COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per il Lazio sez. 22 sentenza n. 3983 depositata il 3 luglio 2017
IRPEF – Tassazione somme da risarcimento -Rilevanza pronuncia del giudice del lavoro – Sussiste
Massima:
In tema di tassazione di somme erogate per risarcimento dovuto alla omessa stabilizzazione del posto di lavoro (nella PA), il riferimento all’articolo 6, comma 2 del Tuir non può prescindere dalla effettiva determinazione del giudice del Lavoro circa la natura del compenso, il cui calcolo, pur rapportato economicamente ad alcune mensilità di retribuzione, non denota alcun collegamento con il rapporto di lavoro, rendendolo sostitutivo di mancato reddito. (V.D.)
Riferimenti normativi: articolo 6, comma 2 del Tuir.
Testo:
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con il gravame proposto in data 27/10/2016, la sig.ra A. C. ha impugnato la sentenza della C.T.P. di Viterbo – Sez.1 n. 181/01/16 del 26/01/2016 –
2/03/2016, che ha respinto (con compensazione delle spese) il suo ricorso avverso il diniego di rimborso IRPEF formatosi con silenzio-rifiuto sull’istanza prodotta, concernente le trattenute operate a titolo di imposta sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno subito dalla mancata conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato di una serie di rapporti di lavoro a termine, intrattenuti con il Ministero dell’Istruzione, università e ricerca, come stabilito dal Giudice del lavoro presso il Tribunale di Viterbo. Valore della controversia: euro 664,08.
La ricorrente ne aveva eccepita l’illegittimità, sostenendo che la somma liquidata dal Giudice del lavoro a titolo di risarcimento del danno subito non dovesse essere assoggettata all’imposta sul reddito delle persone fisiche, avente natura meramente ristoratrice del danno patito e non retributiva, e quindi andava rimborsata, perché illegittimamente trattenuta dal suo datore di lavoro.
2. Con la sentenza impugnata, la C.T.P. ha respinto il ricorso, rilevando l’infondatezza dei motivi di gravame, in quanto- premessa l’ammissibilità del gravame, contestata dall’Ufficio, e respinta la richiesta di riunione con altri giudizi- solo la somma liquidata a titolo di danno emergente a ristoro di un pregiudizio subito non costituisce reddito e non è sottoposta a tassazione, mentre quella liquidata a titolo di lucro cessante, ossia di mancato guadagno, consistendo in un reddito, è invece sottoposta a tassazione; non è infatti dubbio che l’indennità liquidata dal Giudice del lavoro trae “origine” dal rapporto di lavoro a termine, di cui era stata chiesta la trasformazione a tempo indeterminato, e quindi si tratta evidentemente di un danno da lucro cessante derivante dalla mancata stipulazione di un contratto definitivo, tanto da essere parametrata sul valore dell’ultima retribuzione, quantificandola equitativamente; l’interessata non ha provato di aver richiesto ed ottenuto il risarcimento di danni ulteriori e diversi da quelli volti al ristoro degli emolumenti non percepiti; ne consegue che l’importo liquidato è tassabile ex art. 6, comma 2, del D.P.R. n. 917/1986 e che l’atto di diniego di rimborso impugnato è legittimo.
