COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per le Marche sentenza n. 564 sez. 1 depositata il 15 settembre 2016
Massima
La Direzione Provinciale dell’Agenzia dell’Entrate di Pesaro e Urbino emetteva un avviso di accertamento nei confronti di una società sulla base di documentazione extra-contabile rinvenuta in una cassaforte. Secondo la contribuente, dal momento che l’apertura della cassaforte era avvenuta senza l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica o dell’autorità giudiziaria più vicina, il provvedimento emesso era illegittimo per violazione dell’art. 52 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n.633. Dopo che la CTP di Pesaro aveva respinto il ricorso argomentando che, come risulta dal PVC, il contribuente non aveva espresso alcun dissenso all’apertura della cassaforte, la società proponeva appello presso la CTR di Ancona. I giudici marchigiani, nel confermare l’esito del primo grado, citano sul punto il recente orientamento della Suprema Corte (Cass. Civ., Sez. Trib., 18 febbraio 2015, n. 3204) secondo la quale l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica è richiesta soltanto nel caso di “apertura coattiva”, restando invece esclusa nel caso in cui il contribuente abbia assistito a tale apertura senza formulare alcuna contestazione specifica in sede di dichiarazione resa a chiusura della verifica.
n tema di legittima acquisizione degli elementi di accertamento delle imposte non è necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’apertura di casseforti quando il contribuente abbia assistito a tale apertura senza formulare alcuna contestazione specifica in sede di dichiarazione resa a chiusura della verifica.
FATTO
Con avviso di accertamento della Direzione Provinciale di Pesaro e Urbino dell’Agenzia delle Entrate n. TQ9032300158/2010, notificato l’11 giugno 2010, venivano determinati a carico della società G. s.r.l., con sede in Novafeltria, un reddito d’impresa di Euro 161.790,00 a fronte di quello dichiarato di Euro 24.030,00 e, conseguentemente, una maggiore imposta IRES per Euro 45.461,00, una maggiore imposta IRAP per Euro 7.095,00 e una maggiore imposta IVA per Euro 71.286,00, irrogando contestualmente sanzioni per Euro 106.929,00. Il provvedimento scaturiva dalle risultanze del processo verbale di constatazione notificato alla società contribuente in data 22.04.2008 da parte della Guardia di Finanza, Brigata di Novafeltria, a compimento di una verifica fiscale generale relativa agli anni di imposta 2006 e 2007. Nel corso di detta verifica era stata rinvenuta una copiosa documentazione extra-contabile, che veniva posta a confronto con le scritture contabili tenute dalla società, al fine di verificare l’avvenuta contabilizzazione o meno delle operazioni di vendita ivi indicate; dal riscontro emergeva che una parte delle vendite non era stata fatturata. Sempre in sede di accesso era stata rinvenuta documentazione bancaria intestata al sig. C. M., dipendente della G. s.r.l. deceduto nell’agosto 2006. Tale documentazione si riferiva a conto corrente acceso presso l’Istituto Bancario Sanmarinese della Repubblica di San Marino, movimentato fino all’agosto 2006; su tale conto erano confluite somme relative all’incasso dì assegni e/o contanti, risultanti quali pagamenti per cessioni effettuate dalla società ricorrente e non fatturate. In merito alle operazioni individuate la società non aveva fornito elementi che collegassero gli importi versati con le cessioni regolarmente fatturate. Avverso il provvedimento sopra specificato la società proponeva ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale di Pesaro, deducendone l’illegittimità, in via preliminare, per violazione dell’art. 52 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, poiché la documentazione bancaria intestata al sig. C. (che aveva dato luogo ai rilievi di maggiore entità) in quanto contenuta in una cassaforte, era stata acquisita dalla Guardia di Finanza senza l’autorizzazione del procuratore della Repubblica o dell’autorità giudiziaria più vicina. Nel merito, per quanto riguarda i documenti intestati al sig. C., asseriva la non attinenza degli stessi alla società, ma alla sfera privata del dipendente, evidenziando inoltre che in base allo studio di settore elaborato dal Ministero delle Finanze la medesima società era risultata congrua e coerente in 6 indici su 8 calcolati, sicché alla luce della giurisprudenza della Corte di Cassazione non avrebbe potuto essere sottoposta ad accertamento analitico induttivo basato su presunzioni semplici, ancorché gravi, precise e concordanti. L’ Ufficio controdeduceva, ribadendo la legittimità dell’atto impugnato e confutando in maniera specifica tutte le censure mosse, sia in riferimento all’assenta irritualità dell’acquisizione della documentazione contenuta nella cassaforte, che in relazione alla riferibilità della documentazione stessa alla sfera giuridica della ricorrente, evidenziando inoltre che la congruità e coerenza con gli studi di settore non fosse comunque in grado di smentire la ricostruzione delle operazioni in nero poste in essere dalla società. La Commissione