COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE LAZIO – Ordinanza 28 settembre 2017

Tributi – IRAP – Norme della Regione Lazio – Art. 5 e Tabella A allegata alla Legge Regionale n. 34 del 2001 – Variazione dell’aliquota a decorrere dall’anno di imposta 2002

Svolgimento del giudizio

L’Agenzia delle entrate propone appello avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Roma, sezione 7, 26 settembre 2016 n. 21092/716, con la quale è stato accolto in parte il ricorso di BNP Paribas e della Banca nazionale del lavoro avverso il silenzio rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso della maggiore IRAP, versata per l’anno 2002, in virtù dell’aumento della relativa aliquota stabilito da alcune regioni.

La decisione impugnata ha motivato il proprio avviso richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 177/2014, che ha dichiarato illegittimo l’art. 1, comma 5, della legge della Regione Lombardia 18 dicembre 2001, n. 27, che il suddetto aumento disponeva.

Per converso, si è dichiarata carente di giurisdizione in ordine alla connessa richiesta risarcitoria, richiamando le decisioni della Corte di cassazione, sezioni unite, 15 dicembre 1999, n. 722 e 4 gennaio 2007, n. 15.

Con l’appello proposto, l’Agenzia delle entrate, postulando la legittimità dell’IRAP incassata con l’aliquota del 5,25%, chiede che venga riconosciuto alla controparte il diritto al rimborso dello 0,50%, essendole stato applicato il tributò nella misura del 5,75%. Deporrebbe`in tal senso l’art. 16 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, che consentiva alle regioni di variare l’aliquota fino ad un massimo di un punto percentuale a decorrere dal terzo anno successivo a quello di emanazione del medesimo decreto legislativo.

In particolare, nonostante fosse stata prevista con la legge finanziaria n. 289/2002 una sospensione della maggiorazione di aliquote, gli aumenti disposti dalla Regione Lazio con propria legge 13 dicembre 2001, n. 34, sarebbero legittimati dall’art. 1, comma 175, della legge n. 311/2004, che prevede la possibilità per le regioni di iniziare o riprendere la decorrenza degli effetti degli aumenti dell’addizionale IRAP in presenza delle finalità di cui al precedente comma 174 (rispetto dell’equilibrio economico-finanziario).

Si sono costituite. in giudizio di BNP Paribas, incorporante della Banca nazionale del lavoro, e la stessa Banca nazionale del lavoro, le quali, dopo aver ricostruito il tessuto normativo di riferimento, osservano, preliminarmente, che si sarebbe formato il giudicato sul capo della sentenza che ha riconosciuto la spettanza del rimborso IRAP nelle Regioni Lombardia. Marche e Sicilia, essendo esclusiva materia del contendere la maggiorazione di un punto introdotta dalla Regione Lazio con l’art. 5 della legge regionale 13 dicembre 2001, n. 34 per l’anno 2002; l’acquiescenza riguarderebbe altresì, sia pure in parte, la misura di quest’ultimo, rimborso, atteso che l’Agenzia delle entrate assume che il tributo sarebbe dovuto, ma nella misura del 5,25% (e non del 5,75%), sicché sussisterebbe il diritto al rimborso, sia pure nella misura dello 0,50% (differenza fra 5,25% e 4,75%).

Assumono, quindi, in via principale, l’infondatezza dell’appello, sostenendo che l’aliquota correttamente applicabile per il 2002 sarebbe quella del 4,75%, sicché avrebbero diritto ad ottenere il rimborso richiesto.

A ciò condurrebbe una lettura costituzionalmente orientata della normativa regionale che l’Agenzia delle entrate assume applicabile.

In particolare, a nulla, rileverebbe, nella specie, il disposto dell’art. 1, commi 61 e 175, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, in quanto la determinazione della maggiorazione dell’1% dell’aliquota sarebbe anteriore alla norma testè citata e, quindi, non sarebbe ispirata dalle necessità finanziarie della Regione che avrebbero giustificato una siffatta operazione.

In via gradata, le appellate chiedono che, ove il Collegio ritenesse, non condivisibile l’interpretazione della normativa regionale come inapplicabile al 2002, e valevole, quindi, solo per gli anni successivi, venga valutata la non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell’art. 5 della citata legge regionale n. 34/2001, con conseguente rimessione della stessa al vaglio della Corte costituzionale.