3. Eccepisce l’appellante contribuente l’illegittimità della sentenza impugnata, sostenendo:
3.1) difetto di motivazione e violazione di legge; esatta natura dell’erogazione tassata (il primo giudice ha omesso ogni valutazione in merito a quasi tutte le argomentazioni dedotte; è inesatto che qualunque somma percepita dal dipendente in relazione al rapporto di lavoro sia suscettibile di imposizione fiscale; è essenziale indagare sull’effettiva natura delle somme percepite; la somma liquidata non è neppure parzialmente riconducibile a retribuzione, perché l’Amministrazione è stata condannata al risarcimento del danno, che è stato il prezzo di anni e anni di condizione precaria illecita, perché i rapporti avrebbero dovuto essere invece stabili; il lavoratore ha incassato integralmente gli stipendi dovuti per il lavoro svolto ed ha subito un nocumento sul quale il giudice tributario non è tenuto a pronunciarsi; la somma non è andata a ripristinare una perdita di guadagno, ma una condizione soggettiva deteriore; sussiste un ulteriore contenzioso del lavoro volto all’accertamento del diritto alle differenze stipendiali; quella decisa riguardava una domanda giudiziale ben differente e la somma è stata erogata in sostituzione della mancata conversione del contratto, andando a ristorare unicamente il disagio subito; il danneggiato non ha visto aumentare la propria massa patrimoniale, percependo semplicemente un risarcimento monetario per equivalente, quale misura riparatoria di diritti o posizioni insuscettibili di risarcimento in forma specifica, quale danno non patrimoniale; l’indennizzo riguarda pertanto la mancata stabilità del rapporto ed il giudice ha dovuto ripiegare sulla misura alternativa del risarcimento, sostitutiva della principale, di conversione, preclusa nel nostro ordinamento; non deriva pertanto alcun aumento della capacità contributiva, peraltro sottoposto al regime di tassazione separata; ciò che è stato sanzionato è l’illegittimo abuso di forme contrattuali flessibili; il parametro utilizzato per quantificare il danno è solo numerico; la C.T. R. con sentenza n. 4472/2016 dell’11/07 /2016 ha accolto tale impostazione, affermando la natura meramente ristoratrice della somma liquidata);
3.2) difetto di motivazione e violazione di legge sul riparto dell’onere probatorio.
Conclude chiedendo l’accoglimento dell’appello proposto, la riforma integrale della sentenza impugnata e l’annullamento del silenzio-diniego ovvero del provvedimento di diniego contestato, con condanna dell’Amministrazione alla restituzione delle somme indebitamente trattenute; con vittoria di spese, diritti, competenze ed onorari di giudizio.
4. Resiste l’appellata Agenzia delle Entrate con atto di controdeduzioni prodotto in data 9/11/2016, con il quale contrasta le avverse motivazioni, sostenendo la legittimità della sentenza impugnata, in quanto:
4.1) ai sensi dell’art. 6, comma 2, del TUIR, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti i proventi in sostituzione di redditi e le indennità a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita dei redditi; le somme percepite a titolo di lucro cessante costituiscono redditi tassati a pieno titolo in quanto sostitutivi di redditi, poiché l’indennizzo va a compensare in via integrativa o sostitutiva la loro mancata percezione;
la natura del danno subito deve essere dimostrata adeguatamente; la Cassazione ha stabilito che rientrano tra i redditi tassabili le indennità per la risoluzione del rapporto per illegittimo comportamento del datore di lavoro;
4.2) spettava alla parte provare di aver chiesto ed ottenuto il risarcimento di danni ulteriori e diversi rispetto a quelli patrimoniali consistenti nel mancato guadagno, anche futuro, perché trattandosi di istanza di rimborso spetta al ricorrente dimostrare l’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto.
Conclude chiedendo il rigetto dell’appello e la condanna dell’appellante alle spese di giudizio.
5. All’odierna Camera di consiglio, la causa è passata in decisione allo stato degli atti.
6. L’appello proposto dalla contribuente è da ritenersi fondato e va quindi accolto per i motivi di seguito esposti.
7. La contribuente si duole che la somma accordatele dal Giudice del lavoro sia stata assoggettata ad imposta sul reddito, nonostante che essa sia stata liquidata a titolo di risarcimento per la omessa stabilizzazione del posto di lavoro; di contro l’Ufficio conferma la legittimità del proprio operato, sostenendo che ai sensi dell’art. 6, comma 2, del TUIR, le somme sostitutive di redditi concretizzano una fattispecie di lucro cessante e, in quanto tali, da assoggettare all’ IRPEF.
Entrambe le parti hanno prodotto giurisprudenza di merito a sostegno delle proprie ragioni, che conferma la controversa interpretazione delle disposizioni in materia e la sussistenza di possibili letture alternative.
8. Il primo giudice ha dimostrato di aver seguito la prospettazione sfavorevole offerta dall’Ufficio, così respingendo la pretesa della parte privata.
Una siffatta decisione non è però condivisibile. Per dirimere la controversia, infatti, non si tratta di stabilire se si è in presenza di un danno emergente oppure di un lucro cessante, discrimine che comporterebbe (o meno) l’assoggettamento all’imposta sul reddito, ma di comprendere la decisione del Giudice del lavoro in maniera più aderente alla risposta data in quella sede alla domanda azionata dall’interessata.
