COMMISSIONE TRIBUTARIA Regionale di Milano – Sentenza n. 4401 sez. 27 del 12 ottobre 2015
ACCERTAMENTO – OPERAZIONI ELUSIVE – CONTRADDITTORIO PREVENTIVO – NECESSARIETA’ – SUSSISTE
FATTO E SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
In data 06/08/2011 veniva notificato alle società M. M. S.P.A. e M. S.P.A. l’avviso di accertamento n. …/2011 dal quale scaturiva una maggiore imposta sul reddito delle società pari ad Euro 21.774,00 per l’anno d’imposta 2008: il recupero a tassazione si fondava sul disconoscimento della deducibilità di interessi passivi su prestito obbligazionario per Euro 79.177,46, in violazione dell’art. 109, comma 5, del TUIR.
Con ricorso depositato in data 22/03/2012 la M. M. S.P.A. (controllata-consolidata) nonché la M. S.P.A. (controllante-consolidante) impugnavano il suddetto avviso di accertamento richiedendone l’annullamento per i seguenti motivi: erronea configurazione dell’istituto dell’ abuso del diritto, violazione delle modalità procedimentali contemplate dall’art. 37 bis D.P.R 600/73, carenza di motivazione e violazione dell’art. 42 D.P.R. 600/73 , erronea applicazione dell’art. 109 del TUIR sugli interessi passivi considerati indeducibili per difetto di inerenza e antieconomicità; nel merito le predette ricorrenti ritenevano infondato l’operato della Direzione Provinciale per non aver considerato le finalità dell’operazione di prestito obbligazionario che invece si collocava, a dire delle ricorrenti, nell’ambito di una complessiva revisione dei rapporti finanziari infragruppo nell’ottica di massimizzazione del valore della società. L’Ufficio, costituitosi in giudizio, sosteneva invece che la società avesse posto in essere una fattispecie riconducibile al c.d. “abuso del diritto”, realizzando un’operazione priva di valide ragioni economiche, nella fattispecie il prestito obbligazionario contratto con i soci aveva finanziato quasi integralmente l’acquisto di azioni proprie e consentito di conseguenza la deducibilità di interessi passivi.
La C.T.P. di Milano, con sentenza n. 6468 del 18/06/2014, accoglieva il ricorso e annullava l’avviso disponendo che la questione della mancata osservanza, da parte dell’Ufficio, del procedimento previsto dall’art. 37 bis D.P.R. 600/73 avesse carattere assorbente rispetto alla natura elusiva o meno dell’operazione, posto che “l’operatività della garanzia prescritta dall’art.37 bis co. 4 va riconosciuta ad ogni tipologia di accertamento antielusivo, ivi compreso il c.d. abuso del diritto”; inoltre, l’operazione non era da considerarsi “abusiva od elusiva” in quanto “dal verbale del C.D.A. di M. del 15/07/2005 è evidente che le operazioni si collocavano in un contesto più ampio, che prevedeva la complessiva revisione dei rapporti finanziari infragruppo. Sulla contestata antieconomicità infine non risulta provato dall’Ufficio che il medesimo scopo poteva essere raggiunto a costo zero”.
Avverso tale sentenza l’Ufficio ha proposto appello per i seguenti motivi:
1) erronea pronuncia del giudice di primo grado in ordine alla presunta violazione dell’art. 37 bis del DPR 600/73: secondo l’Ufficio, una norma speciale, quale quella contenuta nell’art. 37 bis, non può individuare presupposti per l’applicazione di un principio generale come quello dell’abuso del diritto per cui, secondo l’insegnamento della Suprema Corte di Cassazione cristallizzato nella sentenza n. 30055 del 23/12/2008, nessun vincolo procedimentale dettato per una fattispecie elusiva tipica può imporsi all’Amministrazione Finanziaria quando quest’ultima contesta l’inopponibilità degli effetti realizzati attraverso una fattispecie negoziale che si configura come abusiva;
2) insufficiente motivazione della sentenza e violazione dell’art.109 TUIR: secondo l’Ufficio i giudici di prime cure si sarebbero limitati a recepire le difese svolte dalla parte ricorrente che aveva negato qualsiasi correlazione finanziaria tra l’emissione del prestito obbligazionario e l’acquisto di azioni proprie: le ricorrenti in prime cure avevano sostenuto infatti che l’emissione del prestito obbligazionario sarebbe stata un’operazione svincolata dalle precedenti avente lo scopo di riconfigurare il capitale di M. M. S.P.A. aumentando il peso del capitale di debito e che la liquidità necessaria all’acquisto di azioni proprie si sarebbe generata dalla vendita immobiliare effettuata nel 2005 nei confronti della S.P.A. M..