Propongono, altresì, appello incidentale, aggredendo quella parte della sentenza impugnata che ha ritenuto il difetto di giurisdizione del giudice tributario in ordine al richiesto risarcimento del danno.

In proposito, invocano la giurisprudenza, di segno contrario, della Corte di cassazione, assumendo che le sentenze citate a sostegno della decisione di primo grado sarebbero state male interpretate dalla CTP.

Nel merito, chiedono che vengano loro liquidate sia la differenza fra il tasso di interessi legali e quello dei titoli di Stato a breve, sia quanto avrebbero ricavato da un impiego presso la clientela delle disponibilità finanziarie a loro indebitamente sottratte.

Le appellate hanno altresì prodotto memoria conclusionale, nella quale ribadiscono quanto esposto nel loro precedente scritto difensivo.

All’udienza del 26 giugno 2017 la causa è stata riservata per la decisione.

Motivi della decisione

Come esposto nella precedente parte in fatto, l’Agenzia delle entrate propone appello avverso la sentenza di primo grado che, in accoglimento del ricorso delle contribuenti, ha riconosciuto il diritto di queste ultime all’applicazione dell’aliquota IRAP nella misura del 4,75%, in luogo di quella – 5,75% – applicata dall’Ufficio.

Riconosce, peraltro, la parziale fondatezza della pretesa di controparte, limitando la sua pretesa all’applicazione dell’aliquota del 5,25%, ammettendo così la spettanza di un rimborso in favore della parte resistente, ma nella misura ridotta dello 0,50%.

Il ragionamento esposto nell’appello è che l’aumento in questione sarebbe legittimato dall’art. 16 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, che consentiva alle regioni di variare l’aliquota fino ad un massimo di un punto percentuale, a decorrere dal terzo anno successivo a quello di emanazione del medesimo decreto legislativo.

In particolare, nonostante fosse stata prevista con la legge finanziaria n. 289/2002 una sospensione della maggiorazione delle aliquote (successivamente reiterata fino al 31 dicembre 2006), l’art. 1, comma 61, della legge n. 311/2004, che disponeva l’ennesima ed ultima proroga, faceva espressamente salvo il disposto dei successivi commi 174 e 175, i quali consentivano alle regioni di disporre l’inizio o la ripresa della decorrenza degli effetti degli aumenti dell’addizionale regionale, per far fronte ai disavanzi di gestione accertati o stimati nel settore sanitario.

Di qui l’emanazione, da parte della Regione Lazio, della legge n. 34/2001, che prevedeva, appunto, l’aumento di un punto percentuale dell’aliquota.

Conseguentemente, in detta Regione, per ovviare al suddetto disavanzo, l’aliquota, da applicare per il 2002 ai contribuenti IRAP ordinari, sarebbe stata fissata nel 5,25%, da intendersi comprensiva dell’aumento dell’1%.

Deporrebbe in tal senso la disposizione del decreto-legge 7 giugno 2006 n. 206, che prevede una maggiorazione dell’1% dell’IRAP, per far fronte alla copertura dei disavanzi di gestione del S.S.N., in assenza di accordi fra Governo e regioni.

La pretesa del 5,25%, quindi, si baserebbe non solo sulla normativa regionale, ma anche sulla disposizione nazionale testè citata.

Passando ad esaminare il motivo di appello, deve, intanto, convenirsi con la difesa della parte resistente, laddove rileva che le doglianze mosse alla sentenza di primo grado riguardano esclusivamente l’ambito territoriale della Regione Lazio e, in secondo luogo, che è oramai pacifico il diritto ad un rimborso, sia pur parziale, in quanto, a fronte del versato (in applicazione dell’aliquota del 5,75%), l’Agenzia delle entrate riconosce che il tributo era dovuto nella misura del 5,25%, sicché in ogni caso va rimborsato il 0,50% di quanto corrisposto.

Nel merito, la tesi dell’Agenzia delle entrate non è condivisibile.

Deve, in primo luogo, sgombrarsi il campo dalle disposizioni di legge nazionale impositive sopravvenute all’anno d’imposta 2002, e, segnatamente, a quella recata dal decreto legislativo n. 206/2006, che, come si è detto, prevede un aumento ex se dell’aliquota IRAP in assenza di un accordo Governo-regioni finalizzato a far fronte all’eventuale deficit sanitario di queste ultime.