Appare evidente che una volta compresa l’effettiva volontà decisionale del Giudice ordinario non possa sussistere una diversa interpretazione di tale pronuncia, né in sede amministrativa, né in sede giurisdizionale.
Risulta chiaramente in atti che il principale e più diretto interesse giuridico del lavoratore precario era quello della stabilizzazione della propria posizione; il Giudice del lavoro ha condiviso la doglianza ed ha ritenuto fondata tale richiesta, ma non ha potuto disporre in conseguenza, dandovi così seguito in maniera specifica, per il divieto posto da norme imperative sulla disciplina del rapporto di lavoro nella P.A.; in necessitata alternativa (e quindi per equivalente) ha condannato l’Amministrazione- cui, come detto, non poteva imporre l’assunzione stabile- a risarcire il danno procurato con la mancata stabilizzazione del rapporto di lavoro, rapportandolo economicamente ad alcune mensilità di retribuzione.
Il giudice tributario deve pertanto prendere atto che le somme in questione sono state corrisposte a titolo di risarcimento di un danno subito dall’interessata, consistente nella mancata applicazione di disposizioni relative al rapporto di lavoro da trasformare da precario in stabile, il cui ristoro è stato commisurato, per equivalente, al parametro costituito dalla retribuzione già percepita, non essendo possibile procedere al risarcimento in forma specifica per il divieto di assunzione nel pubblico impiego, non derogabile in via pretoria, ed affermandosi pertanto l’esigenza di ricercare una soluzione alternativa consentita.
La somma corrisposta non può dunque essere considerata produttiva di reddito (cioè di aumento del patrimonio personale) nel senso datole dall’Ufficio e quindi non può essere ritenuta soggetta ad imposizione fiscale del tipo di quella prevista sugli stipendi.
Accedendo invece alla differente prospettazione dell’Amministrazione finanziaria, peraltro non del tutto priva di pregio in taluni suoi profili, qualunque risarcimento, per il sol fatto di essere stato determinato rapportandolo ad un parametro oggettivo quale la retribuzione, avrebbe natura reddituale, con conseguente tassazione, ma la circostanza che lo stesso sia stato parametrato a mensilità retributive non cambia l’effettivo pronunciamento del Giudice del lavoro.
La distinzione fra danno emergente e lucro cessante, seppure specularmente interessante e sostenuta da interessanti argomentazioni, è nel caso fuorviante, perché ciò che il Giudice del lavoro ha effettivamente deciso è il diritto al posto stabile, che se fosse stato possibile disporre, non avrebbe di certo creato alcun contenzioso come l’attuale.
L’adempimento per equivalente non può pertanto mutare l’effettivo contenuto della pronuncia emessa e trasformare in un reddito tassabile ciò che, in origine, non lo sarebbe stato.
Alle stesse conclusioni favorevoli alla contribuente sono giunte anche altre sentenze di questa C.T.R., oltre quella citata dalla parte attrice (ex multis, sentenze n. 5045/01/2016, n. 898/05/2017 e n. 1530/05/2017).
A ciò si aggiunga il paradosso che si verrebbe a creare se a un soggetto danneggiante fosse consentito di trattenere, sia pure a diverso titolo, una parte del risarcimento stesso, già di per sé penalizzante per l’interessato, che si è visto compensare un proprio diritto (giudizialmente accertato) con alcune mensilità retributive in luogo della ben più sostanziale e duratura stabilizzazione del posto di lavoro.
9. Ne consegue, in definitiva, che l’appello proposto dalla contribuente va accolto per quanto fin qui esposto e la decisione della C.T.P. impugnata va pertanto in tal senso riformata.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis per le affermazioni più risalenti Cass. Civile- Sezione II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cass. Civile- Sezione V 16 maggio 2012 n. 7663).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati ritenuti dal Collegio non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
Ricorrono idonei motivi per disporre la compensazione delle spese, considerato il contrasto giurisprudenziale esistente.
Accoglie l’appello. Spese compensate.
Così deciso nella Camera di consiglio del giorno 29 maggio 2017.
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