Tributaria Provinciale, con sentenza n. 88/3/11 del 26 maggio 2011, ha respinto il ricorso, argomentando, quanto all’acquisizione della documentazione, che il contribuente non ha espresso alcun dissenso all’apertura della cassaforte, come risulta dal PVC, e osservando, nel merito, che la congruità con gli studi di settore non impedisce all’erario di procedere all’accertamento analitico – induttivo basato su presunzioni semplici, dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, avuto anche riguardo alla circostanza che la società non è stata in grado di fornire giustificazioni in merito alle somme contestate dai verificatori, relative a vendite non fatturate. Ha proposto tempestivo appello in questa sede la società contribuente, chiedendo la riforma della sentenza impugnata, riproponendo le censure formulate in prime cure e sottoponendo a critica le argomentazioni utilizzate dalla Commissione Tributaria Provinciale per disattenderle. L’Ufficio si è costituito in giudizio per contestare l’appello, reiterando ed ampliando le argomentazioni difensive già formulate nel giudizio di primo grado e chiedendo la conferma della sentenza impugnata.
DIRITTO
1. L’appello è infondato e deve essere respinto. Con il primo motivo (riproponendo le argomentazioni del ricorso di prime cure) viene dedotta la violazione dell’art. 52 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, poiché parte della documentazione posta a base dell’avviso di accertamento impugnato, custodita nella cassaforte della società, era stata acquisita dalla Guardia di Finanza senza l’autorizzazione del procuratore della Repubblica o dell’autorità giudiziaria più vicina e quindi, ad avviso della società appellante, non poteva essere utilizzata. La censura è infondata. Secondo la giurisprudenza (Cass. Civ., Sez. Trib., 18 febbraio 2015, n. 3204), in tema di accertamento delle imposte l’autorizzazione del procuratore della Repubblica all’apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti e mobili in genere, prescritta in materia di IVA dall’art. 52, terzo comma. D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 (e necessaria anche in tema di imposte dirette, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 33 D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600), è richiesta soltanto nel caso di “apertura coattiva”, e non anche quando l’attività di ricerca si svolga con la collaborazione del contribuente; in applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha escluso la necessità di detta autorizzazione nel caso in cui il contribuente abbia assistito all’apertura della cassaforte senza formulare alcuna contestazione specifica in sede di dichiarazione resa a chiusura della verifica. Tanto si è verificato nella fattispecie oggetto del presente giudizio, come risulta dalla documentazione in atti, sicché le argomentazioni della parte appellante non possono trovare accoglimento.
2. Con il secondo motivo si deduce l’illegittimità dell’avviso di accertamento impugnato in prime cure assumendo che la società contribuente, nel periodo preso in considerazione dalla verifica è risultata congrua e coerente con gli studi di settore, e richiamando un orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale l’Amministrazione non potrebbe procedere all’accertamento analitico – induttivo, basato su presunzioni semplici, ancorché dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, nei confronti dei contribuenti congrui e coerenti con gli studi di settore. Neppure tali argomentazioni meritano di essere condivise. Premesso che la giurisprudenza citata dalla società contribuente (ordinanze 4 giugno 2009 n. 12956 e 15 giugno 2009 n. 13915 della Corte di Cassazione, Sezione Tributaria) non è del tutto pertinente con la problematica in esame, concernendo la più ampia questione della legittimità dell’accertamento analitico – induttivo anche in presenza di scritture contabili formalmente corrette, osserva la Commissione che la società è risultata non coerente in 2 indici su 8 calcolati (tra l’altro significativi, come il valore aggiunto per addetto ed il margine operativo lordo) circostanza questa sintomo di uno squilibrio che di per sé solo giustificava il ricorso all’accertamento analitico – induttivo. Aggiungasi che l’attendibilità delle procedure di elaborazione degli studi di settore non impedisce all’Amministrazione di svolgere l’azione di accertamento con le ordinarie procedure e di pervenire magari a risultati diversi da quelli degli stessi studi, anche nei confronti dei contribuenti che risultano congrui e coerenti, fermo restando il fatto che la motivazione dell’avviso di accertamento dovrà dare specifica evidenza alla circostanza che le presunzioni, eventualmente utilizzate per la ricostruzione dei ricavi o compensi effettivamente conseguiti, presentino requisiti di gravità, precisione e concordanza di entità e qualità tali da rendere la ricostruzione stessa maggiormente attendibile rispetto a quella derivante dall’applicazione degli studi di settore. Tale onere di motivazione è stato assolto dall’Ufficio, come verrà chiarito nella disamina del successivo motivo di appello.