Secondo l’Ufficio, invece, le ricorrenti avevano posto in essere una fattispecie riconducibile alla figura dell’abuso del diritto realizzando un’operazione priva di valide ragioni economiche e dettata da motivazioni di carattere eminentemente fiscale: la M. M. S.P.A. infatti si avvaleva già di capitale di debito ma, essendo interamente finanziata dalla controllante S.P.A. M. (socio qualificato secondo i parametri della thin capitalization rule), il finanziamento ottenuto da quest’ultima generava interessi passivi in parte indeducibili; diversamente, tramite l’emissione del prestito obbligazionario a favore della mutuataria M. M. S.P.A. si rendeva possibile ottenere un notevole risparmio fiscale sia in capo alla stessa società mutuataria (che ha dedotto interessi passivi), sia in capo ai soci di quest’ultima che anziché percepire dividendi i quali, prima di essere tassati in capo al socio, scontano l’I.R.E.S. in capo alla società, hanno ritratto interessi attivi tassati alla fonte con ritenuta del 12,50%.
L’Ufficio ha contestato inoltre l’antieconomicità e il difetto di inerenza ai sensi dell’art. 109 del TUIR, in quanto il risultato di vincolare parte delle riserve disponibili avrebbe potuto essere realizzato a costo zero attraverso un aumento di capitale sociale, il che ha portato a ritenere che sono stati sostenuti costi per interessi che non avevano ragione di essere corrisposti.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il Collegio ritiene che l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate vada respinto per i seguenti motivi.
In primo luogo va evidenziato che nel nostro ordinamento l’abuso del diritto si configura come uno sviluppo teorico teso a sopperire alla mancanza di una clausola generale antielusiva volta a impedire la realizzazione di operazioni negoziali il cui scopo essenziale sia il mero risparmio di imposta.
Secondo la costante giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenze 23 dicembre 2008 n. 30055 e n. 30057; Corte di Cassazione, Quinta Sezione Civile, sentenza 7 novembre 2012 n. 19234) il generale divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale immanente all’ordinamento che trae fondamento dai principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione di cui all’art. 53 della Costituzione.
La Suprema Corte infatti, con sentenza n. 22994/2010 ha ribadito l’esistenza di un “principio generale antielusivo, la cui fonte è reperibile nel diritto e nella giurisprudenza comunitaria per quanto riguarda i tributi armonizzati mentre per le imposte dirette è reperibile nelle norme costituzionali che sanciscono il criterio di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione”.
Tale principio generale preclude al contribuente di conseguire vantaggi fiscali mediante l’uso distorto, anche se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. Esso comporta che il negozio non sia opponibile all’amministrazione finanziaria per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva.
Il ricordato orientamento giurisprudenziale implica, come suo naturale corollario, che il divieto di abuso del diritto in materia tributaria debba ritenersi immanente e dunque operante nel nostro ordinamento fin da prima dell’entrata in vigore dell’art. 37 bis del D.P.R. n. 600 del 1973, con la conseguenza che quest’ultima disposizione è da considerarsi una norma speciale, con la quale il legislatore ha applicato la clausola generale antielusiva al settore delle imposte sui redditi per ipotesi tassativamente indicate.
Proprio l’immanenza del principio di abuso del diritto e la sua preesistenza come principio cardine dell’ordinamento rispetto a qualsivoglia norma speciale, fa sì che anche con riguardo alle fattispecie non riconducibili all’art. 37 bis del D.P.R. n. 600 del 1973, debba essere instaurato il previo contraddittorio fra l’Amministrazione Finanziaria e il contribuente e che il vizio del contraddittorio conseguente alla violazione del termine posto a garanzia procedurale dal comma quarto dello stesso articolo produca la nullità dell’atto impositivo.
Pertanto l’amministrazione finanziaria che intenda contestare fattispecie elusive, anche se non riconducibili alle ipotesi contemplate dall’art. 37 bis del D.P.R. n. 600 del 1973, è tenuta, a pena di nullità dell’atto impositivo, a richiedere chiarimenti al contribuente e a osservare il termine dilatorio di sessanta giorni, prima di emettere l’avviso di accertamento, il quale dovrà essere specificamente motivato anche con riguardo alle osservazioni, ai chiarimenti e alle giustificazioni, eventualmente fomiti dal contribuente (Corte di Cassazione, Quinta Sezione Civile, sentenze 14 gennaio 2015 n. 406 e 5 dicembre 2014 n. 25759).
