COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per l’Abruzzo sez. 7 – Sentenza n. 825 depositata il 4 ottobre 2017
Con sentenza n. 35/2/2015 del 15.12.2015 e depositata in data 2.2.2016 la Commissione tributaria provinciale di Pescara respingeva il ricorso proposto dalla società S.G. GMBH in persona del legale rappresentante G.A.C. avverso il provvedimento di diniego dell’Agenzia delle Entrate in relazione all’istanza di rimborso relativa a ritenute di acconto indebitamente trattenute e versate da E. per gli anni 2009 e 2010. Avverso detta statuizione propone appello la suddetta società deducendo l’erroneità della sentenza impugnata affetta da vizio di motivazione per essere la stessa carente e/o apparente e riproponendo sostanzialmente le questioni prospettate nel ricorso di primo grado. In particolare, i tre profili esaminati dalla CTP- e nei termini indicati in motivazione avrebbero dovuto portare all’accoglimento del ricorso essendo valido ed efficace il contratto di mutuo ripassato tra la A.E. gmbh – successivamente incorporata in E. srl- e A.E. srl ma, ove anche fosse stato ritenuto invalido il contratto, la restituzione delle somme non poteva essere sottoposta a tassazione men che meno sotto forma di ritenuta alla fonte. Con riguardo al profilo concernente l’effettivo beneficiario degli interessi, ha osservato che il pagamento effettuato mediante compensazione di partite creditorie e debitorie, è prassi nell’ambito dei gruppi societari ed è assolutamente legittimo, a norma dell’art.1241 c.c. Ha chiesto, pertanto, la riforma dell’impugnata sentenza con vittoria di spese del doppio grado. Si è costituita in giudizio l’amministrazione chiedendo il rigetto dell’appello con vittoria di spese processuali sul presupposto che il contratto di mutuo non aveva i requisiti richiesti dalla normativa italiana; inoltre anche la qualifica di soggetto beneficiario non era stata adeguatamente provata, a norma dell’art. 2697 c.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Si è discusso tra le parti in ordine alla qualificazione del contratto di mutuo ripassato tra le due società che, a dire dell’amministrazione finanziaria, in mancanza di un termine fissato per l’adempimento ( cioè la restituzione della somma mutuata), avrebbe snaturato lo stesso contratto di mutuo. Tale tesi non appare condivisibile. Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte il diritto di credito, ancorché non ancora esigibile per mancata fissazione del tempo dell’adempimento, da stabilirsi per accordo delle parti, può essere esercitato, in caso di mancato accordo, attraverso il ricorso del creditore al giudice ex art. 1183 c.c., comma 2, con la conseguenza che l’inerzia del creditore – ossia la mancanza del ricorso giudiziale o della sollecitazione al debitore- determina il decorso della prescrizione ex art. 2935 c.c. fin dal momento in cui il diritto è sorto (Cass., 14.3.1986. n. 1731).
Dalle norme dettate in tema di mutuo risulta agevole desumere quando la determinazione di un termine di restituzione della somma o delle cose mutuate costituisca un elemento essenziale del contratto in parola. Tale affermazione, peraltro, risulta confermata dal dato in base al quale, qualora dovesse mancare nel regolamento negoziale la previsione di detto termine, il legislatore, a norma dell’art. 1817 c.c., dà incarico al giudice di stabilirlo. E’ stato affermato come sia connaturale al contratto di mutuo l’esistenza di un termine per la restituzione del tantundem delle cose mutuate, in quanto la stessa funzione economica cui il contratto mira, di consentire al mutuatario l’utilizzazione della cosa, implica necessariamente, per poter essere attuata, che intercorra un certo lasso di tempo tra la consegna e la restituzione che pertanto non può essere immediata (Cass. civ., 22.6.72, n. 2055, in Giust. civ., 1972,1, 1511).
È proprio la particolare funzione del contratto di mutuo ad escludere, in sostanza, l’operatività del principio di immediata esigibilità della prestazione che, in modo generale, viene definito nel primo comma dell’art. 1183 c.c.
La dottrina ha attribuito al termine, per la cui fissazione è necessario l’intervento dell’autorità giudiziaria, la qualifica di «termine implicito».
La nozione di termine implicito può essere agevolmente ricavata dallo stesso art. 1183 c.c. il quale nella prima parte seguita: «Quando tuttavia in virtù degli usi o per la natura della prestazione ovvero per il modo o il luogo della prestazione, sia necessario un termine, questo, in mancanza di accordo fra le parti, è stabilito dal giudice»; l’art. 1817 non è, infatti, che l’applicazione di tale principio, nel senso che la natura stessa del mutuo, il cui scopo è la concessione al mutuatario dell’uso di una somma per soddisfare i propri bisogni, rende inapplicabile il principio generale della esigibilità immediata delle obbligazioni senza termine. Non appare superfluo, tuttavia, ai fini dell’indagine sui termini di decorrenza del contratto di cui si discorre, tracciare una chiara distinzione tra due operazioni dai contorni sfumati che per questo rischiano di confondersi e, precisamente, tra il differimento e la fissazione di un termine per la restituzione del mutuo. Generalmente si esclude che nel mutuo possa operare il principio di esigibilità immediata, atteso che la dilazione costituisce un elemento naturale del rapporto, tanto che in caso di mancata fissazione convenzionale del termine, l’art. 1817 affida al giudice di stabilirlo. Si tratta, in questo caso, di «essenzialità strutturale» del termine di restituzione (Cass. civ., 23.6.64, n. 1624, in Foro it., 1964, I, 1061).
