COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per la Toscana sentenza n. 1558 sez. 8 depositata il 19 giugno 2016
Nel procedimento RGA 366/2017, con ricorso presentato da ……… S.p.a. veniva svolto atto di riassunzione in grado di appello a seguito della sentenza della Corte di Cassazione n. 15864/2016 chiedendo a questa CTR di : (i) dichiarare l’intervenuto giudicato interno della sentenza n. 55/09/09 quanto all’illegittimità del recupero ad imposizione dell’importo di euro 114.348,73 e all’applicazione della sanzione nella misura della metà del minimo edittale (art. 7, d.lgs. n. 47271997), con rideterminazione delle sanzioni pecuniarie per infedele dichiarazione in linea con la favorevole previsione scaturente dalla novella introdotta con la legge n. 158/2015; (ii) dichiarare illegittima la ripresa per la residua porzione di euro 104.532,97; (iii) con condanna dell’Ufficio alla restituzione delle somme corrisposte e vittorie, di diritti, spese, onorari del presente giudizio e del giudizio di Cassazione.
Come emerge anche dalla sentenza della Corte di Cassazione, la controversia originaria riguardava un avviso di accertamento relativo all’anno 2002 per Irpeg (euro 78.797,00), Irap (euro 9.303,00), Iva (48. 776,99) e sanzioni (euro 127.498,00) emesso dall’Agenzia delle Entrate di Massa nei confronti di ……. S.p.a. (esercente attività di lavorazione, per conto terzi, di prodotti derivati dal petrolio, cd. oli minerali), sulla base di un processo verbale di constatazione emesso dalla Guardia di Finanza in esito ad una verifica di riscontro dei quantitativi di prodotto presenti rispetto a quelli risultanti dalle evidenze contabili. In particolare, i risultati della stessa evidenziavano ammanchi (vale a dire una maggiore quantità del prodotto contabilizzato rispetto a quello rinvenuto) per kg. 228.810,26, oltre il limite legale di calo, nonché eccedenze (di prodotto finito rinvenuto ma non contabilizzato) per kg. 252.434,7 4, oltre il limite di tolleranza legale; da tale situazione, ai sensi dell’articolo 39, comma l, lett. d) D.p.r. n. 600/1973, 54, comma 2, D.p.r. n. 633/1972, l’Ufficio aveva ritenuto di trarre gravi, precise e concordanti presunzioni di cessioni senza fattura, quantificate complessivamente in euro 218.882,00 (euro 104.532,95 per gli ammanchi ed euro 114.348,73 per le eccedenze).
Il ricorso della contribuente veniva ritenuto fondato in primo grado, mentre in appello veniva accolto, in parte, dalla Commissione Tributaria Regionale di Firenze (sentenza n. 55/09/09) il ricorso dell’Ufficio sulla base della seguente motivazione, quanto al merito: era ipotizzabile una rideterminazione dei ricavi, non un completo accoglimento del ricorso in primo grado, anche perché la stessa contribuente “in qualche modo” aveva ammesso maggiori ricavi assoggettabili a tassazione, pur se non nella misura di euro 218.882, atteso che euro 114.348,73 non costituivano ricavi ma costi, non fatturabili; tassabile, per contro, era la porzione di euro 104.532, con riduzione della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 7 d.lgs. n. 47211997.
Ricorreva per cassazione la società contribuente sulla base di tre motivi, ai quali l’Ufficio resisteva senza avanzare, in via incidentale, doglianze per la parte della sentenza della CTR della Toscana che l’aveva vista soccombente.
La Corte regolatrice riconosceva fondati il primo ed il secondo motivo di ricorso, esaminati congiuntamente in quanto connessi, con effetto di assorbimento del terzo motivo.
Invero la CTR aveva deciso la controversia sulla base del principio di non contestazione, “ritenendo “in qualche modo“ ammesso dalla contribuente la esistenza di ricavi non assoggettati a tassazione. Dall’esame delle deduzioni formulate nella memoria di costituzione in appello della società, riportate inricorso con modalità coerenti con il principio di autosufficienza, si evince, tuttavia , che alcuna ammissione era stata a riguardo formulata atteso che la ….. si era limitata, e solo ed in via subordinata, a sostenere che, comunque, l’importo di euro 114.348, 73, fondato sulla qualificazione come ricavi delle eccedenze fisiche di prodotto, rispetto a quelle contabilizzate, rinvenute nel corso dell’ispezione , doveva essere caso mai imputato a costi sostenuti dall’impresa, ma giammai a ricavi; quanto meno tale somma, pertanto, doveva essere esclusa dal maggior imponibile recuperato a tassazione“ . In sostanza, andava escluso che in secondo grado la contribuente avesse ammesso la sussistenza del maggior imponibile (per ricavi non dichiarati) nella misura accertata dalla sentenza impugnata.