3. Con l’ultima censura la società contesta nel merito le conclusioni cui è pervenuto l’impugnato avviso di accertamento, sostenendo l’estraneità alla propria sfera giuridica di parte della documentazione rinvenuta dalla Guardia di Finanza in sede di verificazione (il conto corrente intestato al sig. C. M., già deceduto) e l’inidoneità della restante documentazione a comprovare qualsiasi meccanismo di evasione fiscale. Anche tale censura è destituita di fondamento.
3.1 Dagli atti del giudizio si evince che, in occasione dell’accesso alla sede della società contribuente, la Guardia di Finanza ha rinvenuto una copiosa documentazione extra-contabile (ricevute di pagamenti, fotocopie di assegni, distinte di versamento di assegni post-datati) che è stata posta a confronto con le scritture contabili tenute dalla società stessa, al fine di verificare l’avvenuta contabilizzazione o meno delle operazioni di vendita effettuate; da tale riscontro è emerso che una parte delle vendite non era stata fatturata. Nel corso della verificazione veniva acquisita, inoltre, documentazione bancaria relativa a conto corrente acceso presso un istituto bancario della Repubblica di San Marino e intestato al sig. C. M., dipendente della società, deceduto nell’agosto 2006; da tale documentazione si rilevava che sul conto erano confluite somme relative all’incasso di assegni e/o contanti, risultanti quali pagamenti per cessioni poste in essere dalla società e non fatturate. Era acquisita, inoltre, documentazione relativa ad altro conto cointestato al rappresentante legale ed ai soci della società contribuente, movimentato nel periodo immediatamente successivo (ottobre 2006 – gennaio 2007), sul quale erano stati fatti confluire, con le medesime modalità, assegni ricevuti a fronte di vendite fatturate e no. A conclusione della verificazione, il totale delle operazioni di versamento non giustificate ed imputate a cessioni in evasione d’imposta era determinato nella complessiva somma di Euro345.757,00.
3.2 Le argomentazioni difensive dell’appellante non meritano di essere condivise. Quanto all’asserita estraneità alla società del conto corrente intestato al C., meritano integrale conferma le considerazioni contenute nella sentenza di prime cure, con cui si è evidenziato che la ricca movimentazione del c/c risulta imputabile alla società, considerati i continui versamenti e prelevamenti fatti periodicamente, non giustificabili in capo a un semplice dipendente di una società che nel 2005 ha denunciato appena Euro 25.000,00 di reddito. Tale tesi è confermata dalla circostanza che dopo il decesso del dipendente la società ha aperto un nuovo c/c intestato all’amministratore ed ai due soci, e anche su questo sono transitate, con identiche modalità, somme relative a vendite non fatturate. Si deve aggiungere che l’operato dell’Ufficio ha trovato riscontro in precisi dati di fatto, poiché i verificatori hanno ricostruito in dettaglio il complesso intreccio di operazioni non registrate con i relativi pagamenti confluiti dapprima sul conto corrente intestato al C., e successivamente, dopo il decesso di quest’ultimo, sull’altro conto cointestato, e quindi imputabile alla società. E non si è trattato solo dell’accredito su tale conto di assegni post-datati ricevuti dai propri clienti per operazioni regolarmente contabilizzate, che ad avviso della parte appellante, comportando una mera irregolarità contabile, non realizzerebbe alcun danno per l’erario; dal controllo della documentazione contabile obbligatoria tenuta dalla società è risultato che su entrambi i conti (quello del C., e quello cointestato) erano confluiti i corrispettivi di vendite “in nero” effettuate dalla società, per le quali non era stata emessa alcuna fattura.
4. In definitiva, ritiene la Commissione che l’Ufficio abbia fornito indizi gravi, precisi e concordanti della riferibilità della documentazione bancaria rinvenuta in sede di verificazione (e custodita nella cassaforte della società) ad operazioni di vendita non fatturate.
Alla luce di quanto sopra si deve respingere l’appello, siccome infondato, ma si ravvisano ragioni per disporre la compensazione delle spese del giudizio.
P.Q.M.
La Commissione respinge l’appello. Spese compensate.
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