Risulta essenziale nel mutuo un intervallo di tempo tra consegna e restituzione, ossia un differimento. E’ stato osservato come il termine possa anche essere ricavato da una determinazione implicita, risultante indirettamente dalle particolari caratteristiche dell’uso per cui la somma era stata mutuata, uso esplicitamente considerato dalle parti all’atto della stipulazione del contratto. Se, quindi, la disciplina del tempo della restituzione nel mutuo risulta offerta, in primo luogo, dagli artt. 1816 e 1817 c.c., non è tuttavia esclusa l’applicazione delle disposizioni di carattere generale contenute negli artt. 1183 ss. c.c. Dal tenore letterale dell’art. 1816 c.c. si evince che nel mutuo oneroso il termine per la restituzione si presume stipulato a favore di entrambe le parti, di modo che prima della scadenza fissata nel contratto nessuno dei contraenti può pretendere anticipatamente la restituzione dei beni mutuati .
Al contrario, nel caso in cui il mutuo sia stato stipulato a titolo gratuito, non essendo stati convenuti interessi, la norma appena richiamata, in sintonia con il principio generale contenuto nell’art. 1184 c.c., precisa che il termine sì debba considerare fissato a vantaggio del debitore. La parte mutuataria, quindi, dispone, in tal caso, della facoltà di adempiere l’obbligazione restitutoria anche prima della scadenza senza che il mutuante possa opporsi. La presunzione stabilita dalla disposizione in parola è relativa ed, in quanto tale, suscettibile di essere smentita nel caso in cui venga fornita la prova contraria. Si ritiene, tuttavia, che le parti possano stabilire in via convenzionale un diverso regolamento dei propri interessi o accordarsi per una proroga una volta scaduto il termine previsto in origine. Ora, esaminando il contratto sottoscritto e prodotto in atti, appare evidente che si tratti di un mutuo oneroso erogato nell’ambito di una operazione economico-finanziaria infragruppo, con pattuizione di interessi e facoltà di recesso per entrambe le parti: ciò non snatura affatto, alla luce delle considerazioni sopra svolte, il contratto di mutuo dalle parti stesse sottoscritto né appare legittimo- come affermato dal giudice di prime cure- inferirne l’invalidità del contratto, specie dopo aver affermato la natura accidentale del termine. Passando all’esame degli altri profili sottoposti al vaglio di questa commissione, è pacifico che una delle condizioni richieste, per la fruizione del beneficio fiscale richiesto dalla società estera sia la qualità di beneficiano effettivo. Con riferimento alla condizione posta per l’applicazione di tale disposizione, rappresentata dall’essere, la società estera che riceve i dividendi, beneficiaria effettiva degli stessi, la Suprema Corte ha già avuto modo di osservare, che “le convenzioni contro le doppie imposizioni sono strumenti di diritto internazionale pattizio il cui fine è quello di evitare il fenomeno della c.d. doppia imposizione giuridica, in materia di imposte sul reddito e di capitali, nonché prevenire l’evasione fiscale.
Ne deriva che il godimento dei benefici convenzionali non può che essere strettamente connesso alla circostanza che il contribuente, che ne beneficerà, sia un soggetto, non solo, sottoposto alla effettiva giurisdizione dell’altro Stato contraente (requisito della residenza), ma anche il soggetto che avrà la disponibilità economica e giuridica del provento formalmente percepito, versandosi, altrimenti, nell’ipotesi di una “traslazione impropria dei benefici convenzionali”.
È in questa prospettiva che la prassi internazional-tributaria ha elaborato il concetto di beneficiario effettivo al fine di contrastare quelle pratiche volte proprio a trarre profitto dalla autolimitazione della potestà impositiva statale. In ambito Ocse, il concetto di beneficiano effettivo è comparso per la prima volta nel Modello di convenzione del 1977, negli artt. 10 e 11, rispettivamente dedicati al regime di tassazione di dividendi ed interessi.