La contribuente presentava ricorso in riassunzione proponendo le seguenti questioni ed eccezioni.
1^ motivo: formazione del giudicato interno per la parte della sentenza della CTR 55/09/09 con cui è stata dichiarato l’illegittimità il recupero ad imposizione della somma di euro 114.438,73 (valore delle eccedenze rinvenute in sede di verifica rispetto a quelle contabilizzate), non avendo l’Ufficio impugnato sul punto la pronuncia di secondo grado.
2^ motivo: vincolata illegittimità del recupero a tassazione per mancato assolvimento da parte dell’Ufficio dell’onere probatorio, difetto riconosciuto dalla pronuncia della Cassazione. Se da un lato devono escludersi ammissioni (anche parziali) da parte del contribuente circa l’occultamento di materia imponibile, la Cassazione avrebbe accertato anche che l’Agenzia della Entrate non ha operato una ricostruzione attendibile.
3^ motivo: (in via subordinata al mancato riconoscimento dei primi due motivi) mancata dimostrazione delle pretese impositive sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti. In particolare: (i) la realtà della discrasie tra prodotti contabilizzati e rinvenuti sarebbe smentita dalle risultanze del procedimento penale nei confronti dell’amministratore della società, assolto con sentenza passata in giudicato per l’inattendibilità complessiva della ricostruzione degli organi accertatori (accertamento svolto senza interruzione dell’opificio e senza tener conto dei verbali e dei rapporti interni di miscelazione per calcolare le giacenze effettive; necessità di considerare prodotti finiti solo quelli dichiarati per tali dopo gli accertamenti chimici interni; necessità di considerare le risultanze delle scritture contabili circa la bolla XAB n. …… e non i dati diversi di quest’ultima; implausibilità dell’inesistenza di una contabilità parallela); (ii) carenze della verifica, esposte nel ricorso introduttivo e nelle controdeduzioni di appello (svolgimento della verifica senza interrompere l’attività produttive dello stabilimento; annotazione in uscita sul relativo registro contabile del quantitativo dei vari componenti impiegati nella lavorazione, non nel momento in cui veniva materialmente prelevato per procedere ad essa, ma solo a lavorazione ultimata, con l’emissione del rapporto di lavorazione e conseguente aggiornamento dei registri di carico e scarico delle materie prime impiegate per la miscelazione e dei registri dei prodotti finiti; fino a tale ultimo momento, il registro contabile riportava ancora presente nei serbatoi il quantitativo di materie prime prelevato per la lavorazione, anche se fisicamente erano già trasferite nei miscelatori e nei serbatoi in attesa delle verifiche di conformità; necessità di considerare i cali di lavorazione ed i cali naturali, di evaporazione; riconosciuta correttezza delle relative procedure contabili da parte dell’UTF competente; mancata considerazione dei verbali interni di miscelazione, in presenza di materie prime in cisterne in fase di lavorazione, avendo ritenuto rilevante solo le annotazioni del libro sui prodotti in corso di lavorazione, identificando un incremento delle rimanenze di prodotti finiti – eccedenze di “olio miscelato finito sfuso” ed una deficienza dei materiali utilizzati nel processo di lavorazione (ammanchi) di pari entità, in realtà inesistenti, errata classificazione di 118 tonnellate di materie prime in fusti in giacenza nei depositi, con conseguenti inesistenti deficienze di prodotti ed eccedenze di additivi; erronea classificazione del prodotto “olii lubrificanti” e “additivo confezionato” per effetto della errata interpretazione di un’operazione di trasporto indicata nella bolla di accompagnamento XAB n. …. del 4.2.2002, erroneamente avvalorativa di un importo di prodotto superiore di 4.565 kg; mancata considerazione di rettifiche contabili realizzate per allinearle alla realtà).