Tale conclusione si collega idealmente, rappresentandone l’evoluzione, a precedenti decisioni delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con le quali è stato riconosciuto che l’inosservanza da parte dell’amministrazione del termine dilatorio di sessanta giorni dal rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni, posto a garanzia del diritto di difesa del contribuente, determina la nullità dell’atto di accertamento emesso ante tempus anche in mancanza di un’espressa comminatoria, salvo che non ricorrano specifiche ragioni di urgenza, le quali devono essere adeguatamente motivate (Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza 29 luglio 2013 n. 18184); analogo principio è stato riconosciuto in materia di iscrizione ipotecaria prevista dall’art. 77 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), avendo statuito i Supremi Giudici che l’attivazione del contraddittorio endoprocedimentale costituisce un principio fondamentale immanente nell’ordinamento, operante anche in difetto di una espressa e specifica previsione normativa, a pena di nullità dell’atto finale del procedimento, per violazione del diritto di partecipazione dell’interessato al procedimento stesso (Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza 18 settembre 2014 n. 19667).
Recentemente la Corte Costituzionale ha ulteriormente confermato tale orientamento e, con sentenza 7 luglio 2015 n. 132, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37 bis, comma 4, del D.P.R. n. 600 del 1973 sollevata dalla Corte di Cassazione in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione asserendo che la sanzione prevista dalla norma censurata non è posta a presidio di un mero requisito di forma del procedimento, estraneo alla sostanza del contraddittorio, ma costituisce invece strumento efficace ed adeguato di garanzia dell’effettività del contraddittorio stesso e di tutela delle ragioni del contribuente che deve essere messo nelle condizioni di interloquire con l’amministrazione procedente ben prima dell’adozione dell’atto impositivo, pena, in mancanza, la radicale nullità di quest’ultimo con coevo obbligo di annullamento in radice dell’avviso di accertamento emanato prematuramente in assenza del rispetto delle garanzie endoprocedimentali a presidio del contribuente.
La necessità che al contribuente sia consentito di partecipare al procedimento e la ragionevolezza della sanzione di nullità dell’atto impositivo in caso di violazione del termine stabilito per garantire l’effettività di tale partecipazione, sono ancora più evidenti se si considerano le peculiarità dell’accertamento delle fattispecie elusive e il ruolo decisivo che in esso possono svolgere gli elementi fomiti dal contribuente, in particolare in vista della valutazione che l’amministrazione è chiamata a compiere dell’esistenza di valide ragioni economiche sottese alle operazioni esaminate: si consideri che le operazioni ritenute dall’Ufficio potenzialmente abusive scaturiscono dall’uso, ad opera del contribuente, di strumenti giuridici del tutto leciti e/o di operazioni negoziali che trovano in apparenza una valida giustificazione causale, operazioni e strumenti di cui il contribuente deve essere messo tempestivamente nelle condizioni di provare la valida ragione economica che possa fondare il complessivo assetto di interessi raggiunto e giustificare il relativo risparmio d’imposta.
Anche le recenti modifiche normative in tema di abuso del diritto muovono in tal senso. L’art. 1 del D.Lgs. 128 del 5/08/2015, in ottemperanza alla raccomandazione 2012/772/UE sulla pianificazione fiscale aggressiva, ha inserito l’art. 10 bis nello Statuto dei diritti del contribuente ed ha disciplinato l’abuso del diritto e l’elusione fiscale avendone attribuito portata generale per tutti i tributi, imposte sui redditi e imposte indirette, fatta salva la speciale disciplina vigente in materia doganale.
In sostanza, con il recente intervento normativo si è introdotta una norma generale antiabuso con la contestuale abrogazione dell’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973 in precedenza applicabile solo per l’accertamento delle imposte sui redditi ad un numero chiuso di operazioni tassativamente indicate: il decreto elimina definitivamente qualsiasi incertezza interpretativa sul punto, prevedendo espressamente che per qualsivoglia tributo l’accertamento dell’abuso del diritto da parte dell’Amministrazione Finanziaria inizi con la richiesta di chiarimenti da parte dell’Ufficio, che, a seguito dell’inoltro della richiesta di chiarimenti il contribuente – ove ne ravvisi l’opportunità – fornisca entro 60 giorni dalla notifica della richiesta giustificazioni a supporto delle operazioni poste in essere, e che, soltanto all’esito della risposta del contribuente, l’Ufficio possa notificare l’atto impositivo a pena di nullità in caso di mancato rispetto del termine a difesa. La nuova norma ha in definitiva cristallizzato un principio immanente nell’ordinamento già esistente sancendo viepiù l’obbligo della tutela endoprocedimentale a favore dei soggetti incisi da provvedimenti impositivi nella peculiare materia dell’elusione fiscale.
Alla luce di quanto detto, nel caso di specie, correttamente ha operato il giudice di prime cure accogliendo l’eccezione di nullità dell’avviso di accertamento per mancato rispetto della garanzia procedimentale ex comma 4, art. 37 bis D.P.R 600/73 e ritenendola assorbente rispetto all’esame della natura elusiva o meno dell’operazione posta in essere dalla società.
P.Q.M.
La Commissione respinge l’appello confermando la decisione impugnata. Nulla sulle spese.
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