La prassi statale si è, quindi, conformata a tale orientamento, adottando la clausola del beneficiano effettivo (o beneficiai owner, nella traduzione inglese del concetto) nei diversi trattati sottoscritti. La clausola del beneficiano effettivo si può quindi qualificare come una clausola generale dell’ordinamento fiscale internazionale, volta ad impedire che i soggetti possano abusare dei trattati fiscali attraverso pratiche di treaty shopping con lo scopo di far godere della protezione convenzionale contribuenti che, altrimenti, non ne avrebbero avuto diritto o che avrebbero subito un trattamento fiscale, comunque, meno favorevole. Alla luce ditale clausola e della stessa origine delle convenzioni fiscali, il self-restraint, cui uno Stato nazionale acconsente sottoscrivendo una convenzione, non può, evidentemente, spingersi fino al punto di consentire un abuso della stessa convenzione che realizzerebbe, quindi, un fenomeno di doppia non imposizione altrettanto deprecabile quanto quello della doppia imposizione. Se ne deve desumere pertanto la possibilità, per lo Stato della fonte (nel caso di interesse, l’Italia), di tassare i proventi diretti ad un residente estero nella misura in cui, se ciò non facesse, oltre a vedersi distorte le norme distributive convenzionali, relative all’esercizio del potere impositivo degli Stati, si consentirebbe una forma di pianificazione fiscale, non soltanto aggressiva per le ragioni erariali ma, al contempo, anche pregiudizievole per un corretto confronto concorrenziale tra operatori economici” (così. In motivazione, Cass., Sez. 5, n. 25281 del 16/12/2015). Si è dunque rimarcato che il concetto di beneficiario effettivo non può coincidere con quello più ampio di soggetto che, residente all’estero e ivi soggetto a imposizione, riceve i dividendi, ma richiede un quid pluris, rappresentato dall’essere tale soggetto anche colui che ha la effettiva disponibilità giuridica ed economica dei dividendi Ora, tornando al caso in esame, si è posto in evidenza da parte dell’amministrazione resistente, un mancato assolvimento dell’onere probatorio, in relazione all’art. 2697 c.c. ( come peraltro richiamato nel provvedimento di diniego del rimborso datato 7.8.2014 prot.n. xxx), con riguardo ai documenti prodotti.
Questa commissione, tenuto conto dei presupposti legittimanti la sussistenza del diritto al rimborso del credito di imposta, è di tutt’altro avviso. La società appellante, già in occasione delle istanze di rimborso, ha fornito le necessarie informazioni (codice identificativo, ammontare degli interessi erogati, imposizione subita, beneficiano effettivo) unitamente alle attestazioni dell’assoggettamento a tassazione degli interessi attivi, da parte dell’autorità tedesca.
Non vi è spazio per ravvisare, nell’operazione finanziaria descritta, profili di abuso (1) di diritto e/o finalità elusive quale strategia di impresa.
Contrariamente a diversi casi analoghi nei quali si è assistito ad una triangolazione tra controllante e controllata in prossimità dello stacco di dividendi al solo fine dell’acquisizione della qualifica di “soggetto beneficiano”- nei termini sopra precisati- per ottenere, poi, il rimborso del credito di imposta, quella in esame appare una normale operazione di mutuo oneroso. D’altro canto per provare la qualifica di beneficiano effettivo per l’esenzione da ritenuta sugli interessi ex articolo 26-quater del Dpr 600/73 e direttiva 2003/49/ Ce, come chiarito dal alcune pronunce di merito, è stato ritenuto sufficiente produrre la certificazione di residenza nello Stato comunitario, affermandosi che eventuali oneri aggiuntivi richiesti dall’amministrazione finanziaria italiana non possono essere ritenuti obbligatori, inclusa la prova sulla data certa della documentazione (cfr. Ctp di Milano sentenza 9819/1/2015).
In tal senso si è anche affermato che “i certificati emessi dalle autorità fiscali straniere hanno valenza probatoria vincolante”, come risulta dal pacifico orientamento della giurisprudenza di merito (si vedano le sentenze Ctr Abruzzo 228/9/2010. Ctr Piemonte 28/12/2012, Ctr Lombardia 9/36/2014, Ctr Lombardia, sezione staccata Brescia 2897/2015) e dalla pronuncia 1553/2012 della Cassazione, che ha ritenuto vincolante il certificato rilasciato dalle autorità olandesi sulla residenza fiscale in Olanda di una società tacciata di esterovestizione. Inoltre la Ctp richiama anche il principio comunitario, più volte affermato dalla Corte di Giustizia, di prevalenza della sostanza sulla forma. Del resto la stessa Agenzia, con la circolare 32/E/2011, pronunciandosi sul trattamento fiscale dei dividendi in uscita dall’Italia verso un Paese comunitario, ha precisato che le autorità italiane devono tenere in debita considerazione le certificazioni delle autorità estere. In altre parole, in presenza dei requisiti sostanziali per fruire dell’agevolazione, delle mere carenze formali, quali la data certa sui documenti , non possono mai portare alla disapplicazione del regime di favore contemplato dalla direttiva interessi e royalties e trasfuso nell’articolo 26 quater del Dpr 600/1973. Per i motivi sopra detti l’appello deve essere accolto. Ogni ulteriore profilo resta assorbito. Le spese di lite, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Commissione Tributaria Regionale di L’Aquila, Sezione distaccata di Pescara, definitivamente pronunciando , ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa e rigettata, così provvede: – accoglie l’appello e condanna l’Ufficio al pagamento delle spese del doppio grado liquidate in € 7000,00 per ciascun grado, oltre accessori di legge.
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