4^ motivo: illegittimità della pretesa ai fini IVA per le presunte eccedenze di prodotto rinvenuto rispetto a quello contabilizzato per violazione dell’art. 6, comma 8, d.lgs. n. 471/1997. L’omessa, contabilizzazione degli acquisti non importa riprese ai fini IVA (cfr. Circolare 23/E del 1999)
5^ motivo: giudicato interno sulle sanzioni irrogabili (metà del minimo edittale ex art. 7 d.lgs. n. 4 2/1997) e applicabilità del più favorevole regime sanzionatorio in tema di infedeltà dichiarativa ex d.lgs. n. 158/2015, con riduzione della sanzione (dal 100%) al 90% della maggiore imposta accertata (art. l, comma 2, d.lgs. n. 471/1997).
Si è costituito l’Ufficio svolgendo le seguenti controdeduzioni:
l^ controdeduzione: dalla rilevazione fisica dei prodotti e del magazzino sono emerse consistenti discrasie tra quantità contabilizzate e quelle effettivamente giacenti, documentate nel processo verbale di constatazione, ripercorse nel corpo delle controdeduzioni per ciascuno dei prodotti (olio base sfuso, olio finito confezionato, additivo confezionato, P.A.O., preparazioni confezionate, preparazioni sfuse, olio base rigenerato sfuso, olio miscelato finito sfuso, semilavorati da rilavorare, olio combustibile, gasolio usi altri); il p.v.c. è atto assistito da fede privilegiata ex art. 2700 c.c. quanto ai fatti in esso descritti, per contestare i quali doveva proporsi querela di falso; in assenza di essa, non può porsi in dubbio la correttezza delle rilevazioni delle giacenze effettive riversata nel p.v.c. mentre la critica alla metodologia dell’accertamento non potrebbe fondarsi su una perizia riversata nel processo penale, formata da uno dei membri del collegio difensivo dinanzi al giudice tributario.
2^ controdeduzione: l’assoluzione in seno al processo penale è intervenuta con formula dubitativa, per insufficienza della prova del dolo previo accertamento della realtà dell’evasione di imposta (per sottrazione all’accertamento o al pagamento delle accise di quantitativi non meglio precisati di prodotti e materiali petroliferi) seppure di entità inferiore a quella ipotizzata dagli accertatori, essendo emersi margini ampi di differenza tra giacenze contabili e giacenze effettive accertate dalla GDF non giustificabili con gli errori.
3^ controdeduzione: nel caso in esame si è in presenza di presunzioni di cessione/acquisto di cui agli artt. l e 3 D.p.r. n. 441/1997, per le quali la prova contraria deve essere offerta dal contribuente (cfr. Cass., 1122/2017, 27327/2016); avverso la riproposizione delle argomentazioni del contribuente l’Ufficio ha richiamato gli argomenti esposti nei precedenti gradi di giudizio.
All’udienza del15.6.2017 si è svolta la discussione in pubblica udienza.
Mette conto premettere che appare fondata la prima deduzione della società contribuente in virtù della quale si è formato il giudicato interno l’illegittimità del recupero ad imposizione della somma di euro 114.438,73 (valore delle eccedenze rinvenute in sede di verifica rispetto a quelle contabilizzate), non avendo l’Ufficio impugnato sul punto la sentenza 55/09/09 della Commissione Tributaria Regionale di Firenze. Ciò importa l’assorbimento del motivo volto a segnalare l’illegittimità della pretesa ai fini IVA rispetto alle eccedenze di prodotto rinvenuto rispetto a quello contabilizzata (quarto motivo di appello).
Per contro appaiono infondati il secondo ed il terzo motivo di appello. Per effetto della sentenza della Corte di Cassazione n. 15864/2016 non sussiste alcun vincolo a ritenere, illegittimo il recupero a tassazione per mancato assolvimento da parte dell’Ufficio dell’onere probatorio. Se da un lato devono escludersi ammissioni (anche parziali) da parte del contribuente circa l’occultamento di materia imponibile, non può dirsi che il giudice di legittimità abbia anche accertato che l’Agenzia della Entrate ha omesso di operare una ricostruzione attendibile, non basata su presunzioni gravi, precise e concordanti.