Trattasi, infatti, di norme prive di efficacia retroattiva, sicché esse non sono in grado di determinare il carico fiscale dovuto, appunto, per un periodo d’imposta precedente a quello considerato.

Depone in tal senso anche la ratio sottesa a tali disposizioni, che era quella di ovviare alle criticità finanziarie riguardanti proprio il periodo temporale successivo a quello cui si riferiva la contestata imposizione: lo testimoniano, in particolare, gli anni di riferimento recati dalle leggi citate a sostegno dall’appellante.

Deve ulteriormente richiamarsi il comma 174 dell’art. 1 della legge n. 211/2004, il quale fornisce la chiave di lettura del successivo decreto legislativo n. 206, innanzi citato, stabilendo che le maggiorazioni di aliquota sono operative «con riferimento agli anni 2006 e successivi», nel caso di mancata adozione dei provvedimenti necessari per il ripianamento del disavanzo di gestione. Chiude il cerchio normativo l’art. 1, comma 1-bis del medesimo decreto-legge n. 206, il quale individua esplicitamente l’ambito di operatività, immediata dell’aumento dell’1% dell’aliquota IRAP, prevedendola come conseguente al mancato raggiungimento, alla data del 30 giugno 2006, dell’accordo con il Governo sulla copertura dei disavanzi di gestione.

Quanto esposto porta a concludere per l’assoluta infondatezza della pretesa impositiva, nella parte in cui la stessa fa leva sulla normativa statale.

Deve peraltro convenirsi con la difesa della parte appellata laddove rimarca che l’Agenzia delle entrate, nella sua esposizione, cita in ordine sparso le disposizioni di legge sopravvenute, con l’unica giustificazione che tali indicazioni tengono conto di una produzione legislativa statale, anch’essa di carattere «alluvionale».

Quello che è altresì certo è che l’appellante tende a dimostrare che vi sarebbero due distinte fonti normative che giustificherebbero la maggiorazione applicata nella specie, vale a dire una statale, costituita, appunto, dal decreto-legge n. 206/2006, ed una regionale, rappresentata dalla legge del Lazio n. 34/2001.

Inoperativa la prima ratione temporis, per quanto detto in precedenza, rimane da esaminare la seconda.

Occorre preliminarmente evidenziare che l’art. 45 del decreto legislativo n. 446/97 ha stabilito, per le banche e per gli altri enti e società finanziarie, l’applicazione, per l’anno 2002, dell’aliquota del 4,75%.

Tale diversificazione, fondamentale per quanto si andrà successivamente ad esporre, è esplicitamente riconosciuta dalla stessa Agenzia nel suo appello (cfr. pag. 9) ed è ripresa e sviluppata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 177/2014, in precedenza citata.

Va, poi, sgombrato il campo da un’ulteriore obiezione sollevata dall’Agenzia delle entrate, vale a dire che l’operatività della normativa regionale potrebbe essere stata ripristinata in virtù dell’art. 1, comma 175 della legge n. 211/2004, il quale prevede, appunto, una ripresa della decorrenza degli effetti degli aumenti IRAP oggetto di precedente sospensione, atteso che quest’ultima riguardava, giusta l’art. 3, comma 1, lettera A) della legge n. 289/2002, le maggiorazioni di aliquota, deliberate successivamente al 29 settembre 2002, mentre quella di cui si discute in questa sede è stata deliberata nel 2001 e, quindi, non rientra nel perimetro operativo della legge finanziaria del 2005.

La precedente esposizione porta alla conclusione che l’appello dell’Agenzia delle entrate, nella parte in cui si basa sulle disposizioni statali, è infondato, ma che, correlatamente, non si può neppure far luogo all’interpretazione costituzionalmente orientata proposta da controparte.

Occorre, pertanto, focalizzare l’attenzione sulla normativa regionale, anzitutto per verificarne la legittimità.

L’art. 5 della legge regionale n. 34/2001, più volte citata, stabilisce, con dicitura inequivocabile, che alle imprese dedite all’intermediazione monetaria e finanziaria sì applica l’aumento dell’1% dell’aliquota IRAP.

