. 167 del 1990) di indicare nell’apposito quadro RW della dichiarazione dei redditizi trasferimenti da e verso estero di capitali nel corso del periodo di imposta, abrogando ogni sanzione al riguardo, e ha ridotto il range delle sanzioni per l’omessa dichiarazione dei redditi da investimenti e attività finanziarie all’estero fissato ora fra il minimo del 6% e il massimo del 30% per la violazione relativa alla detenzione di investimenti all’estero ovvero di attività estere di natura finanziaria negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato di cui al decreto del Ministro delle finanze 4 maggio 1999, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 107 del 10 maggio 1999, e al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 21 novembre 2001, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 273 del 23 novembre 2001. Del resto la stessa Agenzia delle Entrate, nella circolare n. 38/E del 23.12.2013 richiamata dall’appellante, ha riconosciuto che in base alla richiamata novella ^legislativa non costituisce più violazione punibile l’omessa e infedele compilazione delle Sezioni I e III (trasferimenti) del modello RW commesse antecedentemente al 4 settembre 2013. In ordine ad ambedue i rilievi il Collegio deve dare atto che in sede di udienza pubblica le parti hanno dichiarato a verbale che a seguito del riconoscimento della fondatezza dei motivi in questione è intervenuto da parte dell’Amministrazione finanziaria lo sgravio, per cui dovrà essere dichiarata in parte qua l’estinzione del giudizio per cessata materia del contendere ai sensi dell’art. 46 del d.lgs n. 546 del 1992. 4) In conclusione, l’appello nei limiti sopra indicati va accolto e per l’effetto vanno annullati gli avvisi di accertamento relativi all’anno 2003 e 2004, mentre va dato atto, in parte, dell’estinzione del giudizio per cessata materia del contendere per la parte dell’appello relativa alla determinazione, nel minimo del 5%, delle sanzioni irrogabili nel periodo anteriore all’entrata in vigore del d.l. n. 78 del 2009 e del 6% dall’entrata in vigore del decreto stesso, nonché all’applicazione delle sanzioni per omessa o infedele dichiarazione dei trasferimenti di capitali nel mod. RW. L’appello per il resto va respinto. In ragione del parziale accoglimento e della parziale cessazione della materia del contendere, le spese del presente grado di giudizio vanno compensate
P.Q.M.
La Commissione, riuniti i procedimenti, accoglie parzialmente l’appello di parte contribuente nei limiti di cui in motivazione. Dichiara cessata la materia del contendere quanto alle sanzioni relative alla omessa dichiarazione relativa ai trasferimenti ed alla applicabilità delle aliquote minime. Spese compensate.
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