Essendo tuttora oggetto di controversia la questione gli ammanchi (e non più le eccedenze, per quanto detto supra), deve rammentarsi che ai sensi dell’art. l, comma l, D.p.r. n. 441/1997 «si presumono ceduti i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni, ne’ in quelli dei suoi rappresentanti. Tra tali luoghi rientrano anche le sedi secondarie, filiali, succursali, dipendenze, stabilimenti, negozi, depositi ed i mezzi di trasporto nella disponibilità dell’impresa». La presunzione di cui al comma l non opera se è dimostrato che i beni stessi: a) sono stati impiegati per la produzione, perduti o distrutti; b) sono stati consegnati a terzi in lavorazione, deposito, comodato o in dipendenza di contratti estimatori, di contratti di opera, appalto, trasporto, mandato, commissione o di altro titolo non traslativo di proprietà (art. l, comma 2, D.p.r. n. 441/1997); inoltre, l’articolo l, ai commi da 3 a 5, definisce ulteriori condizioni per vincere le presunzioni del primo comma. All’art. 4, comma 2, D.p.r. n. 441/1997, inoltre, è previsto che “le eventuali differenze quantitative derivanti dal raffronto tra le risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino di cui alla lettera d) dell’articolo 14 primo del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, o della documentazione obbligatoria emessa e ricevuta, e le consistenze delle rimanenze registrate costituiscono presunzione di cessione o di acquisto per il periodo d’imposta oggetto del controllo”. Come ricorda la Corte di Cassazione (Sez. 5, Sentenza n. 1122 del 2017) «la norma si riferisce alle c.d. differenze inventariali ovvero a quelle differenze che si possono registrare nelle giacenze di magazzino tra le quantità dei beni iscritti nell’inventario annuale e quelle che si possono verificare in corso d’anno per effetto di cali fisici, errato utilizzo dei codici identificativi all’atto del carico e/o dello scarico, ammanchi, distruzioni e fatti analoghi, che l’imprenditore è autorizzato a far constare a norma dell’art. 14, comma primo, lett. d), DPR 600/73, secondo cui nelle scritture ausiliare di magazzino “possono inoltre essere annotati, anche alla fine del periodo d’imposta, i cali e le altre variazioni di quantità che determinano scostamenti tra le giacenze fisiche effettive e quelle desumibili dalle scritture di carico e scarico”. Ancorché, dunque, le variazioni nella consistenza del magazzino non siano da porsi in relazione a finalità di evasione dell’imposta, in quanto esse, come comunemente si afferma, si connettono ad un fenomeno del tutto fisiologico nell’andamento dell’impresa, nondimeno il legislatore non per questo ha ritenuto che non dovesse trovare applicazione la presunzione di cessione più generalmente stabilita per i beni che non si rinvengono presso i luoghi in cui l’impresa svolga la propria attività o quelli ad essi assimilati, sicché in applicazione della norma sopra citata anche per le differenze inventariali trova applicazione la presunzione anzidetta. Trattandosi, dunque, come questa Corte ha già avuto occasione di ribadire nel vigore dell’art 53 D.P.R. 633/72 – ma il principio è stato riaffermato anche con riguardo al DPR 441/97 (Cass., 26477/14; 6663/14; 2845/12) – di “presunzioni legali relative, annoverabili tra quelle cosiddette “miste”, che consentono, cioè, la dimostrazione contraria da parte del contribuente, ma unicamente entro i limiti di oggetto e di mezzi di prova ivi tassativamente prefigurati e stabiliti ad evidenti fini antielusivi” (Cass., 21617/05), è onere della parte provare che la contrazione registratasi nella consistenza del magazzino non sia frutto di cessioni o acquisizione non contabilizzate, prova che, come rilevato, può essere data con qualunque mezzo, ma solamente con le prove tassativamente indicate dagli articoli l e 2 del citato DPR (Cass., 13210/12)».
Nel caso in esame, tali prove non sono state offerte nelle forme appena dette dalla società ricorrente.
Quest’ultima si è richiamata alle risultanze del procedimento penale nei confronti dell’amministratore della società, assolto con sentenza passata in giudicato. Ma la circostanza appare seriamente enfatizzata dall’appellante. Da un lato, infatti, la sentenza penale è sostenuta da valutazioni autonome sull’attendibilità della ricostruzione degli organi accertatori, derivanti da regole probatorie peculiari e distinte da quelle tributarie; dall’altro, essa si risolve nel riconoscimento dell’insufficienza della prova del dolo, dopo aver accertato la realtà dell’evasione di imposta (per sottrazione all’accertamento o al pagamento delle accise di quantitativi non meglio precisati di prodotti e materiali petroliferi), seppure di entità inferiore a quella ipotizzata dagli accertatori, avendo ritenuto l’esistenza di margini ampi di differenza, tra giacenze contabili e giacenze effettive accertate dalla GDF non giustificabili con gli errori.