Ciò comporta che, partendo dall’aliquota del 4,75%, che è quella applicabile a detti soggetti, si ottiene il risultato finale indicato da parte appellata, vale a dire il 5,75% (percentuale sulla quale la medesima, per ragioni prudenziali, ha corrisposto il tributo, salvo richiederne il rimborso in parte qua).

Ulteriore conseguenza è che, a fronte di un cosi chiaro ed inequivocabile dettato normativo, oltre a non esservi spazio per un’interpretazione diversa da quella letterale, assume rilevanza decisiva la risoluzione della questione di costituzionalità della disposizione legislativa regionale.

Fatta questa precisazione in punto di rilevanza, deve aggiungersi che la questione stessa non appare manifestamente infondata, alla stregua proprio dei principi di diritto affermati dalla Corte costituzionale nella propria sentenza 18 giugno 2014, n. 177, con la quale è stato dichiarato non conforme a Costituzione l’art. 1, comma 5, della legge regionale della Lombardia 18 dicembre 2001, n. 27, che, con formula del tutto analoga e sovrapponibile a quella della scrutinanda legge della Regione Lazio, aveva fissato nella misura del 5,75% l’aliquota IRAP per gli istituti di credito.

Il Collegio, in particolare, dubita che l’art. 5 della legge regionale del Lazio n. 34/2001 si ponga in contrasto con l’art. 117, comma 2, lettera e), della Costituzione, così conte rilevato, per l’analoga legge della Regione Lombardia, dalla Corte costituzionale.

Nelle «considerazioni in diritto», effettuate nella sentenza di quest’ultima, cui ci si richiama, il Giudice delle leggi è partito dall’art. 16 del decreto legislativo n. 446 del 1997, il quale prevede un’aliquota generale IRAP del 4,25 per cento, «salvo quanto previsto (…) nei commi 1 e 2 dell’articolo 45».

L’articolo, al comma 2, a sua volta sancisce (nel testo storico in vigore dal 1° gennaio 2002 al 31 dicembre 2002) che, per i soggetti di cui agli articoli 6 e 7, tra cui le banche e gli altri enti e società finanziarie, «per i periodi d’imposta in corso al 1° gennaio 1998, al 1° gennaio 1999 e al 1° gennaio 2000 l’aliquota è stabilita nella misura del 5.4 per cento; per i due periodi d’imposta successivi, l’aliquota è stabilita, rispettivamente, nelle misure del 5 e del 4,75 per cento». Quindi per il 2002, anno d’imposta in relazione al quale veniva chiesto il rimborso dell’IRAP, di cui e stato richiesto il rimborso, l’aliquota stabilita in via transitoria era pari al 4,75 per cento.

La norma che viene specificamente in rilievo, ai fini dello scrutinio di legittimità, è il comma 3 del citato art. 16, secondo cui «A decorrere dal terzo anno successivo a quello di emanazione dei presente decreto, le regioni hanno facoltà di variare l’aliquota di cui al comma 1 fino ad un massimo di un punto percentuale. La variazione può essere differenziata per settori di attività e per categorie di soggetti passivi».

E’ in particolare alla stregua di tale disposizione che deve essere risolta la questione di legittimità costituzionale, tenendo conto che, per giurisprudenza costante della Corte costituzionale, la disciplina dell’IRAP rientra nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lettera c), della Costituzione (cfr., per tutte, la sentenza n. 296 del 2003).

Risulta, pertanto, decisivo verificare, in ragione dei canoni ermeneutici, se la facoltà di variare l’aliquota IRAP, attribuita alle regioni dal comma 3 dell’art. 16, sia limitata all’aliquota ordinaria o si estenda anche a quelle fissate dalla disciplina transitoria.

Depone nel primo senso la corretta interpretazione letterale della disposizione, che è il primario (e, perciò, da privilegiare) canone ermeneutico. Essa parla – non a caso al singolare – di «aliquota di cui al comma 1» e dunque non può che riferirsi all’unica aliquota espressamente fissata in quest’ultimo comma, e cioè a quella generale: le altre, che sono oggetto di un semplice rinvio sono pertanto estranee all’ambito di applicazione del coatta 3.

Questa lettura trova poi conferma nella relazione allo schema del decreto legislativo n. 446 del 1997.