A fronte di quanto rilevato nel processo verbale di constatazione in merito a tali consistenti differenze, in esito ad un accertamento svolto con inventario fisico delle giacenze, in contraddittorio con il contribuente, esaminandone la documentazione amministrativa e fiscale, ivi compresi i verbali di miscelazione dei prodotti, come segnalato anche in sede di giudizio di legittimità dall’Ufficio, nessun contrario rilievo è stato opposto in tempi coevi alla verifica dal rappresentante del contribuente e da suo delegato. Per contro l’impiego dei beni non rinvenuti nella produzione (evocato segnalando che il registro contabile avrebbe riportato ancora presente nei serbatoi il quantitativo di materie prime prelevato per la lavorazione, anche se fisicamente già trasferite nei miscelatori e nei serbatoi in attesa delle verifiche di conformità), la loro perdita o la loro distruzione (cali di lavorazione, cali naturali, cali di evaporazione) rappresentano mere prospettazioni alternative, ovvero argomentazioni non assistite da prove rispondenti alle forme indicate dal D.p.r. n. 44l/1997. Le supposte carenze della verifica, esposte anche nel ricorso in riassunzione (la dedotta mancata considerozione dei verbali interni di miscelazione, in presenza di materie prime in cisterne in fase di lavorazione, avendo ritenuto rilevanti solo le annotazioni del libro sui prodotti in corso di lavorazione), scontano, dunque, un deficit di credibilità per contrasto con quanto rilevato nel processo verbale di constatazione (cfr. Foglio 44 del P.V.C. e determinazione giacenze al 3.6.2002) e nella documentazione della verifica (sottoscrizione da parte del rappresentante della società contribuente senza rilievi degli appunti dei verificatori). La prova contraria, in ogni caso, non è stata offerta nelle forme vincolate previste dal D.p.r. n. 441/1997, difetto non rimediato, né rimediabile con la generica critica della esattezza della situazione di fatto, che ha giustificato l’insorgere delle presunzioni, censita dal processo verbale di constatazione, con gli effetti giuridici ricordati dall’Ufficio sin dalla prima controdeduzione dianzi sintetizzata.
Risulta, infine, fondato il quinto motivo di appello, per applicabilità del più favorevole regime sanzionatorio in tema di infedeltà dichiarativa ex d.lgs. n. 158/2015, con riduzione della sanzione (dal 100%) al 90% della maggiore imposta accertata (art. l, comma 2, d.lgs. n. 471/1997), come riconosciuto dalla Circolare 4/E del 4.3.2016. Quest’ultima prevede per gli atti pendenti davanti alle commissioni tributarie, nei casi in cui sussistono i presupposti per l’applicazione dell’art. 3, comma 3, d.lgs. n. 472/1997, il ricalcolo delle sanzioni irrogate, sulla base dei principi generali, è effettuato dagli uffici direttamente o su richiesta dell’organo giudicante. Ai sensi dell’articolo 3, comma 3, d.lgs. n. 472/1997 le misure sanzionatorie più favorevoli trovano applicazione, non solo per le violazioni commesse a partire dal 1 gennaio 2016, ma per tutte le violazioni commesse in precedenza e per le quali si procede all’emissione del relativo provvedimento di irrogazione delle sanzioni, coerentemente con quanto già precisato nella circolare 10 luglio 1998, n. 180, emessa a commento del decreto legislativo n. 472 del 1997, nonché per le violazioni per le quali il provvedimento di irrogazione, già notificato, non sia divenuto definitivo.
L’accoglimento di alcuni dei motivi di impugnazione e di doglianza di ciascuna delle parti persuade della necessità di compensare le spese del presente grado giudizio e di quello di legittimità.
Dichiara intervenuto il giudicato quanto alla riconosciuta illegittimità del recupero ad imposizione della somma di euro 114.438,73.
ln riforma parziale della sentenza n 10/01/2008 della CTP di Massa Carrara, indica in euro 104.532,97 l’ammontare imponibile ai lini IRPEG, IRAP e IVA dei maggiori ricavi, con riduzione al 90% della sanzione pecuniaria per dichiarazione infedele della maggiore imposta accertata dall’Ufficio. Spese compensate.
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