Nell’illustrare la riforma connessa all’istituzione dell’IRAP, il legislatore delegato afferma: «l’aliquota di base è fissata al 4,25 per cento; trascorsi due esercizi, le regioni potranno esercitare la facoltà di maggiorarla fino a un punto percentuale, e di differenziarla tra categorie di contribuenti e tra settori di attività».

La possibilità per le regioni di intervenire solo rispetto all’aliquota ordinaria del 4,25 per cento è ribadita a proposito dell’art. 16, chiarendosi che esso «fissa, l’aliquota dell’imposta al 4,25 per cento, che potrà essere maggiorata, fino ad un punto percentuale, dalle singole regioni a partire dal terzo anno successivo a quello dell’entrata in vigore del decreto legislativo».

Al contrario, con riguardo all’art. 45, sempre nella relazione si afferma solo che «Con. l’art. 45 si dettano disposizioni transitorie relativamente al racconto IRAP dovuto per l’anno 1998 e alle aliquote dell’IRAP applicabili per i primi tre periodi di imposta a particolari soggetti», senza alcun riferimento a possibili variazioni.

Anche la giurisprudenza costituzionale intervenuta in ordine alla disciplina transitoria dell’IRAP è nello stesso senso.

La sentenza n. 357 del 2010 ha affermato che «il chiaro tenore letterale dell’art. 16, comma 3, del decreto legislativo n. 446 del 1997 rende evidente che alle regioni è consentito variare (nel limite di un punto percentuale) solo «l’aliquota di cui al comma 1» dello stesso art. 16, cioè solo l’aliquota base e non quelle speciali, tra le quali e compresa quella di cui al comma 1 dell’art. 45 dello stesso decreto legislativo n. 446 del 1997, richiamata dalla disciplina censurata».

La sentenza n. 21 del 2005, poi, nel ritenere la legittimità costituzionale di tale disciplina afferma: «La ragionevolezza della transitoria differenziazione delle aliquote disposta dall’art. 45, comma 2 del decreto legislativo n. 446 del 1997 risulta (…), dai dati economici e contabili considerati dal legislatore in sede di prima applicazione del tributo (…). La nota tecnica allegata, alla relazione governativa al citato decreto legislativo e le successive indagini parlamentari evidenziano, infatti, uno «sgravio consistente» apportato dall’introduzione dell’IRAP per il settore dell’intermediazione finanziaria e un «aggravio significativo» per il settore agricolo. E’ indicativo, al riguardo, che la Commissione bicamerale consultiva in materia di riforma fiscale, in esito alle indagini empiriche effettuate sull’attuazione dell’IRAP, abbia affermato, nella relazione finale del 29 settembre 1999, che, pur con l’aliquota maggiorata, il vantaggio tratto dai settori finanziario ed assicurativo dall’applicazione dell’IRAP è stato «superiore alle aspettative» e che «l’impossibilità che comunque permane di omologare totalmente il settore finanziario agli altri settori impone che se ne tenga conto attraverso un’aliquota differenziata» (…). Alla stregua delle conclusioni raggiunte, va pertanto disposta la rimessione alla Corte costituzionale perché si pronunci sulla legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge regionale del Lazio 13 dicembre 2001, n. 34 e della relativa tabella A (che riporta le variazioni alle aliquote IRAP), segnatamente le indicazioni riguardanti il «Quinto gruppo», nel quale si prevede l’aumento dell’1% dell’aliquota per le attività di cui al cod. ISTAT 65, vale a dire quelle riguardanti l’intermediazione monetaria e finanziaria, escluse le assicurazioni e i fondi pensione».

La rimessione che si va a disporre comporta la necessaria sospensione del presente giudizio, che riguarda anche la pretesa risarcitoria avanzata dagli istituti di credito con appello incidentale, essendo anch’essa strettamente conseguente – quantomeno nel quantum riconoscibile a titolo di danno – alla definizione della questione principale che determina la misura dell’eventuale dovuto dalla parte soccombente a titolo di risarcimento.

P.Q.M.

Visti gli articoli 134 Cost. e 23, legge 11 marzo 1953, n. 87;

Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge della Regione Lazio 13 dicembre 2001, n. 34 e della tabella A ad essa allegata per contrasto con il dettato dell’art. 117 della Costituzione;

Sospende il presente procedimento;

Ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;

Dispone che, a cura della segreteria, la presente ordinanza venga notificata alle parti del presente giudizio, al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.